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L’intromissione dell’homo cinematographicus con lo scorrere cronologico del film ha una valenza altamente creativa. Tralasciando in questa trattazione una disamina approfondita delle tipologie temporali legate al medium cinematografico ci concentreremo sulle aperture che il film di Antonio Pietrangeli, "Io la conoscevo bene" (1965), pone in questa direzione

Non solo si tratta di ellissi, flashback e flashforward, che in svariate occasioni si confondono con la narrazione lineare del film, ma di un’apposita confusione che permette un’intromissione creativa al fruitore. In questa dinamica di sovrapposizione, in cui il tempo vitale del fruitore si accomuna ai tempi del film [1], la dimensione puramente cronologica perde qualsiasi tipo di valore e innalza il tempo della vita a garante di non far svanire la concezione temporale nel caos. Il presente, in quest’ottica, sarà costantemente un insieme indefinito di percezione moltiplicata dalla sua relazione con il passato e con il futuro. Bergson ha definito molto lucidamente il potere del ricordo, differenziandolo molto bene dalla semplice esperienza, intesa secondo lui in apprendimenti inconsci, ma distaccandolo dalla concezione di cinema, per lui esemplificazione pratica della mistificazione del movimento nel tempo. Involontariamente, e Deleuze se ne è accorto bene, ha rafforzato il cinema nella sua essenza di immagine in movimento a-temporale, in cui il rinnovato sguardo di ogni spettatore ne eternizza il significante simbolico. Procediamo con ordine. Bergson dice:
Ma la verità è che il nostro presente non deve essere definito come ciò che è più intenso: esso è ciò che agisce su di noi e ciò che ci fa agire, è sensoriale ed è motòrio; il nostro presente è prima di tutto lo stato del nostro corpo. Il nostro passato è, al contrario, ciò che non agisce più, ma potrebbe agire, ciò che agirà inserendosi in una sensazione presente da cui trarrà la vitalità. È vero che, nel momento in cui il ricordo si attualizza così, agendo, cessa di essere ricordo, ridiventa percezione. [2]

In questo modo il cinema è un continuo innesco di ricordo attualizzato per lo spettatore che nella sua fruizione ha la possibilità di percepire il film rivitalizzando se stesso e convergendo in questo modo dentro una temporalità cristallizzata non lineare. Pare evidente che nella parcellizzazione temporale in cui quello filmico, con le ellissi che ne derivano, il tempo della fruizione spettatoriale, ovvero la percezione personale dello stesso e il tempo cronologico atto alla loro connotazione convenzionale apre ad una dimensione a-temporale eternizzata. In questa dimensione nuova, in cui la linearità lascia finalmente il primato al tempo reale, tanto agognato da Bergson, lo spettatore ha la possibilità di vivere autenticamente l’esperienza del tempo, probabilmente nella sua forma più profonda e centrifuga. In questa concezione temporale il film di Pietrangeli dimostra ancora la propria potenzialità nascosta. La protagonista, e noi con lei, vive un tempo cronologico, quello del film, ma nello stesso istante lo confonde attivamente con i ricordi e le suggestioni future che l’accompagneranno. Basti pensare al fatto che lei aveva già visto la propria scomparsa e ne aveva percepita l’incombenza [3]. Inoltre ha avuto un contatto diretto con il tempo filmico direttamente con la sua presenza sullo schermo, permettendole in questo modo di notare la mistificazione creativa del cinema. La rottura dentro di lei, non è stata solamente la scena in cui si vede il dettaglio delle calze rotte, ma è stato vedere se stessa nell’ingranaggio a-temporale del film con la conseguenza di eternizzarne la presenza/assenza.

La narrazione, per quanto lineare voglia essere, si frantuma nella sua connessione con il passato e il futuro. Si cristallizza in una serie di possibilità, date dall’intromissione di una memoria mistificante. Lo spettatore, nella sua tranquillità non cerca un antenato "puro" del suo ricordo agente, ma si lascia trasportare dal film nei meandri della storia. Avvolto dall’atmosfera cinematografica, lo spettatore si lascia a sua volta stratificare di nuove prospettive catartiche o residuali. Senza avere una totale consapevolezza della materialità della partecipazione attiva al film si attiene a un atto di fedeltà nell’immagine e nel suo dispiegarsi in racconto. "Ne deriva un nuovo statuto della narrazione: la narrazione cessa d’essere veridica, cioè di pretendere al vero, per farsi sostanzialmente falsificante."[4] La falsificazione a cui fa riferimento Deleuze valorizza l’immagine anziché sminuirla proprio nella direzione di una compartecipazione attiva, e residuale, dello spettatore. L’apertura connotativa intrinseca in una concezione di immagine espansa temporalmente si palesa nella sua relazione diretta con la dimensione memoriale, e prolessica, a cui si rivolge nell’istante del suo dispiegarsi.

La spirale immersiva che coinvolge tutto ciò che incontra audiovisivamente non ha pretese di verità, proprio per la sua generazione positivamente mistificatoria, ma non in quanto basata sulla menzogna bensì sull’impossibilità di una sua genealogia pura e lineare. "È una potenza del falso che sostituisce e spodesta la forma del vero, perché pone la simultaneità di presenti impossibili o la coesistenza di passati non necessariamente veri."[5] Ma soprattutto non ha nessuna pretesa di verità adattandosi di volta in volta ad uno sguardo nuovo, e mutando a sua volta ad ogni nuovo osservatore. Il vortice si attiva in questo modo e svincola ogni tentativo di analisi archeologica del cinema. La semplice formalità cessa di essere predominante e si confronta con un contenuto che si modifica costantemente essendo intriso di memoria personale, sociale e illusoria. Cercare, come sottolineato, una predominanza lineare del tempo nel film risulta poco stimolante, viceversa comprenderne il carattere espanso e coinvolgente eleva il cinema ad arte totalizzante in grado di formare e condizionare attivamente l’homo cinematographicus. La compresenza di differenti temporalità nel cinema e nello specifico nell’immagine-tempo, tanto cara al filosofo francese, innalza la fruizione a momento esclusivo di compartecipazione alla creatività formale. Questa espansione temporale dilata e contrae, in modo assoluto, ogni tentativo di misurazione cronologica della durata. "La semplice successione concerne i presenti che passano, ma ogni presente coesiste con un passato e un futuro senza i quali esso stesso non passerebbe. Spetta al cinema cogliere questo passato e questo futuro che coesistono con l’immagine presente."[6] E con loro il tempo vitale di ogni spettatore, ogni sguardo e ogni coscienza, più o meno consapevole dell’azione, probabilmente anche organica, che l’atmosfera audiovisiva ha su di lui. Il percorso verso l’eternità spazio-temporale inizia nuovamente ad ogni visione, che colpisce colui che guarda non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente ed emotivamente.

Il fruitore è consapevole della sua partecipazione allo scorrere del film, al riunire tutti i frammenti che lo compongono; lo è meno quando si tratta di comprenderne il meccanismo formativo e residuale che lo attraversa. Metz ha analizzato sapientemente le dinamiche psichiche attive sul fruitore, e quanto la sua collocazione all’interno della sala cinematografica non sia prettamente fisica, ma anche, e soprattutto, mentale, al tempo stesso ha delineato la consistenza specchiante dello sguardo sull’immagine. Lo specchio non è solamente il vedersi empaticamente nel personaggio rappresentato, ma lo è a sua volta nella modificazione di sé, è uno specchiarsi duplice: in un primo approccio si vede nel film, ma successivamente ne può percepire l’azione su di sé, una sorta di propriocettività mentale. Il mondo del circostante si riflette in un gioco di rimandi infinito con la realtà filmica, immergendo lo spettatore ad ogni livello percettivo. In questo modo il film può, come sottolinea ancora Metz, più o meno delicatamente, "[…] depositarsi in me come su un secondo schermo, ed è in me che sfila e si sviluppa disponendosi in una successione, e sono dunque io il luogo in cui quell'immaginario realmente percepito accede al simbolico, instaurandosi come significante di un certo tipo di attività sociale istituzionalizzata, chiamata «cinema»."[7] In questa dinamica creativa il film, in relazione con il suo percepiente, crea un mondo reale che ingloba quello circostante, in cui lo spettatore si trova coincidenzialmente presente. Lo specchio quindi si amplifica di potere creativo e come giustamente ha evidenziato, anche in questo caso magistralmente Pietrangeli, si svincola da una denotazione oggettiva per entrare di diritto nell’ambito della creatività nell’accezione più ampia possibile. Adriana non solo specchiandosi ripetutamente vede sé e ci coinvolge in questo tentativo, riuscito peraltro, di trovare la propria identità, assente per l’appunto, ma dimostra al pubblico, svincolato da ogni riferimento temporale, che il tentativo di trovare una collocazione generativa di sé non è ammissibile, se non ad un livello infantile. Il cinema di Antonio Pietrangeli è fatto di creatività non apparente, ma profondamente ancorata all’intimità dello spettatore. Ci riesce perché il trattamento del tempo, con l’immagine espansa, e della spazialità, con l’immagine orizzontale [8], permettono al pubblico di entrare negli interstizi filmici in ogni suo aspetto. Ovviamente quello della temporalità è chiaro e specificatamente marcato. Nel film ci sono continui riferimenti al passato della protagonista con flashback che risultano, volutamente, di difficile decifrazione.

Tecnicamente non vengono evidenziati con possibili artifici, ad esempio dissolvenze incrociate o cambi di tonalità, ma si dichiarano solamente dopo alcune scene in cui lo spettatore può intuirne la natura. Questa, voluta, confusione temporale densa di rimandi al passato e al futuro sono emblematiche di un cinema che, non solo desidera l’intromissione dello spettatore nella storia, ma che ne richiede la decifrazione senza pretendere di elargire un’unica veridicità diegetica. Si tratta sempre di uno scambio in cui la relazione opera-spettatore si astrae dalla cronologia temporale per aprirsi ad uno spazio dissolto a-temporale. Come sottolinea anche Morelli la traccia mnestica che Pietrangeli propone allo spettatore per una rielaborazione critica e immersiva ha una sua caratteristica precipua nel "[…] trattamento del tempo, essendo l’unica opera dove non compare alcun specifico riferimento temporale […]. Questa sorta di paralisi suggerisce una situazione esistenziale che sembra avvitarsi su se stessa tra passato e presente, senza evoluzione possibile e senza sbocchi."[9] Ed è in quest’avvitamento che il guardante, seppur con tutte le sue peculiarità, è travolto, e ingaggiato, in una relazione psico-motoria e tattile. Ribadiamo che la situazione di a-temporalità non solo permette un’intromissione attiva dello spettatore, ma libera, nello stesso momento, l’opera da una sua collocazione storica. Evidentemente svincolato da una semplice storicizzazione formale e tecnica, il film entra a sua volta in una dimensione eternizzante in cui ogni proiezione ne rivitalizzerà l’essenza. Con questo non si vuole negarne il complesso simbolico, epocale e culturale – inteso storicamente – ma si cerca semplicemente di sottolinearne anche l’aspetto sottostante e difficilmente descrivibile. Dice perfettamente Cosulich indicando che "[…] la «vecchiaia» di un film non si misura in base agli anni, bensì agli stilemi e alle convenzioni cui risulta legato. Il che non significa ignorare in assoluto il peso dell’epoca che lo ha visto nascere, ma soltanto considerarlo in seconda battuta, per ratificare, ampliare, o correggere quella che verrebbe a essere la nuova prima «impressione»."[10] Ad ogni proiezione, dunque, l’homo cinematographicus ha l’opportunità di entrare in una dimensione nuova, in cui, nell’attimo dell’incontro con l’opera, avviene uno choc generativo, che lascia dei residui filmici agenti sulla percezione del circostante.

Entrando in questo caotico cosmos il fruitore si innalza a creatore e abita un mondo nuovo, ma non lo lascia al termine della proiezione perché lo confonde positivamente con il circostante. La separazione tra mondi, quello della realtà circostante e quello della realtà filmica, si dissolve immergendo colui che guarda, sarebbe meglio dire tocca, il film, filtrando ogni confine possibile. In questa dinamica oltre ad uscire da una collocazione sensoriale accede ad un’atmosfera a-temporale in cui l’unico elemento descrivibile è quello dello choc, come ha giustamente definito Simonigh.

Lo choc potrebbe essere concepito, quindi, come una sorta di collasso o catastrofe delle relazioni interne al complesso del sensorium e come manifestazione estrema della sospensione del rapporto con l’hic et nunc, la quale proietta – e in tal senso distrae dal tempo ordinario – l’esperienza in un attimo indivisibile, senza spessore, privato dei nessi con il prima e il dopo, nonché con la successione e lo sviluppo cronologico – simile, in questo senso, alla nozione originaria di atomos formulata da Aristotele. [11]
Adriana con la propria "assenza", non solo testimonia visivamente la potenza dell’immagine orizzontale, in cui il non visibile si rende tangibile, ma accompagna lo spettatore in una dimensione a-temporale dove la memoria si dissolve cronologicamente e diventa vitale. In questo percorso caotico, confuso tra i vari aspetti consapevoli e inconsci, si lascia attraversare dalla rete filmica. Uscendo da sé ogni passaggio lo avvicina sempre più intensamente al mondo cinematografico in cui tempo e spazio non hanno una definizione univoca, ma in cui, nello stesso istante, la vita diventa eterna.


L’immagine cristallizzata

Nell’atmosfera cinematografica lo spettatore entra in contatto con il materiale audiovisivo e si lascia attraversare dall’emittenza dell’immagine. La sua percezione attiva dentro di sé un richiamo indefinito di figure del passato che non hanno un’ontologia precisa; si confondono ripetutamente stratificandosi fra loro senza una predominanza gerarchica. In questa virtualità dinamica il film, con l’immagine orizzontale, permette la manomissione percettiva del fruitore che – pare evidente – diventa coautore dell’evento. Concentrando l’attenzione sulla natura dell’immagine pietrangeliana ci si rende conto che anche in questo autore della modernità si possono rintracciare svariati elementi caratteristici, come ad esempio sguardi fuori campo, semisoggettive e superfici riflettenti. Inquadrature che si dimostrano funzionali alla diegesi, ma ancor più ad un coinvolgimento intellettivo con lo spettatore. L’immagine, in questa direzione, perde ogni denotazione causale e si cristallizza di possibilità visive e connotative accedendo ad una dimensione simbolica. Il meccanismo con cui lo spettatore entra in questo gioco dinamico con il film è complesso, proprio per la sua essenza indefinita. Detto semplicemente: lo spettatore ha delle immagini mentali, che si è costruito con l’esperienza, necessarie per una sua collocazione e percezione del circostante, queste si sovrappongono a quelle filmiche permettendo una partecipazione attiva all’incontro. In questo choc esperienziale, dentro l’evento cinematografico, il visibile e l’invisibile concorrono con lo stesso potenziale. E proprio per questa loro caratteristica "virtuale" condizionano, anche, il circostante. In questa modalità formativa non si creano nuovi mondi, ma si modifica quello vissuto: si virtualizza la realtà. Bergson, ad esempio, specifica molto bene la natura indefinita del substrato immaginario che ogni spettatore porta con sé. Senza entrare nello specifico della sua personale polemica con il mezzo cinematografico, nella disanima del rapporto tra tempo e movimento, ci basti notare la precisa definizione che dà di immagine cinematografica:
Fissiamo delle vedute quasi istantanee sulla realtà che passa e, siccome esse sono caratteristiche di questa realtà, ci basta metterle in successione lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato al fondo dell’apparecchio della conoscenza, per imitare quello che vi è di caratteristico in questo divenire stesso. Percezione, intellezione, linguaggio procedono generalmente così. Che si tratti di pensare il divenire, o di esprimerlo, o anche di percepirlo, noi non facciamo che azionare una specie di cinematografo interno. Potremmo riassumere, dunque, tutte le osservazioni precedenti dicendo che il meccanismo della nostra conoscenza abituale è di natura cinematografica. [12]

È quasi paradossale che il filosofo francese indichi sostanzialmente una caratteristica fondamentale del cinema e soprattutto del suo potenziale nella vita di uno spettatore. Proseguendo questa riflessione si nota quanto il meccanismo non si arresti certo nella percezione del circostante, ma che si amplifichi smisuratamente ad ogni partecipazione ad un film. La conoscenza, dunque, non passa solamente nell’abitare il mondo circostante, ma si innalza ad ogni nuova "confusione" con l’immagine cinematografica orizzontale. L’immagine, quindi, ha una duplice funzione, da un lato ci mostra qualcosa, ma dall’altro, ancor più importante, ci suggerisce una possibilità di visione. Si palesa quindi la materialità dell’immagine, la sua funzione tattile e generativa. L’atmosfera cinematografica esplicita di volta in volta la consistenza formale e contenutistica dell’immagine, che si adatta specificatamente ad ogni sua messa in scena. "Questo insieme infinito di tutte le immagini costituisce una sorta di piano d’immanenza. L’immagine esiste in sé, su questo piano. Questo in-sé dell’immagine è la materia: non un qualcosa che sarebbe nascosto dietro l’immagine, ma al contrario l’identità assoluta dell’immagine e del movimento." [13] Deleuze esplicita ancora più radicalmente questo concetto, definendo una sorta di mondo della formalità pratica da cui ogni immagine trae materialità, ancorandosi al movimento per estrarla da una semplice apparenza. La materialità dell’immagine si scontra con la sua natura illusoria e trascendentale, ma è proprio nell’incontro con l’immaginario del fruitore che riesce a concretizzarsi e rendersi tangibile.

Questa sua "presenza", come abbiamo già sottolineato, è solamente una delle possibilità che offre. In questa funzione, ovvero di accessibilità al mondo dell’immagine immanente, ogni autore ha una personale sensibilità di suggerire questo legame. Pietrangeli, soprattutto in "Io la conoscevo bene", non solo dal punto di vista della diegesi permette allo spettatore di entrare in sintonia con le aperture che propone, ma visivamente lo interpella continuamente per offrirgli la possibilità di decifrare l’immagine. Non si tratta di immagini enigmatiche, che richiedono la risoluzione logica di un qualche elemento visivo, ma di aperture – orizzontali appunto – che rendono l’immagine iconologica, traccia, connotazione e transito. [14] Il passaggio dell’immagine non avviene solamente sullo schermo dunque, ma, ancor più importante, nello sguardo dello spettatore, che diventa filtro attivo della sua consistenza. L’autore quindi è, nella collaborazione con lo spettatore, responsabile di una funzione creativa che ha da un lato il suo referente nell’universo delle immagini e dall’altro la capacità immaginifica del guardante. "Narrando di ciò che è vivo l’artista opera con ciò che è morto: parlando dell’infinito, propone il finito. Si tratta di una sostituzione! Non si può materializzare l’infinito, se ne può soltanto creare l’illusione, l’immagine." [15] Tarkovskij ha ben presente il luogo in cui trova il suo referente simbolico, o meglio, il non-luogo, quella nebulosa spirituale che mal si adatta ad una visualizzazione materializzata. Ma anche in questo caso l’immagine diventa traccia superficiale di una significazione celata e profondamente attiva, proprio nella risposta audiovisiva del pubblico. Segno superficiale di un universo simbolico eterno, ma non immutabile, che non procede verso un linearismo teleologico, ma che si contrae ed espande in un'atmosfera cinematografica che modifica la realtà circostante. "Per uno spettatore il cinema è in primo luogo un territorio e non una storia; un territorio dove circolano figure e forme, immagini e storie, volti e paesaggi." [16] Questo "territorio" accoglie lo spettatore e contratta ad ogni istante problematiche legate alla veridicità, e realisticità, del mondo e di una sua possibile categorizzazione. L’atmosfera cinematografica, che oltre al "territorio", come lo definisce De Gaetano, comprende anche il circostante nel momento della visione [17], si virtualizza a sua volta e diventa immagine nell’immagine, rimando costante ad un mondo, l’unico, in cui la cristallizzazione del visivo modifica ogni percezione esterna. Lo spettatore, nel filtrare con i propri strumenti immaginari il film, naviga la propria coscienza, più o meno consapevolmente, stimolata dai continui rimandi alla sua memoria visiva, e a sua volta terreno fertile per il deposito di una residualità filmica atta a modificarlo definitivamente.

La paura dello scarto tra il sé e l’immagine che ne può fuoriuscire è esemplificata da Pietrangeli in Adriana, costantemente alla ricerca di un’identità superflua. Per tutta la durata del lungometraggio la protagonista compie questo gesto tanto ingenuo quanto primario: dov’è la propria immagine? O più precisamente, è possibile che un’immagine la identifichi? Il dramma della protagonista, che si risolve con la sua scomparsa, sia dall’immagine di sé che di ogni sua rappresentazione, si accentra in questa problematica. Adriana è consapevole, ma solo ad un certo punto, che né l’immagine che gli altri hanno di lei, né tanto meno quello che può vedere ritratta in una fotografia o peggio ancora al cinema, corrisponde al suo pensiero/immagine, all’immagine personale che aleggia dentro di lei, anche questa, peraltro, trasfigurata dal residuo della memoria esperienziale. Come indica Tagliabue "[…] il volto di Adriana moltiplicato con il gioco dello specchio, ma anche il rito del togliersi il trucco e la parrucca prima del suicidio, come atto catartico e liberatorio nei confronti di un mondo dove l’apparire conta più dell’essere, dove l’immagine costruita di sé, per la morale corrente, vale più dell’originale." [18] Purtroppo quell’immagine fedele si sé, la protagonista, non l’ha mai trovata; ha provato incessantemente a scoprirla, e il pubblico con lei, basti pensare a tutti i flashback che ripercorrono questo peregrinare nei ricordi alla ricerca di un frammento vero, reale, su cui potersi aggrappare, ma tutti i tentativi sono svaniti in una dissolvenza celata. Ma nemmeno in quelle, dissolte, immagini del passato, in cui la memoria si traveste di immaginario, Adriana è riuscita a cogliere un’immagine fedele di sé, una propria identità utile a confrontarsi con il mondo circostante. Ed è lì che probabilmente è tornata, nell’atmosfera filmica, colta dall’homo cinematographicus in grado di renderla eterna. Esemplificativo è il finale, così ben descritto da Canova che parlandone sottolinea l’importanza dei movimenti calibrati della protagonista "quasi a sancire con quel gesto di rinuncia o di congedo la definitiva presa d’atto del potere di mistificazione che ogni immagine porta con sé. Perché le immagini mentono e i personaggi di Pietrangeli lo sanno bene." [19] O forse ne diventano consapevoli durante la narrazione, ed è il caso di Adriana che urta con il potere mistificante dell’immagine nella sua avventura. D’altronde lei, con la sua ingenuità, insegue proprio questo: un’immagine di sé che venga riconosciuta da tutti, che finalmente sancisca il suo esserci al mondo. E quando finalmente assiste allo spettacolo della sua immagine in sala, sul grande schermo cinematografico che tutto amplifica, si accorge che le persone, nemmeno in quell’occasione, vedono lei, la vera lei, o almeno l’idea che ha di sé, di come vorrebbe apparire alla società.

Il dramma è compiuto, proprio perché non si tratta di un evento che si può circuire all’interno di una dinamica materiale, piatta, ma è nel gioco degli specchi in cui tutto si amplifica e tutto si distorce, ma in cui la realtà appare veramente per quella che è. Infatti lo spettatore, e i personaggi che abitano il film, conoscono il potere delle immagini, sanno che quest’ultime si nutrono di invisibile e possono essere trasfigurate. "Ma sanno anche che delle immagini non possono fare a meno: o perché impegnati a costruire un’immagine socialmente accettabile di sé […] o perché ossessionati dal bisogno di aver comunque a disposizione le immagini altrui." [20] Perché dall’immagine dell’altro si può trarre non solo il ricordo, ma se ne può intravvedere l’intimità, ma soprattutto vi è tutto il potenziale di aumentarne l’orizzonte di possibilità simbolica. L’immagine orizzontale amplifica e al tempo stesso nitidifica la realtà circostante. Proprio come una lente cinematografica entra negli interstizi del reale circostante e ne svela l’apparenza così lo spettatore accede al mondo dell’immaginario, personale e del film, in cui svela anche quello del suo autore, accrescendo in questo modo la consapevolezza dell’impossibilità di una visione pura del circostante. Non si tratta di una svalutazione del potere dell’immagine, anzi, è in questa dinamica aperta che lo spettatore può accedere al simbolico e rimediare [21] sé nel mondo e la percezione che ne ha. Come ha sottolineato Franzini è nell’incontro, nella messa in discussione della veridicità dell’immagine e di una sua valutazione multipla, che si espande il suo stesso valore.
L'associazione simbolica è dunque una essenziale valorizzazione dell'immagine, in quanto ne afferra descrittivamente spessori che rimandano alla sua stessa struttura esperienziale, che, come già si è osservato, "sospende" le asserzioni veritative della percezione e della memoria, attualizzandone piuttosto gli orizzonti di possibilità. [22]

È nell’apertura alla possibilità, al divenire dell’immagine, all’esplicitazione delle sue incongruenze con il circostante, che si riscontra la principale accoglienza per il fruitore. Ovviamente con la sua partecipazione attiva non solo accede ad una espansione della propria capacità di vivere il circostante, ma permette all’immagine di sedimentarsi dentro di sé. È l’azione, fisica, di ricreare l’immaginario al proprio interno, di filtrarlo e allo stesso tempo costituirlo, che avviene, anche, la residualità filmica: "lasciando tracce simboliche nell'anima dello spettatore, formando coscienze e nuove culture attraverso una profonda «psicologia cinematografica» che potremmo definire pari alla capacità terapeutica-formativo-pedagogica delle fiabe." [23] La capacità di assorbire il mondo, di leggerne delle nuove direzioni formative attraverso una modificazione della propria capacità di partecipazione al circostante, come abbiamo sottolineato, non avviene sempre e solamente a livello conscio. L’intervento di una stratificazione esperienziale, nella quale i ricordi, la memoria, i sogni, la fantasia e l’immaginazione si confondono tra loro in una successione non cronologia e definita, ma bensì nella nebulosa casuale della propria origine formativa, agisce anche a libello inconscio. In una precisa e dettagliata descrizione dei processi cognitivi che si trovano alla base dell’attività psichica gli studiosi sottolineano svariate volte la fonte inconsapevole del processo elaborativo e di recupero della memoria. Infatti, "l’esperienza soggettiva – che sia la percezione di un oggetto, il ricordo di un evento o il semplice recupero del nome di un oggetto – è soltanto la fase finale di un processo più o meno complesso che si svolge senza che ce ne avvediamo." [24] In questo modo si evidenzia ancora una volta la partecipazione non razionale al mondo delle immagini, immanente, direbbe Deleuze, in cui lo spettatore di volta in volta filtra la forma a-storica, e la ricolloca all’interno del proprio immaginario. In questo vortice di senso ha la possibilità di estrarne quello che meglio si adatta alla propria sensibilità e, non sempre consapevolmente, esserne condizionato per sempre, o almeno fintanto che una nuova immagine, per lui, si insinua nella coscienza, che a sua volta è parte di un immaginario collettivo e sociale che ben si intravvede nell’atmosfera cinematografica, ma anche in ogni altro media. "Decade in maniera evidente lo statuto dell’immagine in quanto apparenza e viene in primo piano non solo la consistenza fisica dell’immagine ma anche […] l’idea di un’immagine come mondo-ambiente cui fa necessariamente seguito – e questo è il punto centrale – l’idea che l’immagine apra la porta a nuovi mondi possibili." [25] Questi mondi, indicati da Vercellone, sono varie configurazioni del potenziale/immagine che, valorizzata ed esaltata da colui che guarda, si carica della responsabilità di dare una possibilità di accesso alla conoscenza di sé e di sé nella realtà. Trascendendo la pura consistenza dell’immagine e con la partecipazione attiva alla virtualità di sé nel, e attraverso il, circostante, lo spettatore può attraversare epoche storicizzate e accedere al sapere non finalizzato. Guerra, nella sua attenta analisi della relazione spasmodica tra immagine e attività mentale ha sottolineato l’eventualità di una nuova partecipazione agli eventi del passato, anche tragici come la Shoah, ridefinendo l’approccio all’immagine. "Non è più possibile esplorare quel tempo e quello spazio, a meno di non riportarlo in una dimensione non più cronologica e di installarlo dentro un ripensamento del nostro modo di vedere e del nostro modo di conoscere attraverso ciò che vediamo o non possiamo vedere." [26] La partecipazione ad un mondo veicolato dall’immagine orizzontale che comprende il visibile e l’invisibile, ovviamente fuori da una collocazione prettamente cronologica, ma in quell’atmosfera d’incontro in cui lo choc diventa formativo e in cui risulta azzardato ogni tentativo di riduzione. Si tratta pur sempre di uno scarto: tra la visione e la potenza dell’immagine. Una diacronia che non necessita di essere colmata pena la fine del fluire del tempo vitale.

Basti prendere ad esempio, per concludere, lo scarto ingannevole che avviene nella percezione di sé del bambino nella tesi lacaniana. Cercando la propria immagine di fronte allo specchio nel riconoscimento della madre entra in relazione, per non uscirne mai più, al mondo dell’immagine orizzontale, in cui la mente cerca costantemente di colmare la lacuna tra quell’immagine di sé, riconosciuta dalla madre, o da uno spettatore nel caso di Adriana, e quella reale, sempre differente da quella e mai raggiungibile. "È la prima volta che il bambino si percepisce come immagine unitaria, come forma. Si tratta però di un meccanismo anticipatorio rispetto a quella che è la realtà. Esiste uno sfasamento, un decalage, tra quello che è e quello che appare essere, cioè l’ideale dello specchio." [27] Inconsapevole di cominciare un gioco senza tempo che lo conduce attraverso i media della rappresentazione, del simulacro e della virtualità del circostante. L’homo cinematographicus, indipendentemente dalla sua consapevolezza, entra in questa atmosfera virtuale e si rapporta con un’immagine audiovisiva espansa che ne travolge l’esistenza. Forse se Adriana avesse compreso che la sua partecipazione al mondo dell’immagine orizzontale era destinata ad una verità non finalistica, potrebbe darsi che sarebbe rimasta visibile, ma forse si sarebbe sottratta dal dramma diegetico, quello appunto a cui siamo destinati tutti noi, dotati di sensi per vivere il circostante, ma virtuali, sia nel nostro esserci che nell’illusione dello sguardo. E Pietrangeli lo sapeva bene, è nella partecipazione al mondo cinematografico che al tempo stesso si è, e non si è, perché sempre, e solo, di immagine virtuale si tratta.

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Note
[1] I tempi del film sono svariati, i principali sono: il tempo del racconto, il tempo dei personaggi, la durata del film e le ellissi all’interno della scena. In quest’ottica si notano le svariate lacerazioni temporali che non permettono una linearità analitica. Indipendentemente dalla prospettiva scelta, ovvero a quale tempo dare la priorità, si incontrano fratture e vuoti temporali di volta in volta sopperiti da altre temporalità. Lo spettatore, nella sua ingenua fruizione temporale del film, colma i vuoti con una sua personale concezione del tempo, ma ignaro della sua consistenza.
[2] Bergson, H. [1896], Matière et mémoire, Presses Univeritaires de France, 1959; trad. it. Materia e memoria, Roma, Laterza, 2011, p. 201.
[3] Lei guarda già dal balcone prima di buttarsi giù.
[4] Deleuze, G. [1983], Cinéma, Paris, Editions de Minuit; trad. it. L'immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1989, p. 148.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 51.
[7] Metz, C. [1993], Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, Paris, Christian Bourgoise; trad. it. Cinema e Psicanalisi, Venezia, Marsilio, 2002, p. 60.
[8] Si consenta il suggerimento ad una trattazione approfondita dell’argomento con Usardi, S. [2018], La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni, Milano, Mimesis.
[9] Morelli, G., La costruzione narrativa, in Morelli G., Martini G. e Zappoli G.[1998], a cura di, Un’invisibile presenza. Il cinema di Antonio Pietrangeli, Milano, Il Castoro, pp. 16-17.
[10] Cosulich, C., La vita sognata di un angelo, Micciche, L.[1999], a cura di, Io la conoscevo bene, infelicità senza dramma, Torino, Lindau, p. 246.
[11] Simonigh, C. [2020], Il sistema audiovisivo, Milano, Meltemi, p. 44.
[12] Bergson, H. [1907], L’évolution créatrice, Puf, Paris; trad. it. L’evoluzione creatrice, Milano, Rizzoli, 2012, p. 290.
[13] Deleuze, G. [1983], Cinéma, Paris, Editions de Minuit; trad. it. L'immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1989, p. 77.
[14] Si prende ad esempio la scena in cui la protagonista torna a casa e osserva l’entrata di casa. Quest’immagine, di per sé poco significativa, è l’anticipazione del finale. La dinamica immersiva, dunque, a cui lo spettatore è condotto, avviene anche per mezzo di queste immagini di per sé poco significative, ma profondamente simboliche.
[15] Tarkovskij, A. [1984], Zapečatlënnoe vremja, Berlin, Ullstein, trad. it. Scolpire il tempo, Firenze, Istituto Internazionale Tarkovskij, 2020, p. 39.
[16] De Gaetano, R. [1996], Passaggi, Roma, Bulzoni, p. 15.
[17] Lo spettatore è sempre in un luogo della visione. Anche se il media ha la tendenza alla trasparenza (Bolter; Grusin, 1999) colloca comunque il soggetto in uno spazio, con una realtà circostante attorno a sé, per quanto questa sia soggettiva.
[18] Tagliabue, C., Io la conoscevo bene, in Morelli G., Martini G. e Zappoli G. [1998], a cura di, Un’invisibile presenza. Il cinema di Antonio Pietrangeli, Milano, Il Castoro, p. 125.
[19] Canova, G., Il cinema «inquieto» di Antonio Pietrangeli, in Micciche L. [1999], a cura di, Io la conoscevo bene, infelicità senza dramma, Torino, Lindau, p. 44.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. Bolter J. D. e Grusin R. [1999], Remediation. Understanding New Media, Cambrige, London, The Mit Press; trad. it., Remediation, Milano, Guerini, 2002. La rimediazione avviene anche tra il soggetto e l’osservazione del circostante. Lo spettatore rimedia anche sé stesso, ad ogni partecipazione al circostante.
[22] Franzini, E. [2001], Fenomenologia dell'invisibile, Milano, Raffaello Cortina, p. 38.
[23] Biondi, T. [2007], La fabbrica delle immagini, Cultura e psicologia nell'arte filmica, Roma, Magi, p. 43-44.
[24] Nicoletti R., Rumiati R. e Lotto L. [2017], Psicologia. Processi cognitivi, teoria e applicazioni, Bologna, il Mulino, p. 262.
[25] Vercellone, F. [2017], Il futuro dell’immagine, Bologna, il Mulino, pp. 110-111.
[26] Guerra, M. [2020], Il limite dello sguardo, Milano, Raffaello Cortina, p. 60.
[27] Spinelli, R., Coscienza e soggettività in psicoanalisi: la struttura del soggetto lacaniano, in Santi R. [2020], a cura di, Coscienza individuale e coscienza collettiva nella società contemporanea, Milano, Franco Angeli, p. 49.





Il tempo dell'immagine in Antonio Pietrangeli