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recensione di Diego Capuano
8.5/10

Il sipario che apre il film è arrugginito, fatica a spalancarsi. Non vuole farlo o forse ha soltanto un po' di vergogna. E' dura per quel sipario d'epoca aprirsi agli spettatori d'oggi che, logori del bombardamento massmediatico faticano a vedere, a sentire.
Come prevedibile: l'illusionista entra in scena, il teatro si svuota. Magari resta un vecchio, un bambino, qualche spettatore distratto, se va bene uno spettatore partecipe. Lo spettacolo è per felici pochi. Il teatro del film si riflette nelle poche sale cinematografiche che proiettano il secondo lungometraggio del francese Sylvain Chomet, a sette anni dal bellissimo "Appuntamento a Belleville" (in mezzo c'era stato un bel corto in live action, "Tour Eiffel", del film collettivo "Paris, je t'aime"). La sala è semi-deserta, la pellicola può cominciare.

1959. Il vecchio illusionista francese viaggia in lungo e in largo, alla ricerca della sopravvivenza, che è anche la sopravvivenza della sua arte, dunque del proprio essere. Portatore ancor prima che di magia, del senso di meraviglia da donare a un'umanità, soprattutto fanciullesca, ancora in grado di lasciarsi incantare dalle piccole cose che la quotidianità può offrire, senza preamboli, ma con autentica sincerità.
La solitudine dell'uomo, sempre sospesa, tra il successo che negli anni gli ha donato calore e amore da parte del pubblico e il fallimento annunciato di un'attuale platea disinteressata, che lascia vuoto il cuore oltre ai teatri, incontra la solitudine di una giovane ragazza scozzese.
Il primo ha vissuto e ne ha viste tante, la seconda è ancora ben salda nel suo status di innocenza e purezza, di occhi pronti a scoprire il mondo. Una realtà dove l'illusione dipinge e abbellisce i ritratti di giornate altrimenti tristi e piovose. E un altro mondo resta possibile, almeno finchè dura. Ma, intanto, l'iniziazione alla vita della ragazza, passerà da una porta splendente, un ingresso che illumina la grandezza di una piccola umanità.
L'illusionista in questo modo dona il suo amore a una figlia incontrata per caso. L'illusionista è un cinema che per vivere richiede l'amore dei suoi spettatori, è Monsieur Hulot che si aggira impassibile in piccoli e grandi spazi, è Calvero che indossa i suoi panni e la sua maschera per un ultimo, memorabile spettacolo, è Walt Disney e Georges Méliès, che disegnano mondi provenienti dalla radice della meraviglia audiovisiva.

"L'illusionista" è tratto da una sceneggiatura scritta da Jacques Tati, dedicata alla figlia, tra il 1956 e il 1959. Il film non fu mai realizzato perché - pare - che Tati riteneva che il personaggio fosse troppo autobiografico, troppo serio. Poi tornò alla regia nel 1967 nel suo profetico capolavoro "Play Time". Nel 2003 Sylvain Chomet propose alla figlia di Tati, Sophie Tatisheff, di trarre un film da quella sceneggiatura, ritrovata negli archivi del Centre National de la Cinèmatographie: l'illusionista doveva essere un personaggio animato, concordarono i due. Sophie mori' qualche mese dopo: il film è dedicato a lei. Con qualche modifica apportata rispetto allo script riginale (la più significativa: Edimburgo sostituisce Praga), ma con uno spirito profondamente tatiano, "L'illusionista" è un film ricco di personaggi memorabili (deliziosi, variegati acquerelli), annotazioni geniali o almeno curiose, senza praticamente dialoghi, ma con qualche fonema e una struggente colonna sonora dello stesso Chomet. Inserita nel contesto attuale la mano di Tati, affievolisce il versante satirico e, per forza di cose, espande quello nostalgico. I tratti gentili di un'animazione espressiva nella sua quiete gentilezza sono fondamentali per la straordinaria riuscita.

Non è più tempo di music-hall (spazzato via dalla nascita del rock ‘n' roll), non è più tempo di vecchi illusionisti.
Quando l'anziano illusionista Jacques Tatischeff (guarda caso: vero nome di Tati) capita suo malgrado in una sala che proietta "Mio zio", il protagonista del film vede se stesso sul grande schermo. Ha un sussulto, ma fatica a riconoscersi. E' il cinema che riflette la sua essenza ma che fatica a riconoscerla, è l'arte che non riesce più ad appropriarsi della sua identità.
Le luci si spengono, il treno si allontana, dirigendosi verso epoche che gli appartengono.
Saranno realizzati altri film d'animazione a due dimensioni, se andrà bene qualcuno sarà all'altezza di questo. Ma "L'illusionista" resterà presumibilmente l'ultimo film d'animazione bidimensionale possibile, la fine di un'epoca, di un cinema, di un amore, di tutti gli amori, fuori e dentro lo schermo. Questo film, cosi' poetico, onesto e delicato, lascia agli spettatori che sanno vederlo e sentirlo, una malinconia senza fine.
Lontano e vicino, ma forse semplicemente senza tempo, Chomet suggerisce che il cinema non è solo un'illusione.


31/10/2010

Cast e credits

regia:
Sylvain Chomet


titolo originale:
L’Illusioniste


distribuzione:
Sacher Distribuzione


durata:
80'


produzione:
Canal+, CinéCinéma, France 3


sceneggiatura:
Jacques Tati, Sylvain Chomet


scenografie:
Bjarne Hansen


montaggio:
Sylvain Chomet


musiche:
Sylvain Chomet


Trama
Francia 1959. Con l’avvento del rock‘n’roll e il conseguente declino del music hall, un anziano illusionista è costretto a girovagare per far sopravvivere la sua arte. Conoscerà un’ingenua ma pura ragazza scozzese, che lo seguirà ad Edimburgo. Sarà un incontro che darà molto a entrambi
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