Ondacinema

recensione di Francesca d'Ettorre

"Potete star certi che Colombo non era felice nel momento in cui scoperse l'America, bensì quando era in viaggio per scoprirla [...] L'importante non era quel Nuovo Mondo, che magari poteva anche inabissarsi. [...] L'importante sta nella vita, solo nella vita, nel processo della sua scoperta, in questo processo continuo ed ininterrotto, e non nella scoperta stessa! [...] Del resto, voglio aggiungere che ogni idea nuova o geniale concepita da un uomo, o anche, semplicemente, ogni idea seria gemmata nella mente di qualcuno, resta sempre qualcosa che è impossibile trasmettere agli altri uomini, anche se si scrivessero interi volumi e si impiegassero anche trentacinque anni nell'intento di interpretarli; rimarrà sempre qualcosa che si rifiuterà in ogni modo di uscire dalla vostra testa e resterà sempre chiuso in voi..."  (da "L'idiota")



Con "Una moglie" John Cassavetes vede il principio del disgelo critico e commerciale nei confronti del suo lavoro, sempre fin troppo incompreso in vita fino alla totale controtendenza post mortem, invero tardiva, ma che lo annovererà a capostipite del cinema indipendente americano e padre di una prolifica filiazione di autori (da Martin Scorsese a Woody Allen, Abel Ferrara, Robert Altman etc) che lo hanno assunto a stella polare. Due nomination agli Oscar (miglior attrice e miglior regia), quattro ai Golden Globe di cui uno in tasca a Gena Rowlands, undici milioni di dollari di incasso (non una cifra irrisoria per l'epoca) è lo strascico che nel 1974 "Una moglie" lascia dietro di sé. Un film co-finanziato anche dall'amico Peter Falk (al regista costa una ipoteca sulla casa), un cast di famigliari e amici; si svolge prevalentemente nell'alcova coniugale della famiglia Longhetti - dove Mabel (Gena Rowlands) è una moglie e mamma  straripante-"sotto l'influsso di" isterismi e stravaganze e Nick (Peter Falk) il marito e papà di origine italiana assorbito dal lavoro in cantiere e incallito da asperità caratteriali in eccesso di virilismo latino - che va a concludere quella tetralogia, così definita da Sergio Arecco nella sua monografia, che ha come punto focale la coppia e il matrimonio: "Faces", "Mariti" e "Minnie & Moskowitz" lo precedono.


Il cinema come flusso vitale
Prima di addentrarsi tra le trame avviluppanti di "Una moglie" ciò che bisognerebbe (non) sapere è che quello che scorre sullo schermo non è un film, ma un'esperienza sensibile. Non è il racconto di, ma l'immersione subacquea, dove tutto intorno è un rumore sordo, in una polifonia di stati emozionali. Non lo sciorinamento della vita, ma vita. Non ci sono letture, interpretazioni, elucubrazioni elargite da un regista-onnisciente ed esterno al girato che propone il suo sguardo sul mondo attraverso il linguaggio cinematografico  - ci dice cosa vedere, sentire, riluttare;  c'è altresì un autore, John Cassavetes, cui non interessa far accadere qualcosa, ma che l'oggetto filmico sia qualcosa, pulsante e traboccante stati dell'animo, dai quali ognuno è coinvolto e compartecipe, dal cast al regista fino allo spettatore. Quello che accade non è ciò che i personaggi fanno, ma quello che sono. La loro personalità scrive lo script, il comportamento lo narra. Configurando, così, pensiero e azione come coincidenti: il pensiero produce l'azione e l'azione del pensiero è il pensiero stesso. Contraddicendo, dunque, l'inattività della vita contemplativa platonica in favore di un pensiero performativo. Del resto, quando i personaggi sono così ispessiti dagli strati interiori, succede che gli eventi decadano a corredo. Nella scena della spaghettata e in quella della riunificazione finale - in un ritorno circolare al caos frastornante della coralità iniziale - la cinepresa segue (non una serie di azioni ma) una concatenazione di (inter)azioni emotive, insinuandosi a ridosso di volti e peculiarità epidermiche e gestuali. Si azzera, dunque, la distanza straniante tra spettatore e immagini e tra autore e opera che, a sua volta, rimanda sullo schermo possibilità di esperienze e di tipi umani la cui scoperta è un percorso esplorativo e vitalistico in continuo divenire: già sappiamo che per il cineasta americano un film non può dirsi mai "concluso". Una connotazione di cinema-vita, questa, in cui l'autore ha una vicinanza simbiotico-affettiva con la pellicola, anziché la distanza critica di chi vive al di fuori dell'opera, la scrive, ne elabora lo storyboard, studia la geometria delle riprese, interroga l'angolazione dell'occhio della cinepresa fino a restituirci dichiarazioni, riflessioni, spaccati, e pur sempre enunciati. Non c'è codice/archetipo estetico-narrativo che possa imbrigliare canonicamente la mutevolezza, l'intensità del nostro modo di vivere e sentire - vuole dirci Cassavetes.
Non lasciava certo che l'improvvisazione lo addomesticasse, però. La sceneggiatura di "Una moglie" al momento delle riprese era completa e semmai fu rivista e rimaneggiata in fieri con il contributo della sua crew di attori che la integravano di percezioni personali finché la profondità psicologica raggiungeva livelli - pur eretici - di complessità bergmaniani. È fondamentale sottolineare l'innovativa concezione dell'arte che Cassavetes andava esprimendo attraverso il suo febbrile lavoro e che in "Una moglie" si fa compiutezza espressiva: ricalcitrante all'idea del cineasta-demiurgo che con sicumera autoreferenzia il suo potere intellettuale e analitico declinando l'opera al virtuosismo artistico su cui esercita un raziocinante controllo; rinuncia all'intellegibile onnicomprensività per guardare all'arte come un continuum di incertezza, domande e paure che si correlano in un tempo provvisorio. 


Under the Mabel's influence
La poetica personale e originale di Cassavetes giunge qui a un livello di maggiore consapevolezza e conseguita sicurezza autoriale, che ammorbidisce progressivamente ciò che in "Ombre" aveva massima libertà di espressione, dalla estemporaneità fluviale à la free jazz che fa deragliare continuamente i binari narrativi, all'emotività sincopata della cinepresa. Sebbene non si definisse un regista, dietro la presunta cineamatorialità delle scelte stilistiche del nostro autore - l'assenza di set, il montaggio disomogeneo e subordinato alla continuità temporale degli eventi (grazie all'utilizzo di più cineprese per le scene in interni), il rapporto di reciprocità con l'attore, la polifonia delle voci - vi è studio minuzioso che risponde all'intento di subordinare la tecnica alla poetica. In particolare, il rapporto esclusivo e privilegiato che instaura con l'attore (una cerchia ristretta di amici oltre la compagna e i parenti) rende, nel caso di "Una moglie", Gena Rowlands una estensione-alter ego del regista, chiamata a "dirigere" gli attori in scena. È evidente fin dalle prime sequenze che suo è il ruolo di esuberante cerimoniere degli effluvi di moti d'animo che conflagreranno a mo' di schegge impazzite; è lei che detta la punteggiatura del pathos emotivo nei duetti con Peter Falk, lei che teatralizza i personaggi d'intorno mimandone la parodia, sì debitrice della tradizione slapstick, ed è lei che li puntella, li invita a ballare, a recitare - non a caso - la morte del cigno, a travestirsi: a interpretare una vita che non è, una illusione di felicità.
Chi è, dunque, Mabel. Una donna sotto l'influenza di un disordine psichico?. Molto più, molto altro. Una donna con una famiglia e pur angosciata dalla solitudine appena la porta di casa si chiude e non resta che lei; una donna che si serve del rumore per impedire che il silenzio le faccia ascoltare la eco delle sue torturanti paure. "Io ti appartengo", dice al marito nella scena in cui l'esplosività delle sue nevrosi tocca l'acme. Quasi sussurrato, è l'attestato di una dipendenza affettiva (una influenza, di nuovo) che sottende l'alienazione da una vita matrimoniale infelice, in cui l'alcool, le pillole e adulteri svogliati fungono da residuale anestetico. Due antinomie umane, lei e il marito - Mabel raffinata ed eccentrica sognatrice, Nick rozzo e autoritario italoamericano tutto lavoro e mammà - che si abbandonano a livelli di incomunicabilità virali. Accomunate, però, dall'ausilio di una maschera quotidiana con cui scleroticamente cercano di insidiare una condizione umana invero immutabile: Nick è preoccupato dall'idea esteriore che la gente ha della sua famiglia; minimizza, dissimula, inveisce se una parola di troppo gli giunge all'orecchio sulla condizione dell'animo - l'inesprimibile pazzia - con cui Mabel risponde a un mondo che non le corrisponde l'immagine desiderata. Distanze siderali separano "Una moglie" dalle stucchevoli epopee romantiche della gloriosa Hollywood, semmai allegano la fimografia del regista alla coeva new wave francese (il manifesto del cinema-verité è del 1961) e alla corrente del free cinema inglese, oltre che al New American Cinema che lo decanta a simbolo di un nuovo e anti tradizionale modo di fare cinema, ma di cui non firmerà mai il manifesto. Lo spontaneismo cassavetesiano, l'interpretazione rinnovata della tradizione cinematografica (il cineasta americano attraversa i generi e li rimodula al servizio della sua "commedia umana"), il pessimismo che si stempera nella pantomina parodistica compongono l'inusitato paradigma entro cui una sequela di antieroi borghesi si muovono - o poco importa che si muovano - sovraccaricando la pellicola di parole che non significano perché non comunicano, fino a una conclusione, provvisoria, che esclude la salvezza. I continui "ti amo" e "ti voglio bene" rimbalzano a vuoto; l'unica forma di comunicazione veritiera dà voce a smorfie, carezze, abbracci; a quei gesti rivelatori dei flussi emozionali-love streams che tengono gli individui legati. Ne "La vita è meravigliosa" di Frank Capra un angelo custode rimedia al peggio, in "Una moglie" i protagonisti edificano azzardi di equilibri imperfetti, in un estremo tentativo di sopravvivenza all'impossibilità di cambiamento.
Un pastiche di gradazioni vocali, suoni in presa diretta, alti e bassi emotivi, musica lirica, gestualità in surplus che rimbalzano tra le mura di una casa - dove la privacy è un anelito da inchiodare a caratteri cubitali sulla porta del bagno - in cui ai personaggi è chiesto bagnarsi di vita e mondare la dialettica tra il fluire babelico delle emozioni e le distanze imposte dalla società dall'adulazione consolatoria. Long take, primi e primissimi piani si intersecano nella destrutturazione dell'epica della middle class americana: il confine tra salute e malattia si fa laconico - Nick, dopo il ricovero di Mabel, si mostra come un padre altrettanto disperato - la frustrazione assurge a comune declinatore di esistenze inclinate in discesa libera, la drammaturgia cassavetesiana collima con l'interpretazione cardiaca dei due protagonisti sino al massimo fulgore di lirismo emotivo possibile. Sul finire, la tempesta sembra essere passata, il silenzio e una inaspettata quiete fagocitano fin l'ultima scoria di rumore. Mettersi a letto come se niente fosse. Nell'attesa che sia domani.


30/04/2013

Cast e credits

cast:
Gena Rowlands, Peter Falk, Fred Draper, Lady Rowlands, Katherine Cassavetes, Matthew Laborteaux, Matthew Cassel, Christina Grisanti, Mario Gallo, Eddie Shaw, Nick Cassavetes, Alexandra Cassavetes


regia:
John Cassavetes


titolo originale:
A Woman Under The Influence


distribuzione:
IMPEGNO REAK


durata:
155'


produzione:
Sam Shaw


sceneggiatura:
John Cassavetes


fotografia:
Mitch Breit, Al Ruban


montaggio:
David Armstrong, Beth Bergeron, Sheila Viseltear


musiche:
Bo Harwood


Trama
Mabel e Nick Longhetti hanno tre figli: Tony, Angelo e Maria. Il capofamiglia è un italoamericano assorbito dal lavoro in cantiere che lo porta spesso fuori casa, mentre la moglie è una donna molto fragile psicologicamente, cui le promesse disattese del marito e il carico di una famiglia sulle spalle inducono a un tracollo psichico fino al ricovero in clinica.