Povera Lee, coi suoi grandi occhioni azzurri, lo sguardo perduto e l'aria sbattuta. Appena dimessa dalla clinica, diretta al classico ritorno a casa, e al difficile reinserimento in società e in famiglia - situazione ormai quasi epica nel cinema americano. Padre alcolizzato e madre apprensiva sono il quadro domestico che l'hanno condotta all'ossessiva abitudine di ferirsi e di punirsi con punteruoli e bricchi d'acqua bollente. Finché nella spazzatura (e il tema dell'immondizia, del rovistare e del recuperare piccole schifezze tornerà in tutto il film), Lee (Maggie Gyllenhaal) trova un annuncio per la ricerca di una segretaria nell'ufficio di Mr. Grey (James Spader), eccentrico avvocato. Entrerà nel suo ufficio per la prima volta come una inconsapevole Cappuccetto Rosso (viola in questo caso) nella tana di un lupo che ai fratelli Grimm forse non sarebbe dispiaciuto. La loro storia d'amore sarà per entrambi viatico alla consapevolezza di sé, della propria natura e dei propri sentimenti.
Perché al di là dell'apparenza provocatoria del marketing, dell'aggressività della locandina, della gratuita chiamata in causa (fuori luogo) di De Sade, "Secretary" non è altro che una storia d'amore assolutamente tradizionale. Tradizionale nella struttura, certo; particolare nel modo. Lee scopre di avere bisogno di essere dominata, di voler obbedire, di voler interpretare il ruolo di segretaria/schiava, e di provare piacere nel masochismo; mentre Mr. Grey lotta contro la sua stessa natura di sadico dominatore, cercando di soffocarla e di nascondere i propri sentimenti, tra cura delle piante, trappole per topi, esercizi fisici e pennarelli rossi. Per quanto la materia appaia perversa e cupa, in realtà si tratta di un sadomasochismo gioioso, divertito, e di un film sotteso da una costante ironia, e (anche se sembra un ossimoro) perversa dolcezza. L'amore tra i due diventa infatti un gioco fatto di errori commessi volutamente, rituali feticisti, e messaggi criptati.
Racconto sentimentale tradizionale, dicevamo, segnalato anche dalla presenza di un "terzo" (Jeremy Davies), e da momenti in cui tutto sembra irrimediabilmente perduto. Tradizionale anche in virtù dei cliché di molte storie d'amore: lui e lei devono rendersi conto di essere innamorati - noi spettatori lo sappiamo, loro no, quindi non ci resta che attendere -, devono capire come comunicarselo, devono darsi una prova d'amore definitiva (l'estenuante, paziente, ostinata attesa di Lee, in questo caso), prima di procedere verso il finale. Sceneggiatura classica nella struttura, tratta da un racconto breve, e che inevitabilmente allunga un po' il brodo per approdare al finale (c'è qualche esagerazione che non diverte particolarmente come si propone), ma condita comunque da situazioni e momenti ispirati (la prima sculacciata, ad esempio), ritmo sostenuto (per almeno tre quarti), e dialoghi brillanti.
Per Lee si tratta anche di un percorso iniziatico, un viaggio di formazione verso la presa di coscienza della propria natura, del modo in cui ama, e del fatto che vuole essere comandata; e c'è una spiccata volontarietà nella sua passività, un rovesciamento di ruoli tra vittima e carnefice, dominatore e dominato. Il guardarsi dentro è sottolineato dalla presenza reiterata di specchi e di inquadrature riflesse, ma anche da sguardi in macchina a voler chiamare in causa lo spettatore, osservatore/giudice invitato ad abbandonare i moralismi.
Oltre a questo, come già detto, i toni rimangono quelli della commedia e non del dramma sconvolgente. Pur passando attraverso momenti delicati, il film mantiene un tono leggero, e si regge soprattutto sulle interpretazioni maiuscole di James Spader, da tempo in fuga dal ruolo del nerd di "Stargate", e di Maggie Gyllenhall, con due personaggi che forse, per entrambi, possono essere ricordati tra gli apici delle rispettive carriere. In particolare la Gyllenhall (adorabile e consacrata) è perfetta col suo aspetto fragile, i vestiti ridicoli e un po' naif, la camminata maldestra e insicura della prima parte, e la disinvolta, sfacciata, cocciuta risolutezza della seconda, risultando sempre seducente.
La regia di Steven Shainberg fa il suo dovere, tra ammiccamenti di maniera a volte superflui, interpellazioni, saturazioni della fotografia, camera a mano, con uno stile off-Hollywood e buono per il Sundance Festival, soderberghiano, tutto sommato piacevole, anche se non del tutto esaltante. E' il tipo di commedia indipendente che ama i personaggi sopra le righe. Le musiche di Angelo Badalamenti (nientemeno) conferiscono quel tono ludico, e creano un collegamento anche con Lynch. Certo, qui siamo su un altro pianeta, intendiamoci, ma una certa California soleggiata che nasconde stravaganze, la fotografia, le scenografie, un gusto per il surreale e il perverso fanno pensare a un ammiccamento in quella direzione.
Niente scandali, niente oscenità, insomma, ma una storia d'amore classica, al di là dell'apparente maschera di ostentata perversione provocatoria, dove gli ostacoli tradizionali non sono famiglie, convenzioni o malattie, ma gli stessi protagonisti, le loro nature e timori, la necessità di una presa di coscienza di loro stessi.
16/02/2010