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recensione di Eugenio Radin

Il contesto storico - Il duro destino di Weimar

Se lo scoppio del primo conflitto mondiale rappresentò per il mondo moderno la fine della belle époque, il crollo dei grandi imperi e una radicale trasformazione della società, i "ruggenti anni Venti" significarono invece una nuova rinascita per molti ambienti culturali, specialmente d'Oltreoceano, ma anche europei, come ad esempio per la Francia. Lo spirito di libertà e il termine della vita di trincea contribuirono al sorgere di un fermento culturale che si tradusse in nuove avanguardie artistiche, nella musica Jazz e nella grande letteratura americana, nell'affermazione del cinema e nell'avvento dell'automobile.
Tutto il peso economico e politico della Grande Guerra ricadeva sulle spalle della Germania e più specificamente sulla nuova direzione politica che poco aveva avuto a che fare con l'amministrazione del conflitto, ma che era stata costretta a firmare una pace sanguinosa e ad accettare sanzioni tanto dure da poter essere difficilmente rispettate in una prospettiva realistica. Come nota lo storico Hagen Schulze: "La democrazia di Weimar non poteva nascere in un momento peggiore, nel momento della sconfitta, alla quale la sua origine e la sua raison d'être sarebbero rimaste per sempre legate"[1].
Escluso da ogni prospettiva internazionale, consumato da una drastica crisi economica e incapace di additare i responsabili di tale tracollo, il popolo tedesco iniziò presto a sviluppare le ansie e le paure che avrebbero portato di lì a poco alla chiusura nazionalista e all'avvento del regime hitleriano.
Toccò alla cultura il compito di ritrarre lo spirito del tempo e fu in questa dimensione che il cinema, eletto a medium per eccellenza, assunse un ruolo di primo piano nella rappresentazione del crollo della modernità.
È necessario notare che la maggioranza dei movimenti artistici e culturali che vengono ricollegati alla repubblica weimeriana sono sorti in realtà nel periodo prebellico, tuttavia "fu soltanto negli anni Venti che penetrarono nella coscienza popolare e cominciarono a influire sull'atteggiamento della gente verso se stessa e verso il mondo nel quale viveva"[2].
Il comune sentire del popolo tedesco fu un terreno fertile per l'affermarsi di quella che fu una sostanziale difficoltà nel percepire la Verità, una relativizzazione dei valori e dell'Io che già sul finire del XIX secolo era stata teorizzata dalla filosofia di Nietzsche e dalla nascita della psicanalisi.
Questo sentimento di instabilità venne raccolto e rielaborato dopo la Prima Guerra Mondiale da diversi ambienti artistici: dalla dodecafonia di Schönberg, dall'opera kafkiana, dai pittori del gruppo "Die Brücke" e soprattutto dal cinema espressionista, che ebbe in Wiene, in Murnau, in Leni, ma per alcuni versi anche in Fritz Lang, i suoi maggiori esponenti.


Il cinema ai tempi della crisi


Se i due generi cinematografici che godettero di maggiore diffusione nel periodo post-bellico furono il colossal storico di stampo italiano e il cinema erotico-pornografico, la cui espansione fu resa possibile dall'indebolimento della censura[3], fu però la corrente espressionista quella che riuscì a ritrarre più accuratamente lo Zeitgeist di quegli anni.
È soprattutto nello studio di tale genere cinematografico che possiamo infatti ritrovare, tradotti in immagini-movimento, tutti quei temi cari, ad esempio, alla psicologia freudiana: già quello che viene generalmente considerato il caposaldo del cinema espressionista, ovvero il capolavoro di Robert Wiene: "Il gabinetto del dottor Caligari", contiene al suo interno i temi del doppio, della libido e della pulsione di morte, l'importanza del sogno e dell'inconscio nello svolgersi della vita psichica, etc.
Ma al di là di questo, l'aspetto essenziale su cui vogliamo in questa sede soffermarci è l'incredibile lungimiranza che parte di questi lavori dimostrarono nel saper anticipare, tramite la tematizzazione del mostro e della minaccia, la paura verso l'Altro che avrebbe segnato così drammaticamente le sorti politiche tedesche nel decennio successivo.
Capolavoro assoluto, in questa prospettiva, è allora "Nosferatu, eine symphonie des grauens" del maestro F. W. Murnau.
Il celebre romanzo dell'irlandese Bram Stoker, narrante le vicende del conte Dracula, intenzionato a viaggiare verso l'Inghilterra per portarvi il morbo del vampirismo, viene ripreso nel 1922 da Murnau e dallo sceneggiatore Henrik Galeen (autore di altri capolavori quali "Der Golem" o "Il gabinetto delle figure di cera") che cambia i nomi dei protagonisti e ne modifica in parte la struttura narrativa, ad esempio riducendo al minimo alcune figure, centrali nel romanzo, come quella del dottor Van Helsing.
Il film viene prodotto dalla Prana-Film, fondata l'anno prima da Albin Grau (che del film curerà scenografie e costumi), ma le precauzioni prese dal regista non impediranno alla vedova Stoker di intentare una causa legale alla pellicola, che dovette presto essere distrutta in tutte le sue copie.
Se ne salverà soltanto una, custodita dallo stesso Murnau, la quale arrivò in America nel 1929 viaggiando attraverso la Francia e assicurò all'opera la fama immortale di cui tutt'oggi gode.


Un espressionismo non del tutto ortodosso


Può suonare in parte azzardata la classificazione di "Nosferatu il vampiro" all'interno dell'arte espressionista: un maggiore realismo contraddistingue infatti l'opera rispetto, ad esempio, a "Il gabinetto del dottor Caligari". Grau evita la deformazione accentuata delle scenografie a dispetto dei precetti espressionisti, che volevano una "stilizzazione intensiva e deformante del visibile, che [...] si propone di oggettivare una concezione del mondo, un sentimento, a volte un'idea nelle configurazioni visive"[4].
Se la strutturazione del profilmico veniva sovente caricaturizzata dall'espressionismo, il quale tendeva a evidenziarne gli aspetti grotteschi e irreali al fine di costruire uno specchio delle angosce interne all'uomo, Murnau disubbidisce a tal punto a tali regole da arrivare a proporre in maniera ricorrente vedute realistiche en plein air. L'anomalo uso di esterni rivela da una parte la familiarità di Murnau con il cinema svedese, che per primo aveva utilizzato paesaggi dal vero, ma dall'altra distacca la sua opera dallo scenario espressionista standard.
Tuttavia abbiamo buoni motivi per giustificare tale classificazione. Innanzitutto per quanto reali, le scelte riguardanti la location cadono pur sempre su scenari inquietanti e cupi i quali, seppur non in maniera estremizzata, concorrono sicuramente a ricreare nell'immagine lo stato d'animo dei protagonisti. Come fa notare Paolo Bertetto introducendo l'opera del maestro tedesco: "Il castello del conte Orlok è una reggia dell'incubo, fatta di architetture ogivali, di passaggi oscuri, d arredi inquietanti. È uno spazio dove si nasconde il mistero e si realizzano riti demoniaci. La nave invasa dal vampiro è una sorta di veliero fantasma in cui le vele e gli alberi sono lo scenario allucinato della presenza del male. La città quasi deserta, invasa dalla peste, è un ossario architettonico, un cimitero urbano di rara suggestione. Sono spazi segnati dall'esistenza del male, che domina poi attraverso l'estensione minacciosa delle tenebre che invadono tutto l'orizzonte visivo"[5].
Ed è proprio l'utilizzo intelligente delle tenebre e delle luci a costituire il secondo argomento a nostro favore. Se, come sostiene Gilles Deleuze: "L'espressionismo è essenzialmente il gioco intensivo della luce con l'opaco, con le tenebre"[6] allora "Nosferatu" non può che essere un film espressionista: qui la fotografia di F. A. Wagner è un elemento che si riempie di significato e che tesse la dialettica tra bene e male in maniera preminente. Il cereo volto del conte che avanza dalle tenebre sullo sfondo verso la mdp lascia immaginare, senza il bisogno di didascalie, le origini demoniache del vampiro e tutte le sue cattive intenzioni.
Ma anche le inquadrature en plain air sopracitate vengono caricate di significato da Murnau, che sembra del tutto intenzionato a mostrare soltanto il lato crudele della natura (la iena che mette in fuga i cavalli, la pianta carnivora) ponendo così a soggetto della propria opera un male ontologico, una malvagità radicata nella naturalità stessa dell'essere.
Emblematica in questo senso è la sequenza della cavalcata notturna sviluppata in negativo, invertendo luci e ombre, la quale contribuisce a creare un'atmosfera lugubre e misteriosa.


L'ombra del vampiro


È però l'ombra del vampiro l'elemento più espressionista della pellicola nonché l'aspetto che più si presta a un'analisi contenutistica e filosofica.
"L'ombra di Nosferatu presenta allo stato più puro l'effetto della minaccia"[7]. Essa porta con sé l'impalpabilità e l'assenza di volume che la rende sfuggevole a ogni affermazione razionale. È lei il vero pericolo: ciò che sfugge all'occhio, al logos e quindi alla conoscenza.
Non può essere un caso o un semplice veto di censura il fatto che entrambe le sequenze riguardanti l'aggressione (di Hutter prima e di Ellen poi) non vengano filmate direttamente, ma attraverso il riflesso dell'ombra. Ciò sta piuttosto a significare che è essa stessa, e non Nosferatu, l'elemento di maggior disturbo.
Allora a ben vedere ci ritroveremmo ad affermare che essa non può essere una semplice emanazione, un mero riverbero della figura del conte Orlok, ma che, ontologicamente, essa viene prima del conte stesso.
Nello scenario della repubblica di Weimar il sentimento di minaccia, la paura e l'angoscia è già presente, prima che possa essere associato a un qualche responsabile, sia esso il popolo ebraico o il bolscevismo. Esso si ritrova nel popolo tedesco stesso e le sue cause potrebbero essere ricercate a monte (ad esempio nella cattiva gestione della pace stabilita nel trattato di Versailles).
Il mostruoso vampiro dai lunghi artigli che si erge statuario sulla prua della nave non rappresenterebbe allora altro se non il capro espiatorio di un male ontologico già presente prima della sua venuta, l'ipostasi del crollo della verità e dei valori, di ogni autorità e dunque di ogni fede in un qualsivoglia ordine stabilito; il drastico nichilismo diffusosi come un morbo e che lasciava soltanto due possibilità: la dissoluzione e la disgregazione dell'identità tedesca, o il regresso a quei valori che avrebbero potuto nuovamente stabilire un Io nazionale: il mito della terra, del sangue, del popolo, del Reich.
È bene tenere presente che in tali considerazioni non vogliamo fornire una parafrasi corretta dell'opera a discapito di altre interpretazioni, né tantomeno suggerire le vere intenzioni e il vero messaggio di Murnau, ma soltanto proporre un punto di vista a posteriori, che consideri l'evoluzione della storia tedesca e che sia incoraggiato da alcuni elementi del testo filmico che si prestano a tale lettura.
Sotto questo punto di vista è anche interessante notare come il protagonista delle vicende, il giovane Hutter, che diventerà suo malgrado un cooperatore nel piano diabolico del conte Orlok, sia un esponente di quella piccola-borghesia che rappresentò lo strato sociale su cui maggiormente prese piede e germinò l'ideologia nazionalsocialista.


Il ponte


Un ultimo elemento su cui vorremmo soffermarci è rappresentato dalla simbologia e dalla metafora che il ponte porta con sé.
Il passaggio dal primo al secondo atto, dalle atmosfere spensierate della vita di Wisborg a quelle tenebrose e inquietanti della residenza di Orlok è scandito dall'attraversamento di un ponte e dalla didascalia che ne fa seguito ("E quando attraversò il ponte i fantasmi gli andarono incontro"). Subito dopo la mdp inquadra in contre-plongée il castello, che viene dunque subito caratterizzato come imponente e potente.
Il passaggio del ponte rappresenta il transito dalla luce alla tenebra, dal razionale all'inconscio, dallo scetticismo scientifico al grottesco magico. Attraversare il ponte significa metaforicamente entrare in un mondo a sé stante, dotato di leggi proprie e incomprensibile alla ragione umana.
È allora azzeccato il paragone con l'opera kafkiana e in particolare con "Il Castello", dove l'arrivo al villaggio è anticipato dal passaggio del ponte, che rappresenta anche il passaggio nel mondo bizzarro e tragico dominato dal signore del Castello, che si caratterizza innanzitutto come un "vuoto apparente"[8].
Tuttavia la natura duplice del ponte fa sì che esso oltre a separare congiunga. Esso ha anzi proprio nel congiungimento la sua essenza. "Dove si costruiscono ponti non ci sono assimilazione, fusione o identificazione totali, ma neppure scissione o isolamento"[9].
La presenza di un ponte dunque non solo è il mezzo per consentire la svolta narrativa, ma rende soprattutto impensabile la relegazione del male all'interno della dimensione dell'Altro (qui: del castello, del vampiro). Proprio la presenza del ponte segnala una comunicazione tra il primo e il secondo atto, tra la tranquilla cittadina di Wisborg e le notti sui Carpazi: una comunicazione che sancisce anche la compresenza del male in entrambe le realtà. D'altra parte la totale assegnazione di uno status positivo e salvifico alla cittadina tedesca è impedita anche dalla caratterizzazione del personaggio di Knock, datore di lavoro di Hutter, primo vero elemento perturbante che incontriamo durante la visione.
Il fatto che il contatto tra queste due dimensioni sia inconscio o paranormale (Knock comunica con Orlok attraverso strani simboli cifrati, Ellen avverte nel sonno il pericolo che corre il marito) non impedisce di ignorarlo e la conclusione, ancora una volta, è che se la pestilenza riesce ad arrivare in paese è perché in fondo risiedeva già, inconsciamente, tra i suoi abitanti.
L'epidemia nazista che colpì la Germania e di cui Nosferatu può essere letto come una metafora[10], non fu causata da un male esterno, ma da una crisi intestina al popolo tedesco stesso, che poco aveva a che fare col giudaismo. Una crisi in cui la stessa esistenza della germanicità era messa in dubbio e che ricevette una forte risposta nella chiusura del terzo reich.
Fa riflettere però come soltanto la finestra aperta, permettendo ai raggi del sole di entrare, riesca a sconfiggere la minaccia di Nosferatu.


Il mito del vampiro e l'eredità di Nosferatu


F. W. Murnau fu il primo a portare sullo schermo cinematografico la leggenda di Dracula e lo fece con un occhio di riguardo sul proprio tempo, inaugurando di fatto quel filone che di lì a poco portò sul grande schermo una lunga serie di mostri, creature demoniache e tiranni sanguinosi (per fare alcuni esempi: "Vanina" di von Gerlach, "Il dottor Mabuse" di Fritz Lang, "Il gabinetto delle figure di cera" di Leni). Certo è possibile che queste opere non possano essere lette come una sorta di anticipazione del destino tedesco, ma ci troviamo d'accordo con Krakauer sul fatto che "È comunque una strana coincidenza che poco più di dieci anni dopo la Germania nazista mettesse in pratica proprio quella combinazione di tortura fisica e mentale che lo schermo tedesco allora dipinse"[11].
La storia di Dracula/Orlok e in generale il tema del vampirismo furono però da allora riletti più volte nella storia del cinema: dal "Vampyr" di Dreyer, al "Dracula" di Browning, alla rilettura di Francis Ford Coppola, fino ad arrivare al filone vampiristico che nel cinema contemporaneo al suo più celebre rappresentante nella saga di "Twilight".
Potremmo dunque parlare di Dracula come di un mito moderno, alla stregua di Faust o del Don Giovanni? La risposta pare essere affermativa, dal momento che esso risponde alla necessità di carattere fondativo e riflessivo sulla condizione umana che il mythos richiede.
E sebbene la rielaborazione di Murnau-Galeen si distacchi dall'originale racconto di Stoker e per quanto essa sia radicata nello spirito del proprio tempo, pare prestarsi comunque a una lettura morale e a-storica, dal momento che la paura per l'Altro, individuato come portatore di pestilenza (questo significa in romeno il nome "Nosferatu"), il pericolo della chiusura in se stessi e l'amore come fonte di salvezza sono temi sempre attuali e inesauribili.


Note

[1] H. Schulze, "Storia della Germania" (Donzelli Editore, 2000)
[2]
G. Craig, "Storia della Germania, 1866-1945" (Editori Riuniti, 1983)
[3]
Per un maggior approfondimento vedi: S. Kracauer, "Cinema Tedesco - dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler" (Mondadori, 1954)
[4]
P. Bertetto, "Introduzione alla storia del cinema - autori, film, correnti", (UTET, 2008)
[5]
Ivi.
[6]
G. Deleuze, "L'immagine-movimento, cinema 1" (ubulibri, 2006)
[7]
Ivi.
[8]
Si veda l'incipit del romanzo: "A lungo K. sostò sul ponte di legno che dalla strada maestra conduce al villaggio, e guardava in alto, nel vuoto apparente" F. Kafka, "Il Castello" (Einaudi, 2002)
[9]
R. Gordon, "Il ponte - una metafora dei processi psichici" (Boringhieri, 2003)
[10]
Si veda ancora una volta S. Kracauer, "Cinema Tedesco - dal Gabinetto del dottor Caligari a Hitler"
[11]
Ivi.


09/07/2016

Cast e credits

cast:
Max Schreck, Gustav von Wangenheim, Greta Schröder, Georg H. Schnell, Ruth Landshoff, Gustav Botz, Alexander Granach


regia:
Friedrich Wilhelm Murnau


titolo originale:
Nosferatu, eine Symphonie des Grauens


durata:
84'


produzione:
Prana-Film G.m.b.H.


sceneggiatura:
Henrik Galeen


fotografia:
Günther Krampf, Fritz Arno Wagner


scenografie:
Albin Grau


costumi:
Albin Grau


musiche:
Hans Erdmann


Trama
L'impiegato immobiliare Hutter, viene inviato in Transilvania per far visita al conte Orlok, desideroso di acquistare una casa nella cittadina di Wisborg. Ma l'inquietante acquirente rivelerà presto la sua vera natura e i suoi piani demoniaci.