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Abbiamo scambiato quattro parole con Hilal Baydarov, regista dell’Azerbaijan, recentemente consacrato alla ribalta internazionale dopo che un suo film, "In Between Dying", è stato selezionato per il concorso principale alla Mostra del cinema di Venezia, ricevendo peraltro un accoglimento entusiastico da almeno una parte della critica

Classe 1987, Baydarov ha avuto una formazione scientifica, studiando informatica e matematica. Ha vinto due volte i campionati nazionali di matematica negli anni del liceo e nel 2011 ha guidato la squadra azera alle olimpiadi dell'informatica. Dopo aver conseguito un master in questo campo di studi, Baydarov ha rivolto la sua attenzione verso il mondo del cinema, recandosi in Bosnia a studiare alla Sarajevo Film Academy di Béla Tarr

Il suo primo film arrivato in sala è stato, nel 2018, "Hills Without Names", presentato in anteprima al Montreal World Film Festival. Dopo l’exploit canadese, Baydarov ha inviato ai festival alcuni film che aveva girato negli anni precedenti e che erano stati sino a quel momento rifiutati, ma che sono stati rivalutati, spesso con entusiasmo, da alcune delle più importanti rassegne del Vecchio Continente, fino ad arrivare, per l’appunto, alla consacrazione in laguna con "In Between Dying". 

Come ci ha spiegato il regista, sei degli otto film da lui girati finora (restano fuori "Hills Without Names" e lo stesso "In Between Dying", che sono opere a se stanti) sono raggruppabili in una trilogia denominata "Katech Trilogy" e in un progetto filmico (definito da Baydarov il suo "lifetime project") chiamato "Portraits", che conta già tre lungometraggi, ma che prevede la realizzazione di altre opere.
I tre film attualmente facenti parte di "Portraits" sono:  
1. "I Don't Know" (che non è mai stato presentato a nessun festival e che - come ci ha riferito l’autore - mai lo sarà, essendo dunque destinato a rimanere un’opera strettamente personale); 
2. "One Day in Selimpasha"; 
3. "Birthday". 
La trilogia Katech, invece, raccoglie le tre opere più celebri tra quelle girate sinora da Baydarov (con l’eccezione del citato "In Between Dying", che come detto non ne fa parte), ed è dedicata al villaggio azero di Katech (Katex), in cui il regista trascorse parte della sua infanzia: 
1. "Mother and Son", presentato nel 2019 all’IDFA di Amsterdam; 
2. "When the Persimmons Grew", che è arrivato anche al Torino Film Festival del 2019; 
3. "Nails in My Brain", che dopo essere stato presentato al Cinéma du Réel è di recente stato proposto dal Trieste Film Festival 2021 nel concorso documentari. 

È quest’ultimo un film estremamente personale e teorico, che ci ha fornito lo spunto per alcune domande sul modo di intendere il cinema di questo giovane autore. 

Buongiorno Hilal e grazie per la tua disponibilità. Vorrei partire dall’ultima delle tue opere giunte qui in Italia. In "Nails in My Brain" parli dell’influenza che gli altri film hanno sul tuo modo di vedere il cinema, ma poi dici chiaramente come la realtà e la vita vera superino l’influenza data dal mondo dell’arte. Ebbene. Quali sono le opere e gli autori (letterari e cinematografici) che ti hanno influenzato maggiormente e cosa invece ti ha influenzato di più del mondo che ti circonda, quello concreto e materiale? 

Per quanto riguarda il cinema, certamente Tarkovskij, e per la letteratura Dostoevskij. Spesso mi capita di pensare di non amare il cinema, ma di amare Tarkovskij. E di non amare la letteratura, ma di amare Dostoevskij. Perché ci sono pochissimi film che mi piacciono davvero, ma spero che ciò sia un mio problema. Onestamente, non credo che la storia del cinema sia così ricca e non sono così ottimista riguardo al suo futuro.  
Ad ogni modo, posso dire, in generale, di trovarmi tra due fuochi, da una parte la poesia iraniana e dall’altra i romanzi russi [ndr: L’Azerbaijan si trova nella regione caucasica, esattamente tra Russia e Iran, con i quali confina, rispettivamente, a nord e a sud].
Amo Rumi, Hafiz e i grandi poeti Khamsa, ma quando mi avvicino agli iraniani sento che mi mancano i grandi scrittori russi e viceversa sento che mi vengono a mancare gli iraniani quando torno ad avvicinarmi ai russi. Per certi versi, penso di sentirmi un pendolo tra questi due mondi. 
Per quanto riguarda invece l’ispirazione che ho avuto dal mondo materiale, sicuramente lo è stata la mia vita di giocatore di scacchi d'azzardo in Bosnia, dove avrei dovuto studiare cinema. Ogni settimana andavo a Mostar a giocare a scacchi per guadagnarmi da vivere. E in quelle stanze buie ho imparato il cinema. Ma in quelle stanze buie mi mancavano anche la mia famiglia e il mio villaggio, così sono tornato ai miei luoghi d’origine per fare cinema. 

Cosa è cambiato nella tua vita da quando le tue opere hanno iniziato a essere accettate ai festival e cosa è cambiato, in particolare, dopo che "In Between Dying" è stato selezionato per il concorso principale alla Mostra del cinema di Venezia? Mi riferisco soprattutto al tuo modo di fare cinema, più che alla mondanità che tutto ciò ha comportato (un sacco di interviste, soprattutto a Venezia, che so che non ami molto). 

Onestamente non è cambiato quasi niente. Continuo la mia vita come prima. Vivo nello stesso posto, incontro le stesse persone e faccio ancora film con le stesse persone e negli stessi luoghi. I festival hanno scoperto i miei film molto tardi. Molti dei film che hanno mostrato in questi ultimi anni sono i film che ho girato 6-7 anni fa. Tutti i festival hanno rifiutato i miei film per anni. 

In Italia usiamo spesso un proverbio, importato dal latino e che origina dai Vangeli, che dice "Nessuno è profeta nella sua patria" (nemo propheta in patria). In "Nails in My Brain" arrivi a dire, in una sorta di auto-esortazione: "Non cercare di essere l’oracolo di Baku". Dici a te stesso: "Non sei un profeta!". Ecco: qual è il rapporto con il tuo paese e con il cinema azero, e soprattutto, pensi che quel detto latino, "Nemo propheta in patria", sia adattabile alla tua condizione? 

Direi di sì. Anche perché, onestamente, mi sento un alieno e penso che questa sensazione non cambierà mai. Ma appartengo a questo posto e vivrò con questo senso di stranezza fino alla fine della mia vita, una vita che ho accettato anni fa.  
Quanto a "Nails in my Brain", ho realizzato quel film nel 2014, e francamente ero così solo in quel periodo che penso sia facile intuirlo dal film. Lascia che ti dica come ho scritto quelle parole e come è nato quel film. Quando ho iniziato "Nails", in realtà non sapevo che stessi girando un film, non avevo mai programmato di fare un film. Ho solo iniziato a catturare il tempo e lo spazio intorno a me. E un giorno mi mancava così tanto la neve che ho pregato perché nevicasse, perché volevo filmarla. Mia zia mi disse che erano anni che nevicava poco o nulla nel nostro villaggio. Ma proprio il giorno dopo è iniziata la forte nevicata che si vede nel film e ho iniziato a girare. Successivamente arrivai a un punto morto, in cui mi sembrava di ripetermi. Non avevo fatto ancora niente di speciale, quindi ho semplicemente smesso di filmare e sono tornato a casa. Lì ho iniziato a cercare una nuova idea. E ho immaginato che il mio cervello fosse impazzito e che dovevo decifrarlo per trovare nuove idee. Ho così immaginato il mio cervello pieno di chiodi e mi sono chiesto: perché non applicare questa idea ai muri dei luoghi che mi ispirano i miei più forti ricordi? La mattina dopo ho preso i chiodi e ho iniziato a conficcarli su tutti i muri e sulle cose intorno a me che mi ricordavano qualcosa. Ho poi raccolto tutto il girato e ho deciso di fare un film basato sui miei ricordi. Si è formato così. E durante il montaggio, ascoltavo sempre Erik Satie, così mia madre mi ha convinto a mettere questa musica nel film. Questa è la storia di "Nails in My Brain". Penso che sia il mio miglior film. 

In "Nails in My Brain" parli anche di come sia difficile spiegare cose che per gli altri sono scontate e ovvie, quasi banali. La dimostrazione matematica dell’equazione 5 = 5 sembra diventare una metafora delle diverse sensibilità che le persone hanno nella percezione del mondo. Che influsso hanno avuto i tuoi studi matematici e informatici sul tuo modo di fare cinema?  

Tutti sanno che 5 = 5, eppure un giorno, non chiedermi come, i tuoi occhi potrebbero aprirsi e potresti davvero vedere che 5 = 5. Puoi vederlo nel profondo. È un diverso tipo di percezione della realtà, è un nuovo orizzonte che si apre. Penso che sia questa la missione dell'arte: aprire nuovi orizzonti. E per capire il significato di questa frase credo che sia davvero necessaria una intensa esperienza di vita. Lo vedo nella matematica e lo vedo anche nella vita, che la fonte di questa nuova percezione della realtà, di questi nuovi orizzonti, è sostanzialmente la stessa. Dietro tutte le cose c'è solo un punto e tutti noi ci colleghiamo a questo punto. Che tu possa accettarlo o meno, vederlo o meno, è così. Puoi chiamare quel punto destino, fato, tempo, non so come, ma un giorno ti rendi conto che c'è qualcosa che ti tiene per mano e quel qualcosa non sei tu. 

Infine, volevo chiederti: nella tensione tra successo e fallimento, hai dichiarato di voler "stare nel mezzo".  La tua idea di cinema è soprattutto personale ed esistenziale, credo di poterlo dire senza incorrere in errore. La dimensione festivaliera è quella che più si confà a queste tue idee? O pensi in futuro di poter sviluppare progetti di respiro più ampio e popolare, senza però abbandonare la tua impronta autoriale? 

In realtà voglio davvero smettere di mandare i miei film ai festival. Lo farò. Non so quando, ma lo farò di certo. Non credo di poter andare lontano, non sono qui per fare "capolavori". Conosco bene la mia dimensione, so chi sono e so di non essere così speciale. Ci sono migliaia di registi mille volte più bravi di me. (Ma mentre le dico, il mio cuore mi dice "smettila di mentire Hilal!")





Da Baku a Venezia. Intervista a Hilal Baydarov