drammatico | Filippine (2024)
Si apre sulle note di una sessione d’allenamento di ginnastica ritmica "Sunshine", ultimo lavoro della regista filippina Antoinette Jadaone, facendo erroneamente credere che si assisterà a un film sportivo sulle pressioni psicologiche a cui gli atleti olimpionici sono sovente sottoposti quando si tratta di dover competere ai massimi livelli. Basta però aspettare la fine dei titoli di testa per essere introdotti invece a quella che è a tutti gli effetti una questione non sportiva bensì sociale, in un paese molto religioso e ancora fortemente legato a tradizioni patriarcali come le Filippine, ovvero l’aborto.
La regista infatti imbastisce l’intero impianto narrativo di "Sunshine" attorno alla sua omonima protagonista alla prese con la gestione di una gravidanza indesiderata, mettendo in piedi una trama essenziale, ma al contempo pretestuosa per raccontare in concomitanza sullo sfondo le problematiche del suo paese e portare avanti così una vera e propria critica sociale. In estrema sintesi, Sunshine (interpretata da un’ottima Maris Racal) scopre, dopo auto-accertamenti seguiti a un mancamento, di essere rimasta involontariamente incinta. Ella però da lì a qualche giorno dovrà partecipare alle qualificazioni per i giochi olimpici, suo grandissimo sogno e aspirazione, così cerca in ogni modo di abortire. Nel tentativo di riuscirci con successo, si ritrova a dover affrontare una serie di spinose situazioni, e ciascuna di esse si trasforma nell’occasione per Jadaone di portare alla luce alcuni lati oscuri del suo paese d’origine.
Ad esempio, non appena Sunshine prende la decisione di interrompere la gravidanza, una delle prime azioni che attua è andare in chiesa a chiedere perdono a Dio per la scelta compiuta, sentendosi evidentemente in colpa a causa del potenziale "omicidio" che ella ha intenzione di "perpetrare". Il tema in questo senso trattato è quindi l’influenza che la religione (cattolica) esercita sulle persone comuni nelle Filippine: essa viene sfruttata come strumento di potere, facendo leva sulle coscienze delle potenziali madri per influenzare le loro scelte e stigmatizzarle in caso dovessero decidere di praticare l’aborto.
Altro esempio eclatante è dato dalla sequenza nella quale Sunshine tenta di abortire per la prima volta: ottenuto sottobanco – l’aborto nelle Filippine è illegale – presso un mercato rionale cittadino un rudimentale kit anti-gravidanza, la ginnasta prende stanza presso uno squallido motel, dove, isolandosi dal resto del mondo per mantenere la faccenda il più possibile segreta, cerca di abortire in solitudine. Qui le cose vanno male però, ed ella è costretta a chiedere l’aiuto della proprietaria del posto per evitare di morire dissanguata.
La critica sociale è duplice: la più immediata è diretta alla natura illegale dell’aborto stesso che costringe le donne a praticarlo per vie pericolose, di fatto mettendo sempre a grande rischio la loro vita; la meno immediata, invece, riguarda la scelta del posto dove Sunshine decide effettivamente di abortire, ovvero l’albergo a ore. Questo (non)luogo rappresenta un po’ la quintessenza del sesso occasionale, e nei paesi del sud-est asiatico, dove il turismo sessuale è purtroppo molto diffuso, il fatiscente motel diventa metafora di sfruttamento e oggettificazione del corpo femminile, soprattutto in assenza, nelle Filippine, di leggi e istituzioni che possano tutelarlo efficacemente.
Oppure ancora, un’altra grande staffilata al suo paese da parte della regista arriva quando Sunshine si imbatte in una ragazzina di tredici anni, rimasta incinta a causa degli abusi subiti da parte di suo zio, che la supplica di darle economicamente una mano per potersi comprare anche lei il kit anti-gravidanza e tentare così un aborto. Sunshine quindi, (com)mossa dai retroscena tragici della ragazzina, le cede un suo secondo kit, ri-comprato nello stesso mercato del precedente, ma le cose non vanno bene neanche per quest’ultima: finisce pure lei all’ospedale, in fin di vita, con la sola possibilità di salvarsi oppure salvare il suo bambino, ma non entrambi. Antoinette Jadaone quindi critica anche le violenze domestiche e la famiglia tradizionale (la ragazzina in questione si scoprirà essere lesbica) che molto spesso le tollera se non le nasconde, nonché la poca importanza che in certi contesti si dà alla cosiddetta "età del consenso", dal momento che molti bambini e bambine vengono costretti a prostituirsi ben prima di aver compiuto la maggiore età.
Se fin qui "Sunshine" può risultare un film tutto sommato classico nel suo canovaccio narrativo, che non aggiunge nulla di troppo nuovo al panorama cinematografico degli abortion movies (giusto per citare due pregevoli esempi recenti, si pensi a "Mai raramente a volte sempre" e "La scelta di Anne – L'Événement") le cose cambiano se si considerano due aspetti.
Primo, il fatto che "Sunshine" sia un film asiatico, pensato (anche) per un pubblico asiatico, ma con una messa in scena e un comparto visivo di stampo più prettamente occidentale (si pensi al font "autoriale" della locandina e dei titoli di testa/coda). L’operazione che porta a compimento è quindi molto coraggiosa, considerando la natura politica del messaggio di cui la pellicola si fa promotrice nonché il livello di tabù che un argomento come l’aborto costituisce nelle Filippine. In altre parole, se per noi pubblico occidentale è quasi normale dibattere su questo tema e poterlo mettere in scena più o meno liberamente, nel bene e nel male, per il pubblico asiatico, e in particolare per quello filippino, il discorso si complica in modo tale da non risultare poi così scontato.
Secondo, e qui forse sta la vera forza del film di Antoinette Jadaone, "Sunshine" attua una curiosa operazione di "personalizzazione del feto", senza correre il rischio però di umanizzarlo a tal punto da dover considerare il suo aborto un omicidio a tutti gli effetti. Fin dalla sua prima visita al mercato, infatti, Sunshine fa la conoscenza di un’impertinente bambinetta (interpretata dall’esordiente Annika Co, anche lei molto brava nonostante l’età) che solo la protagonista sembra essere in grado di vedere e che nel corso del film si apprenderà essere null’altro che una versione futura di sua figlia.
Quest’ultima la giudica, le offre consiglio e supporto quando necessari, si arrabbia con lei (comprensibilmente) quando apprende della sua volontà di abortire. Ma soprattutto, accetta la scelta finale di Sunshine di volersi dedicare anima e corpo al suo sport preferito, e in quella che forse è la scena più toccante del film, dopo averla vista esibirsi in allenamento coi suoi nastri, le corre incontro abbracciandola e sostenendo di avere finalmente compreso appieno le sue ragioni. E’ in quell’istante che la bambina scompare lasciando la ragazza da sola in lacrime di gioia, segno che Sunshine ha effettivamente abortito con successo, ha fatto pace con sé stessa e con la sua coscienza, ma soprattutto è stata in grado di compiere una scelta che fosse solo sua, senza lasciarsi influenzare troppo da condizionamenti sociali esterni, incarnati in questo caso proprio dalla succitata personalizzazione del feto.
Anche un’altra "bambina immaginaria" è presente all’interno del film, la (potenziale) figlia della ragazzina a cui Sunshine cede il suo secondo kit anti-gravidanza. Ella viene introdotta alla ginnasta dalla sua, di "figlia", e proprio come quest’ultima scompare una volta che l'aborto è portato a compimento. La particolarità di questa seconda bambina sta nel fatto che, proprio come la madre, ella è lesbica, a sottolineare come per Antoinette Jadaone i figli sono parte integrante della personalità delle loro madri e a queste loro assomigliano fin da prima di nascere: anche la "bambina" di Sunshine, infatti, pensa, parla e si comporta in modo molto simile a lei.
A differenza così degli esempi cinematografici citati in precedenza, nei quali il feto viene vissuto dalle potenziali mamme come un altro da sé, che non le definisce per quello che sono e del quale cercano in ogni modo di liberarsi quasi fosse solo un ingombrante oggetto, in "Sunshine" esso incarna una sorta di "versione alternativa" della madre, che come tale gode di vita propria, di una sua personalità. Anche per questo motivo l’abbraccio finale tra Sunshine e sua "figlia" risulta particolarmente emozionante, perché di fatto altro non è che l’accettazione, da parte di quest’ultima, della morte. Nel momento in cui essa è scelta consapevolmente (anche) da parte del feto, ecco che l’aborto smette di essere un omicidio, un tabù, diventando solo una valida alternativa in mano alle donne per poter raggiungere la piena realizzazione di sé e, in definitiva, una maggiore libertà.
"Sunshine", quindi, prima ancora che un film sull’aborto, risulta essere un film sull’affermazione individuale, che trova la sua rappresentazione metaforica paradossalmente proprio nella succitata personalizzazione del feto. Antoinette Jadaone suggerisce che tutte le pressioni sociali legate ad esso, prima ancora che essere imposte dall’esterno, sono interiorizzate, e vengono sfruttate dalle istituzioni religiose solo in un secondo momento per far leva sul senso di colpa delle potenziali madri. Nel momento in cui però i conflitti interiori legati a una possibile interruzione di gravidanza vengono risolti, al centro non viene più posto il feto, ma l’individuo che lo porta in grembo, con l’aborto che può diventare quindi uno strumento di auto-definizione.
A riprova di ciò, in conclusione, si esaminino il titolo e la locandina del film. "Sunshine", come già detto, è sia il nome del film che della sua protagonista, e il poster promozionale la ritrae, lei e solo lei, nell’atto della pratica che più l’appassiona, la ginnastica appunto, con i nastri a formare i lineamenti del suo volto. Non c’è traccia alcuna di elementi che possano ricondurre al tema dell’aborto. Antoinette Jadaone suggerisce quindi, fin dalla promozione del suo film, che esso parli prima di tutto di Sunshine, una ragazza che trova la sua piena realizzazione, la sua forma, nello sport agonistico, e (almeno per ora) non nella maternità: l’aborto per evitarne una prematura, e tutto ciò che ne consegue, arriva solo in un secondo momento, e senza per questo definire Sunshine in funzione di esso.
cast:
Maris Racal, Annika Co, Jennica Garcia, Meryll Soriano, Elijah Canlas, Rhed Bustamante, Xyriel Manabat, Angeli Bayani
regia:
Antoinette Jadaone
titolo originale:
Sunshine
durata:
92'
produzione:
ANIMA, Project 8 Projects, Happy Infinite Productions Inc., Cloudy Duck Pictures, Film Development C
sceneggiatura:
Antoinette Jadaone
fotografia:
Pao Orendain
montaggio:
Benjamin Tolentino
musiche:
Rico Blanco