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recensione di Pietro S. Calò

Un film più importante che bello, "I fratelli Dinamite" è la prima animazione italiana proiettata sugli sgangherati schermi di una nazione appena uscita, rovinosamente, dalla guerra. Per corollario, è anche il primo film italiano a colori.
Fissato il paletto che lo rende, già solo per questo, un’opera seminale e prima pietra di una cinematografia che non ha prodotto nel tempo quanto sembrava promettere, i Dinamite è una storia avvincente, sia in senso diegetico sia storicamente: la loro genesi incerta, l'anteprima a Venezia, e la prima proiezione, durante il Natale del 1949, fallimentare. Che si tratti del primo film animato italiano è stabilito dal marchio SIAE di deposito: il numero 672 del 1947. Il suo concorrente, "La rosa di Bagdad" di Anton Gino Domeneghini, numera invece 799, e l’anno è il 1949.
Entrambi furono proiettati in anteprima durante la Mostra del Cinema di Venezia del 1949; entrambi erano arrivati sani e salvi in porto, o meglio in laguna, dopo le ovvie disavventure legate alla Guerra, tant’è che, in luogo di una data di produzione, essi esibiscono una cronologia, misurando la quale ne risulta che il film dei Pagot fu iniziato dopo e finito prima (1943-1947), mentre quello di Domenighini iniziò prima e fu registrato dopo (1942-1949). Tale tempismo rende il giusto tributo ai Pagot, autori di maggiore caratura, di un’opera decisamente più complessa, fortemente nazionale nei contenuti, più legata a usi, costumi, idioletti e architetture nostrane, che si contrapponevano all’ennesima variazione sul tema, pertanto molto gradevole, delle "Mille e una notte", in una Bagdad orgoglio di un mondo esotico e magico, non ancora bombardata a tappeto.
La complessa famiglia Pagot, Nino in primis e suo fratello Toni, supportati più avanti dai figli di Nino, Marco e Gi(na), focalizza interesse sugli esperimenti animati già dagli anni ’30, e nel 1938 i due fratelli fondano una loro casa di produzione che, nel periodo bellico, è impegnata giocoforza a produrre animazione di propaganda di un regime ormai condannato. Grazie a tale patto, però, i Pagot ebbero la possibilità di continuare i loro lavori, le loro ricerche, gli studi sui carachter design che si sostanziarono nel mediometraggio "Lalla, piccola Lalla" (terminato nel 1946). La biondissima tenera e paciocca bambina con la testa grande e la calzamaglia, insieme a Paolino (lo studente secchione) e al cicciottello senza nome, li ritroveremo attori non protagonisti del nostro film.
Ancora: in quel periodo, i Dinamite rischia di vedere la luce come cortometraggio che avrebbe avuto il nome del protagonista, Tolomeo. In effetti, oltre alla sostituzione del singolo con un trio, il film si strutturerà in episodi, anche abbastanza difformi tra loro.

Per questa prima produzione italiana, i fratelli Pagot si avvalgono dell’opera di un già adulto Osvaldo Cavandoli: il padre della mitica "Linea" è un ventisettenne che qui muove i suoi primi passi come intercalatore. A dar manforte si affiancano Osvaldo Piccardo e Ferdinando Palermo, quest’ultimo nel doppio ruolo di capo-animatore e responsabile del sincrono. In ultimo, abbiamo cura di ricordare un personaggio normalmente dimenticato o nel migliore dei casi sottovalutato, quel Giuseppe Piazzi che ha sicuramente composto tutte le musiche del film e che è depositario SIAE sia degli arrangiamenti delle canzoni popolari veneziane utilizzate nell’ultimo episodio, sia di tutti i testi delle canzoni originali presenti lungo tutta la storia, assegnazione che nei titoli di testa è appannaggio di Palermo. Siccome è bello fare giustizia, soprattutto di personaggi poco baciati dalla fortuna, ho riportato qui un sunto dei frutti dell’investigazione di Marco Bellano, cui rimando la lettura del saggio, in bibliografia. Tale dilungarsi non è solo desiderio di giustizia: vuole riconoscere il ruolo centrale della musica in questo film che, senza i testi, gli arrangiamenti e le partiture di Piazzi sarebbe stata povera cosa.
E ora, il film.

L’età dell’oro?

Quella che Bendazzi, nella sua monumentale opera definisce come "l’età dell’oro" dell’animazione mondiale, il periodo 1928-1951, in Italia ne è appena la culla, quel 1949 già prossimo al declino, dopo una totale indifferenza e i primi passi in una Nazione in guerra.
I Dinamite, come già ricordato, fu pensato come un cortometraggio.
Un’idea comprensibile, in un momento storico confuso, con mezzi scarsissimi e la cui unica possibilità di commercializzazione "pronto cassa" era rappresentata dall’abbinamento di un corto a lato di un lungometraggio, possibilmente interpretato di divi "in carne e ossa", sia pur ingessati dall’autarchia e dal moralismo bellico. Il passaggio storico, dalla censura all’invasione nordamericana i cui echi, le Star e il Jazz, non erano ignoti a una minoranza "colta" e sovversiva, comunque poco rappresentativa delle grandi masse, provocò un terremoto sul quale con grande difficoltà si muoveva un’opera marchiata da un passato da dimenticare e, paradossalmente, troppo moderna. È pur vera che tale invasione fu temperata dalla stagione del Neorealismo (che fece illudere addirittura un’invasione al contrario), ma il confronto tra lo splendore del technicolor, su cromie cangianti e agili, arricchite da musica e canti, poco si addiceva ala poetica de "la vita così com’è", in rioni popolari, distrutti dalle bombe e governati dalla fame. Tale discrasia aggiunse un ulteriore biais che si sostanzierà nel flop commerciale del 1949, e nel dimenticatoio presso cui il film sarà costretto fino al suo restauro.
A onor del vero, nel 1971 fu provato un lancio televisivo, nell’ancora sperimentale Rai2: "I fratelli Dinamite" è trasmesso in prima serata, naturalmente in b/n.
Bisognerà attendere il 2004, l’anno del restauro curato dalla Cineteca Italiana e vari sponsor, quando infine, da due vecchissime copie in nitrato, sarebbe stata tirata una versione luccicante che inaugura la LVI Mostra di Venezia.
E siamo a oggi, con le copie in DVD e gli streaming a portata di mouse.

Siamo in tre!

In realtà siamo in sei, i sei episodi che ripercorrono la vita di Din, Don e Dan, i pestiferi Dinamite, da appena nati all’adolescenza, fino a quell’atto finale con cui, "dopo aver lambito l’Inferno", si saranno assicurati un posto in Paradiso.
Riassunto così, il film sembra invitare a toccar ferro, lasciando immaginare che la fine della storia coincida anche con la fine di quelle tre giovanissime vite. Non era certo questa l’intenzione dei Pagot, ma una certa deriva "deamicisiana", a volte, sembra farsi prendere la mano, come questo finale patetico-ammonitore che fa il paio con la terribile reprimenda del bidello al secchione Paolino, che per poco non si era lasciato irretire dai pifferi infernali (inutilmente, ci cascherà comunque). Il tono bonario ma deciso, insieme patetico, supplichevole e intimidatorio del brav’uomo lo accostano più decisamente al libro Cuore che alla saggezza pedante del Collodi, e il tono di questi due piccoli episodi ricordano le pagine strappalacrime della malattia del Muratorino, o l’agonia della Piccola Vedetta Lombarda.
Come ricordato, il nostro film attinge, a piene mani ma declinando a modo suo, al lungo patrimonio della tradizione culturale italiana, di cui fa parte anche quel libro angoscioso. Altre referenze, più brillanti, più oggettive, le vedremo in corso d’opera. Conviene perciò ritornare ai sei episodi, e alla loro strutturazione.
Nel primo episodio, i tre fratelli sono ospiti in barca dello zio ubriacone in cerca dell’Eldorado, l’isola del Rhum di cui è ghiotto, e con cui allatta i tre neonati. L’impossibilità di tenere la barra dritta e il sopraggiungere di una tempesta causano un naufragio i cui soli sopravvissuti, a cavallo di una cassa di rhum che farà anche da alimento, sono appunto Din, Don e Dan. La corpulenza dello zio-capitano imprime da subito una costante del cinema dei Pagot: essa designa personaggi negativi, al massimo ambigui, come lo zio snaturato, il bidello angosciante, fino a Satana in persona. L’ondeggiamento della cinepresa sui "cel" in tempesta, oggi, fa un po’ sorridere, ma la resa in technicolor delle sfumature delle onde, e del movimento che esprimono, ricordano decisamente le grandi opere di Hokusai, che ai Pagot potrebbero esser state note, se non addirittura approvate dalla censura in quel tempo in cui Giappone e Italia, pur avendo idee vaghissime una dell’altra, erano state alleate. Ricordiamo infine che esiste un legame affettivo tra la famiglia Pagot (Marco e Gi in verità) e il Grande dell’animazione, quell’Hayo Miyazaki che in "Porco rosso" chiamerà proprio Marco Pagot il suo eroico aviatore.
Il secondo episodio è quello più calligrafico, per qualcuno anche il più gradevole, ma di certo il meno interessante. Potrebbe essere una classica produzione Disney: in pochi si accorgerebbero dello scambio. L’isola deserta, abitata da animali fantastici e policromi, ha tutte le caratteristiche dell’Eden, bella, felice, pacifica. Maiali-pipistrelli, uccelli multicolore, alberi delle salsicce, frutti mielosi e una mucca (o forse una bufala) che lecca amorevoli i tre bimbi nudi, dal ventre prominente e che sembrano essi stessi dei putti, piccoli angioletti. L’idillio si muove tra inquadrature pensate come pittura a olio, maestose e definitive, splendenti di technicolor e statiche: un indugio sulla bellezza che è più un indice della povertà dei mezzi e dei fondali. Il gorilla, che si muove con cadenze jazz e conosce, lui solo, il linguaggio umano, allieta gli abitanti con jonglerie che divertono tutti, anche i bambini spesso usati come palle da giocoliere. L’idillio è rotto dall’arrivo di un "comitato scientifico inglese", preannunciato dall’indizio delle sue civili orme di scarpe che schiacciano fiori e piante mentre, metodicamente e con un certo gusto dell’arte di impacchettare, cinquanta anni prima di Christo (l’artista), fanno incetta di ogni forma vivente, timbrata con le destinazioni d’uso, dallo zoo alla pellicceria. Il salvataggio della bufala, destinata alla macelleria, provoca la cattura dei tre bimbi, per mano dell’ineffabile miss Chloè, retino in mano e didietro all’aria.
Tale episodio non aggiungerebbe granché alle grandi produzioni Disney, in special modo quelle degli esordi, focalizzate sul mondo animale prima dell’azzardo, che si rivelò un grande successo, di "Biancaneve". Una grandezza giustificata, sia dai grandi mezzi a disposizione, sia da una "grammatica" dettagliatissima, che riusciva a inglobare anche il remotissimo, dal punto di visto spaziale e ideologico, utilizzo asincrono della musica, teorizzato da Ejzenstejn-Alexandrov-Pudovkin, e che nel nostro episodio non notiamo. Ma lo ritroveremo più avanti.
Il terzo episodio è di tipo frequentativo.
Serve a introdurre i fratelli nella società civile, già cresciuti e nel loro character design definitivo, segaligni, naso lungo, viso regolare, rivestiti da seminaristi, e ancora pestiferi, intenti a suggere sigari più grandi di loro e a leccare la marmellata dal pavimento. Si tratta di una interlocuzione necessaria, utile a sorvolare su alcune evidenti discrasie: sono italiani o inglesi? Sono imparentati con Chloé, sorella di "zio Rhum", o sono stati trovati e adottati? Tutto sommato, poco importa.

Pinocchio

Così potremmo rinominare il IV episodio, quando il film, finalmente, decolla.
L’eterno conflitto tra il pessimismo della volontà e l’ottimismo della ragione, tra l’educazione severa e il Paese del Bengodi, è attaccato da tre direttrici che lo faranno, letteralmente, esplodere. Esse sono: l’eversione collodiana, la polisemia musicale, il citazionismo.
Din, Don, Dan, in perenne formazione di squadriglia, che unita come un mecha giapponese assume le forme e la cazzimma di un gallo, sembrano andare volentieri a scuola. Ma, di fronte ai loro amichetti Paolino, Pierino, Lalla e il cicciottello, già catturati dai pagliacci, non esitano a mettersi nel sacco con le proprie mani. La fuga verso l’Inferno, su di un cavallo sempre più inscheletrito durante il galoppo, e che molto ricorda quello del "Nosferatu" di Murnau, fa intraveder loro le nebbie della desolazione si cui si agitano i fantasmi dei sette vizi capitali, imbrigliati di terrore e disgrazia, come ferocemente li descrisse Dante, e che sono il benvenuto alla dimora di Satana, un corpulento (cattivo, "senza pietà") collezionista di bambini che ama rivestire di fattezze animali che danno loro la fisionomia e il comportamento. E così, il già non sveglissimo cicciottello, diventa un maialino, nel mentre Pierino, il suonatore di zufolo, è ancora affascinato dai suoni jazzati e batte i piedi accompagnandone il ritmo, salvo sfuggire alla cattura grazie alla sua agilità, e far partire la rivolta, perfezionata dai Dinamite. Sale in cattedra l’eversione collodiana, di cui fu magnifico interprete Carmelo Bene che con la sua sola voce diede anima a questo fannullone, lazzarone, incantato solo dalla Bellezza superficiale, e sempre in ritardo coi pentimenti. Se possibile, i Pagot si spingono oltre, fino all’esplosione dell’Inferno. È la loro maniera di procedere: gettando l’esca del paternalismo deamicisiamo, essi stanno già confezionando i botti, lustrandone la miccia, facendo brillare l’acciarino.
La colonna sonora segue sincronica gli avvenimenti: i pagliacci cercano di irretire gli studenti con pifferi e cembali molto contenuti che poi diventano melliflui, incantatori, e riducono i corpi umani in serpenti privi d’ossa e di volontà, infine rapiti. Pur essendo tipici strumenti dionisiaci, sono usati in tutt’altra guisa, non pazzo entusiasmo ma sottile opera di convincimento, tuttavia efficaci, elegantemente sinuosi.
Il diavolo è invece un melomane, ha una debolezza per la musica che lo rende "buono", e perciò imbelle. Le musiche che lo commuovono sono ordinarie canzoni popolari, ma anche un cluster di note atonali pestate a casaccio dal suo fido gatto che cerca disperatamente di liberarsi dalla forchetta che lo tiene inchiodato al pianoforte. Il vocabolario di Satana si rivela una collazione di brani e arie tratte dalla Traviata, dall’Orfeo, dalla Norma, dal Rigoletto, fino all’omaggio alla Carmen, quando, inferocito, si trasforma in un toro alla carica, elegantemente schivato dalle sottane di Din, Don, Dan.

Trionferà lo spirito giocondo: la musica

Il V e il VI episodio a una prima occhiata non sembrano distinguersi nettamente. L’impressione è di essere comunque a Venezia, prima a teatro (e il grasso, cattivo, poliziotto, si esprime in effetti con tale accento) e poi nel più glamorous Carnevale del Mondo.
Tant’è, la divisione torna utile per considerare il V episodio come quello della musica, dispiegata al suo massimo. Il casus belli diventa un contrabbasso, il regalo ricevuto da Gesù Bambino per aver sconfitto il Diavolo. Amanti dello strumento, si propongono a una serissima orchestra di concerto borghese, che fa ala a un pianista sentimentale, ammirato dall’alto del suo palchetto da una innamorata e avvenente fanciulla.
L’attrito dell’episodio è introdotto da una fortunatissima canzoncina scritta da Piazzi ed eseguita off-air a commento dei tre fratelli che estirpano le barbe e i capelli dei "passatisti parrucconi" in nome della Gioia, Futura Umanità.
In groppa al loro strumento, che così ricorda le fattezze della loro amica bufala, salvata e poi perduta, si dirigono ottimisti nel teatro, certi di essere assunti. È indubbio che tema e svolgimento della canzoncina hanno, nel dopoguerra, creato qualche imbarazzo a un Paese che da regio-fascista si risvegliò, nell’arco di tre anni, repubblicano-democratico. L’eco futurista, le ampolle dannunziane, i coretti à la Lescano, erano senza dubbio un mobilio da confinare in cantina, più che da esibire nei cinema. In effetti, l’interesse del film consiste anche in questo, riflettere su una transizione che formalmente fu velocissima, ma che nei fatti ebbe i suoi momenti, e che non si poteva certo cancellare con un colpo di spugna.
Come sia, il trio entra nel Teatro delle Muse, dove il celebre pianista Paskuarosa terrà il suo solito, memorabile concerto.
Come nella migliore tradizione Disney, l’azzimato artista è destinato a scapigliarsi, diventare tutt’uno con la sua musica sentimentale. In panoramiche e carrelli in avanti si crea il "feeling" tra l’orchestra, in basso, e i palchi, in alto, dove le masse ondeggiano fino a quasi cadere, e dove la bella è raggiunta da fiori, baci e artifici vari che percorrono autostrade di piante, alberi, intere foreste che mettono in comunione i cuori in lacrime degli ascoltatori e quello in tumulto dell’esecutore. Se i corpi tremano, l’architettura del teatro resta immobile, come una bomboniera i cui elementi di arredo sembrano, ognuno, delle golose caramelle che sudano miele. Almeno finché non arriveranno i Dinamite, con questo strumento già di suo problematico: ingombrante e nato come accompagnamento, esso ha inaugurato vita nuova col Jazz, in cui si produce spesso in assolo poco adatti alle orecchie delicate, e che introducono, danno la carica, anche alla canzoncina dello spirito giocondo. Sardonico e insieme ipnotico, tale strumento sarebbe sicuramente piaciuto a Euripide nel mentre sceneggiava "Le Baccanti".
Ancora peggio: il detto contrabasso non ha la semplice mira di essere accettato, ma prolifera come un virus: prima contagia il pianoforte suonato coi piedi, alla maniera di Jerry Lee Lewis; poi attacca tutti gli altri, attraverso lo scambio degli spartiti che crea quell’effetto tipicamente cartoonesco per cui il violino che segue la partitura del cello diventa esso stesso un cello suonato maldestramente da un violino: "Musica moderna!", sentenzia la giovane dama del palco che, nella sua assoluta mediocrità di gusto, ha assolutamente ragione. Ancor più evocativa, più avanti, è l’ulteriore rivoluzione ormai prossima, quella elettrica, qui suggerita dall’impianto luci che fulmina una maestosa e impassibile arpa fino a trasformarla nello scheletro di un dinosauro gobbo, "passatista".

Il teatro dell’Arte - Le canzonette

E infine arriviamo al Carnevale.
L’episodio, dopo Collodi, l’opera lirica, Dante & De Amicis, (per tacere del Futurismo), si arricchisce di due ulteriori tasselli che avrebbero, insieme agli altri, potuto concorrere alla genesi di un cinema di animazione italiano più prestigioso di quanto sia effettivamente diventato.
Essi sono la Commedia dell’Arte, con le sue maschere e psicologie, e la canzone popolare.
Questa è protagonista, attraverso gli arrangiamenti del Piazzi, delle esibizioni canore dei concorrenti al titolo di "Dogi del Carnevale", padroni assoluti "fino al Giorno del Giudizio". L’esibizione che precede quella dei Dinamite è eseguita in una tinozza sulla laguna da tre fresconi che modulano falsetto, baritono e tenore non solo nella vocalità ma anche negli strumenti, come una delle migliori gag degli "Amici miei", molti anni dopo. Con minor fortuna, affondano.
I Dinamite, scorrettamente, si affidano al playback de "La biondina in gondoleta", mimandone i trasporti emotivi che coinvolgono un pubblico trasognato che li incorona vincitori. Inseguiti e portati in trionfo da mille maschere compatte e multilineari che vanno su e giù per le calli, esprimono le vertigini di un Otto Volante, quando l’adrenalina ti ordina solo di fuggire. Saggia decisione, poiché l’entusiasmo delle masse si trasforma in una caccia senza quartiere quando i fratelli ordinano, come primo atto legislativo della tirannia loro assegnata, di sospendere le feste "fino a quando non si sarà ritrovata la bambola perduta" di una bambina in lacrime sul sacrato di San Marco.
La resa grafica di colori, linee e cerchi, non muta la grafica di un tumulto che resta disordinato, possente e esplosivo, in cui la bellezza non è simmetria ma l’improvviso disvelarsi, quando tre vecchi "parrucconi" sono in realtà (oppure si trasformano in) tre leggiadre fanciulle. Una differenza strutturale con le ordinate parate di maschere e travestimenti dei grandi autori dell’Estremo Oriente, tra i quali ricordiamo almeno Oshii Mamoru in "Ghost in the Shell- Innocence" e Satoshi Kon in "Paprika".
Il ritrovamento della modesta bambola di pezza sul fondo della laguna, armati di mattone appeso al collo e candela per far luce, ha infine successo grazie alle indicazioni di un vecchio pesce che comprende solo il giapponese, e risponde in veneziano. Sicché, con questa buona azione, i Dinamite si sono guadagnati il Paradiso.

Più che una Pietra Miliare, "I Fratelli Dinamite" fu la Prima Pietra di un'animazione che non molto fece, fa, tesoro delle loro intuizioni. Rimandiamo ad altre analisi per rivedere gli sviluppi di quelli che furono i loro eredi, da Cavandoli al Mattotti, via i Bozzetto, Luzzati, Gibba, Gavioli, Manuli, che meriterebbero tutti una trattazione autonoma.

Bibliografia
- Animazione, Giannalberto Bendazzi, vol.1, UTET 2017
- Storia del cinema d’animazione, Gianni Rondolino, Einaudi 1974
- «Oh… Musica moderna!» Hollywood, satira e "modernismo" nella musica di Giuseppe Piazzi per I fratelli Dinamite, Marco Bellano per la rivista "Cabiria", n.178, set./dic. 2014, qui in pdf


23/12/2019

Cast e credits

regia:
Nino Pagot, Toni Pagot


titolo originale:
I fratelli Dinamite


distribuzione:
Pagot Film - Rai - Cineteca Italiana di Milano


durata:
85'


produzione:
Pagot Film


sceneggiatura:
Nino Pagot - Toni Pagot


fotografia:
Ferdinando Palermo (direttore animazione)


scenografie:
Osvaldo Piccardo - Osvaldo Cavandoli (intercalatore)


musiche:
Giuseppe Piazzi


Trama
La prima animazione italiana: colori, musica, maschere, avventura in una Italia fiabesca e canzonatoria.