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Speciale "Mektoub, My Love" - Intervista alle montatrici del film

La nostra intervista esclusiva alle giovani Maria Giménez Cavallo e Nathanaëlle Gerbeaux, montatrici di "Mektoub, My Love: Canto Uno" di Abdellatif Kechiche

Succede, talvolta, di compiere degli errori quando si compila la scheda per un film di cui si hanno ancora poche notizie (perché in prima mondiale a un festival del cinema). Così capita che qualcuno ti scriva affinché l’imprecisione venga emendata: è nata così una conversazione via e-mail con Maria Giménez Cavallo, 26enne che, un po' per caso, un po' per ostinazione ha seguito il progetto  di Abdellatif Kechiche, "Mektoub, My Love: Canto Uno", dal casting fino al montaggio. Lo scambio di mail è diventata una vera e propria intervista a lei e alla collega di montaggio Nathanaëlle Gerbeaux, che hanno offerto il loro racconto della collaborazione con Kechiche e uno sguardo sul metodo che ha portato alla realizzazione dell’opera.


Prima di tutto sarebbe interessante sapere qual è il tuo percorso e come sei arrivata a collaborare a "Mektoub, my love: canto uno".

M.C. - Ero già appassionata del film "Cous cous" ma, quando ho visto "La vita di Adele", sono stata presa da un'ammirazione totale per Abdellatif. Il fatto di seguire un viso che mangia e che piange durante tre ore, mi ha colpito in modo particolare perché mi ricordava le idee di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica: filmare le banalità della vita per sublimarle. Allora quando mi sono laureata alla Columbia University (con delle specializzazioni in francese, italiano e cinema), sono corsa subito a Parigi con il preciso scopo di lavorare con questo regista. Come se fosse stato davvero il mektoub («destino» in arabo), lui era seduto al caffè davanti al suo ufficio. Gli ho fatto una dichiarazione da vera tifosa dicendo che volevo accompagnarlo nella sua produzione del suo prossimo film. Ed ecco, mi ha preso nella sua école Kechiche!

N.G. - Avevo incontrato Maria in un corso sul cinema muto alla Sorbonne nel 2013. Abbiamo preso l'abitudine di vedere i film insieme al cinema, perfino sei al giorno! Lei sapeva che ero andata tre volte a vedere "La vita di Adele" al cinema, tanto il regista mi appassionava, e quindi dopo che ha cominciato a girare Mektoub con lui, mi ha proposto di venire a fare da assistente sul set. Poi quando Abdellatif mi ha visto impegnata nel mio lavoro, ma sempre in disparte per osservare tutto quello che succedeva, mi ha chiesto se volevo imparare a fare il montaggio. Così ho scoperto una vera passione!


Sia il cast che la troupe è molto giovane, in molti casi si tratta di esordienti: hai avuto modo di conoscere altri componenti della troupe per capire che aria si respirasse sul set?

MC. - Noi abbiamo avuto la grande fortuna di essere presenti sul set per tutto il percorso, di girare prima che di montare. Io ho cominciato il processo facendo il casting e ho scelto i personaggi insieme al regista. Poi sono stata la sua assistente sul set, seguendo tutti i giorni lo schermo accanto a lui durante i take. Lui mi diceva direttamente se il take era buono e a volte quale angolo preferiva. Così, quando sono arrivata nella sala del montaggio, sapevo già quello che cercava. Infatti, è stato un grande aiuto seguire il film sotto tutti gli aspetti e in ogni momento.

N.G. - Sul set eravamo una grande famiglia, tutti giovani, entusiasti, con una gran voglia di creare qualcosa di unico insieme. Abbiamo vissuto come una colonia di vacanza, lavorando intensamente ma anche trattando il lavoro come se fosse un divertimento. L'aria che si respirava sul set si sente nel film, secondo me, l'incoscienza giovanile, le vacanze, il mare, il sole, con gli amici.


Il film è costruito per mezzo di lunghe macro-sequenze che esauriscono autonomamente i vari episodi che costituiscono l'estate di Amin e dei suoi amici. Come lavorate per montare?

Ognuno lavorava all'interno di una scena, come se fosse un cortometraggio senza pensare al film totale. Sceglievamo quello che sembrava l'essenziale e il più bello per ogni momento, invece di pensare a quello che serve alla narrazione globale. Poi scambiavamo le scene e scoprivamo altri intrecci che non avevamo visto e pian piano il film prendeva la sua forma definitiva.


La sequenza ambientata in discoteca è forse l'inserto più lungo del film: oltre alla lunghezza mi pare di ricordare anche una forte attenzione al punto di vista e alla sua continua dislocazione all'interno dello spazio. Volevo chiedervi qual è stato il processo per arrivare alla versione finale.

Traumatizzante! Non andremo mai più in discoteca! Tutta la notte, anche dormendo, sentivamo ancora questa musica un po' trance e vedevamo le immagini di ballo. Abbiamo lavorato su questa scena un mese intero per trovare l'equilibrio della durata e gli angoli giusti. C'era tanto materiale che ci ha costrette ad un processo di eliminazione lento, tagliando pian piano fino a che sono rimasti solo venti minuti. Dovevamo trovare il giusto equilibrio fra i dialoghi e il ballo per non stancare troppo gli spettatori. Questa scena vi sembrerà lunga, ma per noi adesso sembra quasi corta rispetto a tutte le versioni che abbiamo fatto durante il montaggio. 


Com'è stato collaborare con Kechiche e quali sono state i suoi metodi? 

M.C. - Lavorare con Kechiche è una vera collaborazione. Lui tiene in considerazione le idee altrui e ci ispira a sognare con lui all'interno del mondo del suo film. Da anni faccio delle ricerche sul tema del post-umanesimo nel cinema. Per la mia tesi di laurea alla Columbia, infatti, avevo fatto un'analisi delle "Quattro volte" di Michelangelo Frammartino e come riesce a fare vedere l'anima di ogni protagonista, che sia uomo, animale o minerale. Sentendo il mio entusiasmo per il mondo pastorale attraverso il cinema, Abdellatif si è appassionato a quest'idea e così abbiamo convertito il personaggio di Ophélie in una figlia di pecorai. Per me, la scena della nascita degli agnelli è una delle scene più belle nella storia del cinema, ed è il frutto di questo spirito collaborativo.

N.G. - Kechiche ci lascia una libertà tale che ognuno contribuisce con tutto il cuore e dà una parte di sé. Il suo segreto è il sapere cogliere da tutti, in modo che diventi davvero una procedura collettiva. Lavorando tutti insieme per un bene comune, alla fine ci viene un grande affresco della vita pitturato da varie mani. 


Dopo la presentazione veneziana, Kechiche ha deciso di riportare "Mektoub, my love" in sala di montaggio: avete preso parte anche a questa seconda fase? Ci potete spiegare quali sono state le motivazioni e anticipare cosa cambierà dal montaggio visto a Venezia? 

Come dice Amin alla fine del film, "ci vorrà un po' di tempo per cuocere tutto". Infatti, un film è come un sugo di pomodoro e bisogna cuocerlo a fuoco lento. Ci sono sempre ultimi dettagli da correggere ed equilibri da trovare. Ci è servito vedere il film con il pubblico del Festival di Venezia appunto per sentire l'ambiente nella sala e anche misurare le lunghezze. Abbiamo lavorato soprattutto per ridurre la scena in discoteca, che sapevamo già essere troppo lunga. 





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