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recensione di Giancarlo Usai
7.5/10

Su molte recensioni leggerete che Abdellatif Kechiche ha uno stile inconfondibile. Che il suo mondo cinematografico, anche se si sposta geograficamente o di epoche storiche, ha un'impronta coerente e unica. Non credete a tutto ciò. Il cinquantenne regista tunisino è uno dei talenti più dinamici e imprevedibili, invece, che il cinema contemporaneo annoveri. Accettiamo solo una caratteristica comune tra i sue due ultimi lavori, il pluricelebrato "Cous Cous" e il suo ultimo "Venere nera": un "verismo" tutto suo, improntato alla più spietata lotta alle didascalie. Questa, per Kechiche, è sicuramente una legge inviolabile. Nel resto, però, è sorprendente come un assunto di fondo venga messo in scena in modi così incredibilmente diversi a pochi anni di distanza. Nel film che conquistò Venezia nel 2007 con il suo racconto corale, andava in scena il dramma del presente mediante una tragicommedia senza fine, con una struttura polifonica che arrivava a ricordare il miglior Altman nello stile dei dialoghi e la nostra miglior commedia degli anni Sessanta nello spirito scanzonato di fondere il paradosso della finzione cinematografica con l'amarezza di una realtà difficile.

Con questo suo ultimo lavoro, l'autore tunisino cambia ancora. Si lancia nel grottesco, quasi nel documentaristico, a tratti. La storia è risaputa: una schiava dell'Africa del sud viene portata in Europa per essere presentata come una specie di fenomeno da baraccone al pubblico. E tra occhi e mani di troppi curiosi, la "Venere ottentotta" compirà una sorta di viaggio all'inferno nel Primo mondo, che Kechiche non risparmia allo spettatore: sul suo fisico e nel suo animo, saranno evidenti gli effetti dell'alcol, come della droga, come del sesso o delle esibizioni in pubblico. Qualcuno pensa che Kechiche non si trovi bene in una rivisitazione storica, che sia un regista più bravo nella contemporaneità, quando descrive periferie o quartieri di immigrati della nuova Francia. Forse è vero, forse la ricostruzione della Francia in costume non è accurata e levigata al punto giusto. Ma questo film è altro: è un racconto di formazione al contrario, un feroce attacco agli effetti nefasti dell'imperialismo occidentale, un ritratto della trasformazione becera dei nostri antenati. E qui, in tutto ciò, in un contesto così pesantemente ammantato di cattiveria, sgradevolezza e disprezzo, Kechiche non perde il suo occhio freddo e distaccato e sceglie, anche stavolta, il modo migliore per mettere in scena la sua storia. Con primi piani quasi eccessivi e inquadrature che indugiano sul corpo "diverso" della giovane africana, il regista fa quello che gli riesce meglio: evita una spiegazione di troppo, elimina il superfluo, la didascalia, appunto. La "Venere nera" è lì, per gli occhi di tutti i guardoni che la dileggiano e negli occhi dello spettatore moderno: e i due pubblici, proprio grazie a questo, ribadiamolo nuovamente, verismo di Kechiche, riescono a coincidere.

Il percorso dell'autore tunisino prosegue dunque spiazzando tutti, dimostrando che il talento non trova ostacoli nelle epoche storiche e riesce a imporre le proprie convinzioni sempre e comunque. Se c'è un difetto, semmai, nel cinema di questo regista perennemente promettente, è l'eccessiva lunghezza delle pellicole. Se in "Cous Cous" la durata fluviale del racconto coincideva perfettamente con la volontà di catturare uno scorcio di vita di gruppo in quella splendida commedia dell'umanità, in un film meno "poliforme" come "Venere nera", le oltre due ore e mezza fanno correre a volte il serio rischio della ripetitività.


23/06/2011

Cast e credits

cast:
Yahima Torrès, Andre Jacobs, Olivier Gourmet


regia:
Abdellatif Kechiche


titolo originale:
Vénus noire


distribuzione:
Lucky Red


durata:
166'


produzione:
MK2 Productions


sceneggiatura:
Abdellatif Kechiche


fotografia:
Lubomir Bakchev


montaggio:
Camille Toubkis, Ghalya Lacroix, Laurent Rouan, Albertine Lastera


Trama

Parigi, 1817, Accademia Reale di Medicina. "Non ho mai visto testa umana più simile a quella di una scimmia". Di fronte al calco del corpo di Saartjie Baartman, l'anatomista Georges Cuvier è categorico. Un parterre di distinti colleghi applaude la dimostrazione. Sette anni prima, Saartjie lasciava l'Africa del Sud con il suo padrone, Caezar, per andare ad offrire il suo corpo in pasto al pubblico londinese delle fiere e degli zoo umani. Donna libera e schiava al tempo stesso, la "Venere ottentotta" era l'icona dei bassifondi, sacrificata al miraggio di un'ascesa dorata...

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