FAR EAST FILM FESTIVAL XXVI - Anche quest’anno decidiamo di riflettere sul più importante festival europeo dedicato al cinema popolare asiatico e sulle molteplici facce del cinema dell’Asia orientale e sud-orientale che porta, come ogni anno, a Udine fra concorso e retrospettive
Nonostante l'edizione 2023 del Far East Film Festival, la venticinquesima, avesse in sé, nella sua presentazione e nelle tipologie di film presentati, una sorta di idea di finalità, l'impressione di conclusione di un ciclo, come ci si può anche attendere da un numero tondo, per chi scrive l'edizione di quest'anno ha assunto ancora di più l'aspetto di chiusura di un ciclo e, se proprio si vuole, di momento di passaggio verso un avvenire dai tratti ancora indefiniti. Questo in primo luogo perché al Teatro Nuovo "Giovanni da Udine", ormai tradizionale sede d'elezione del FEFF, sono stati finalmente premiati in quest'edizione due dei più importanti protagonisti del cinema sinofono di tutti i tempi, il regista Zhang Yimou e l'influentissimo, seppur molto meno noto, produttore Chiu Fu-sheng, tra l'altro presentando i restauri di due pietre miliari su cui hanno lavorato entrambi come "Lanterne rosse" e "Vivere!", concludendo così l'ultra-trentennale ciclo di celebrazione del cineasta cinese e dei suoi capolavori che hanno contribuito come pochi all'affermazione di quella cinematografia. Ma la ventiseiesima edizione del Far East Film Festival è stata anche un'edizione poco innovativa nelle sue proposte, nonostante il buon numero di opere prime in concorso, focalizzandosi molto sulle sempre gradite retrospettive e, in concorso, su registi dalla fama consolidata o veri e propri habitué del festival.
L'interno del Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" durante il FEFF XXVI
Che questa conservatività non sia necessariamente un male lo dicono anche i numeri, con cui anche quest'anno si decide di proseguire l'analisi consuntiva dell'edizione da poco conclusa del Far East Film Festival. Con le cifre di 65 mila spettatori e di 1700 accreditati la partecipazione ha raggiunto un record storico, giustamente celebrato dagli organizzatori nel loro editoriale, legittimando il successo di un festival che merita di essere considerato eminentemente popolare, ancora più che per la tipologia di pellicole proposte, per il sistema di selezione dei vincitori, basato in primis sui voti del pubblico. Prima di iniziare, quindi, a discutere delle pellicole più apprezzate di questa edizione del FEFF meritano una menzione anche i 228 ospiti provenienti dalle industrie cinematografiche dell'Asia orientale e del Sud-est asiatico, a dimostrazione di quanto il palco del "Giovanni da Udine" abbia ritrovato definitivamente la capacità di attrarre ospiti di rilievo che aveva prima delle pandemia da coronavirus.
"Takano Tofu"
Anni fa si sarebbe potuto definire innovativo un palmares quasi completamente privo di pellicole esplicitamente di genere come quello di quest'anno ma i conoscitori del festival sanno che ormai la scelta dei vincitori fra gradevoli dramedy folkloriche e drammi strappalacrime è a sua volta un segno di conservazione all'interno del concorso del Far East Film Festival. A queste due categorie appartengono difatti tutti e tre i vincitori dell'Audience Award del FEFF, come il terzo arrivato "Time Still Turns the Pages", esordio drammatico dell'hongkonghese Nick Cheuk, e il Gelso d'argento "Confetti" di Fujita Naoya, garbato coming of age nel mondo del teatro popolare giapponese. Condivide la nazionalità nipponica, così come il soggetto folklorico di indubbio fascino, il Gelso d'oro "Takano Tofu", delicata dramedy con inserti quasi documentaristici dedicata a un piccolo produttore di tofu e alle sue beghe famigliari diretta da Mihara Mitsuhiro.
"Confetti"
Al vincitore dell'Audience Award è andato anche il Gelso viola, il premio conferito dagli spettatori della rassegna online di film del FEFF resa possibile dalla partnership con MyMovies, certificando un gradimento dell'utenza quasi ecumenico. Unica eccezione a tale successo è stata la vittoria del Black Dragon Award, conferito dal pubblico di professionisti dell'industria ed esperti di cinema asiatico della categoria d'accreditati Black Dragon per l'intelligente e raffinato jidaigeki "Bushido" di Shiraishi Kazuya, venuto di persona a presentare in anteprima mondiale a Udine il suo nuovo film. Le due giurie, quelle che votano il Gelso bianco al miglior esordio e il premio alla miglior sceneggiatura hanno invece premiato la Corea del Sud, decretando la vittoria rispettivamente del dramma urbano "Mimang" di Kim Tae-yang e di "Citizen of a Kind" di Park Young-ju, ibrido fra commedia, poliziesco e grottesco come ormai tipico del cinema pop coreano.
"Mimang"
Ed è proprio dalla Corea del Sud, che quest'anno si è distinta per la più ampia selezione in concorso (ben 11 pellicole), oltre che per l'elevato numero di restauri, che si intende iniziare la rassegna sulle varie industrie cinematografiche nazionali che si sono sfidate per conquistare il pubblico del ventiseiesimo Far East Film Festival. Nonostante la quantità di pellicola in concorso, e nonostante due vittorie che paiono non a caso fra le meno convincenti della storia del FEFF, anche quest'anno si segnala la qualità altalenante dei partecipanti sudcoreani, spesso appiattiti sui cliché del dramma sulle relazioni umane da festival ("Mimang") e dell'ibrido di generi e registri grottesco e al contempo melodrammatico, spesso con soggetti tratti da storie vere e (anche) per questo sfacciatamente retorici ("Citizen of a Kind", "Ransomed" di Kim Seong-hun). Non mancano pellicole più smaccatamente di genere, come il solido action con Don Lee "The Roundup: Punishment" di Heo Myeong-haeng, lo slasher "The Guest" di Yeon Je-gwang e il dittico che ibrida wu xia pian e fantascienza senza timore del ridicolo "Alienoid" e "Alienoid: Return to the Past" di Choi Dong-hoon. Hanno preso parte al concorso anche i due più grandi successi in Corea del Sud degli ultimi mesi, nonché forse le pellicole più solide della selezione, ovvero il tensivo dramma storico "12.12: The Day" di Kim Sung-soo e lo stratificato thriller sovrannaturale "Exhuma" dello specialista del genere Jang Jae-hyun.
"Citizen of a Kind"
Ha portato a Udine una selezione quasi altrettanto larga, e ancora più fortunata, il Giappone, dal quale sono venute soprattutto pellicole drammatiche o comunque non tradizionalmente di genere, come si può evincere dai due vincitori dell'Audience Award "Takano Tofu" e "Confetti". Il terzo film nipponico a essere stato premiato, "Bushido", opta invece per uno dei generi più classici della cinematografia giapponese, ovvero il chambara eiga, il film di samurai, pur adottando una prospettiva decostruttiva nel suo racconto dai toni crepuscolari delle vicende del ronin Yanagida. Dall'irresoluto dramma su sessualità e identità "(Ab)normal Desire" di Kishi Yoshiyuki al frammentario e semi-autobiografico film a episodi "Voice" della regista Mishima Yukiko sono le prospettive peculiari a caratterizzare la selezione giapponese al FEFF di quest'anno, culminando nel film di fantascienza post-apocalittica muto e in bianco e nero (!) "Motion Picture: Choke" del mai banale Nagao Gen. Diversissima per registro e stile ma quasi egualmente spiazzante è la bella investigazione sulla molteplicità e irresolubilità dell'identità "Ichiko" di Toda Akihiro. Pellicole più canoniche nel contesto della produzione cinematografica giapponese che affolla quasi ogni edizione del Far East Film Festival sono lo spietato noir (nonostante i protagonisti preadolescenti) "Gold Boy" di Kaneko Shusuke e il pacchiano fantasy live action "The Yin Yang Master 0" di Sato Shimako.
"Bushido"
Anche quest'anno è Hong Kong la terza classificata per numero di pellicole in concorso (al netto di una pressocché totale assenza dalle retrospettive), e anche quest'anno è un esordio a garantire la vittoria di un premio all'ex-colonia britannica, ovvero l'intenso eppure algido dramma scolastico a tema suicidio "Time Still Turns the Pages". Per il resto la selezione hongkonghese non ha avuto molte altre occasioni per distinguersi, passando da compiti drammi sull'immigrazione cinese a Hong Kong di fine secolo come "Fly Me to the Moon" di Sasha Chuk a fastosi quanto irresoluti thriller finanziari come "The Goldfinger", che la regia dello sceneggiatore di "Infernal Affairs" Felix Chong e il duetto (di nuovo) fra Andy Lau e Tony Leung non riescono sorprendentemente a far brillare. Non va molto meglio col comunque più interessante (e ancora più sbalestrato) horror psicologico "Peg O' My Heart" dell'iconico attore hongkonghese Nick Cheung e il crepuscolare dramma sul giornalismo d'inchiesta nella Hong Kong che fu "In Broad Daylight" di Lawrence Kan, ennesima opera dell'ex-città stato che ci racconta la crisi e la fine di Hong Kong. Menzione finale alla pellicola di chiusura di questa edizione del FEFF, il mediocre e letteralmente incompiuto (la post-produzione è ancora da rivedere) action poliziesco "Customs Frontline" dello specialista Herman Yau, il quale propone ben due altre pellicole (migliori) in concorso per la madrepatria cinese.
"Time Still Turns the Pages"
Queste ultime sono l'adrenalinico poliziesco d'azione a tutto tondo sulla cooperazione sino-russa "Moscow Mission" e l'action con elementi da disaster movie "Raid on the Lethal Zone", ennesima dimostrazione dei grandi mezzi del cinema della Cina continentale (a differenza di quelli sempre più modesti di Hong Kong). Meno scenografico ma sicuramente più raffinato è il nuovo film di Zhang Yimou, il controverso thriller politico "Under the Light", significativa pellicola del ritorno alla contemporaneità per il maestro del period drama sinofono. Ancora più atteso è stato il grandissimo successo "YOLO: You Live Only Once", della comica, attrice e regista Jia Ling, il cui tour de force interpretativo al centro della pellicola ne è probabilmente l'elemento più interessante, considerando i limiti di scrittura dell'intero progetto. Vale il discorso esattamente inverso per la spassosa commedia metacinematografica "The Movie Emperor" di Ning Hao con un incredibile Andy Lau che interpreta sé stesso, in quello che si rivela probabilmente il film migliore della selezione cinese (ma un flop al botteghino nazionale).
"The Movie Emperor"
Se l'anno scorso era stata l'"altra Cina", Taiwan, a portare un maggior numero di pellicole al Far East Film Festival rispetto alla Repubblica popolare quest'anno le proporzioni si sono invertite, con una selezione taiwanese che dopo l'eccezione dell'edizione 2023 torna alle usuali dimensioni ridotte. All'interno della compagine formosiana si distinguono in particolar modo due collaborazioni col Giappone, l'imperfetto ma affascinante coming of age sentimentale "18x2 Beyond Youthful Days", scritto e diretto dal nipponico Fujii Michihito, e l'elegante ma non del tutto risolto dramma nella Taiwan del boom economico "Old Fox" di Hsiao Ya-chuan, a cui si aggiungono il corale film a episodi "Tales of Taipei" e un altro coming of age, l'esordio di Chin Chia-hua "Trouble Girl".
"Trouble Girl"
Dopo l'exploit dell'edizione passata, in cui per la prima volta aveva vinto al Far East Film Festival una pellicola non proveniente da una delle quattro grandi cinematografie dell'Asia orientale, ovvero la malese "Abang Adik" dell'esordiente Jin Ong, quest'anno la fortuna non ha di nuovo arriso alle meno ricche selezioni provenienti dal Sud-est asiatico. La Malaysia ha presentato solo una pellicola, il film di fantascienza sentimentale sul viaggio nel tempo "Reversi" di Adrian Teh, mentre dall'Indonesia sono venute soprattutto solide pellicole di genere senza molti guizzi o invenzioni, come l'horror ambientalista "The Train of Death" del veterano Rizal Mantovani e il thriller d'azione "13 Bombs" di Angga Dwimas Sasongko.
"When This Is All Over"
Salendo più a nord arriviamo alle Filippine, alla cui selezione hanno preso parte principalmente commedie e coming of age, coerentemente con la produzione filippina vista al FEFF negli ultimi anni. Nello specifico si parla della commedia queer degli equivoci, di culto nell'arcipelago asiatico, "Becky and Badette" del maestro del filone Juan Robles Lana, dell'imbelle coming of age sportivo, sempre con una sfumatura queer, "Rookie" di Samantha Lee e del dramma da camera (anzi, da albergo) ai tempi dei lockdown "When This Is All Over", apprezzabile esordio fra crisi d'appartenenza sociale e psichedelia di Kevin Mayuga. Si conclude la rassegna del concorso con la Thailandia, da cui anche quest'anno è arrivata solo una pellicola, ovvero lo stereotipatissimo, ma a suo modo divertente, horror di successo "Death Whisperer" di Taweewat Wantha.
"Lanterne rosse"
A differenza dell'anno scorso, in cui il numero di pellicole in concorso e di quelle nelle retrospettive e rassegne parallele quasi si equivalevano (rispettivamente 42 e 36), nella ventiseiesima edizione del Far East Film Festival gli organizzatori hanno chiaramente prediletto il concorso, con la cifra quasi record di 50 film, a discapito delle rassegne, non solo meno numerose (29 le pellicole coinvolte) ma pure più (troppo) variegate per dare un'idea di continuità fra le pellicole e, con alcune eccezioni, anche meno omogenee come qualità. Sommariamente si può dividere questa comunque vasta compagine di classici e vecchi cult (ri)presentati a Udine fra l'atto secondo, dopo ciò che si è visto l'anno passato, della rassegna sul "cinema da FEFF prima del FEFF", miscellanea di pellicole di culto degli anni 80 e 90, e la presentazione dei restauri dei classici di due dei più importanti registi sinofoni di sempre, Zhang Yimou e il taiwanese Lee Hsing, e di alcune delle principali pellicole sudcoreane degli anni 50, per andare alle origini di una cinematografia ora così rilevante. Conclude il tutto la solita ridotta compagine di documentari, solo tre, dei quali si segnala in particolar modo l'affascinante "The Contestant" di Clair Titley, sul più controverso reality giapponese di tutti i tempi.
"Typhoon Club"
Fra le "Greatest Hits" dagli anni 80 e 90 si distinguono le mini-rassegne (solo due pellicole, come ormai frequente al FEFF) su tre nomi di culto in fase (o in attesa) di riscoperta presso il pubblico internazionale, ovvero il sudcoreano Lee Myung-se, autore tanto dello schizofrenico e ipermodernista poliziesco "Nowhere to Hide" quanto dell'iconico e peculiare dramma sentimentale "Their Last Love Affair", e i due giapponesi Somai Shinji e Suo Masayuki. Del primo, fra i nomi di punta del cinema nipponico prima della "new new wave" degli anni 90, possiamo ammirare la sarabanda di registri e punti di vista dello sfaccettato coming of age "Typhoon Club" così come l'originale divorce story dal punto di vista della prole (e che punto di vista) "Moving", mentre di Suo, uno dei nomi principali della commedia nipponica di quegli anni, sono stati proposti l'originale "Shall We Dance?" del 1996 e l'interessante "Sumo Do, Sumo Don't", di poco precedente.
"Dislocation"
Il resto della retrospettiva passa da pellicole sorprendenti come "Dislocation" di Huang Jianxin, satira fantascientifica sulla burocrazia del partito comunista cinese che si rivela come probabilmente uno dei film cinesi degli anni 80 più meritevoli di riscoperta, a opere in fin dei conti più interessanti per i loro trascorsi produttivi, come il dramma tripartito "Three Seasons" di Tony Bui, prima coproduzione internazionale girata in Vietnam dopo la fine dell'embargo statunitense. Meritano una menzione anche la wellesiana riflessione sui miti nazionali e la loro malleabilità "Third World Hero" del filippino Mike de Leon, l'iconico dramma con un pizzico di sexploitation "White Slavery" del padrino del cinema filippino Lino Brocka e l'intenso e violento "The Woman of Wrath" del taiwanese Tseng Chuang-hsiang.
"My Native Land"
Se del dittico di pellicole di Zhang Yimou riproposte in versione restaurata a questa edizione del Far East Film Festival si è già parlato, si può spendere qualche parola in più sui due film di Lee Hsing che, dopo "Execution in Autumn" nel 2021, sono arrivati al FEFF quest'anno, ben rappresentanti la dualità del cinema dell'autore taiwanese. Se "Beautiful Duckling" è in fin dei conti un, godibile, film di propaganda bucolica dei tempi del "sano realismo", "My Native Land", successivo di 15 anni, incarna invece molto bene il rapporto complesso di Lee, e di molti taiwanesi della sua generazione, con la madrepatria continentale, proponendo un artist drama struggente e che non accetta alcuna semplificazione. Si conclude questa disamina sulle pellicole presentate alla ventiseiesima edizione del Far East Film Festival con la già citata retrospettiva di pellicole sudcoreane degli anni 50, fra cui si segnalano l'iperrealistico e scioccante per i tempi "The Flower in Hell" di Shin Sang-ok e "Madame Freedom" di Han Hyeong-mo, elegante dramma sentimentale che fu fra i più grandi successi dell'allora nascente industria cinematografica sudcoreana.
"Madame Freedom"
In questa edizione del Far East Film Festival, conclusasi con un interessante rovesciamento di quanto visto l'anno scorso, ovvero un capolavoro del cinema cinese che fu ("Vivere!") e un fragoroso filmaccione moderno proveniente stavolta da Hong Kong ("Customs Frontline"), è mancato probabilmente un tema comune più definito delle "molteplici storie da raccontare" che aiutasse a "intessere connessione perdute" (per citare quello di due anni fa) fra le molte, e sempre più variegate, pellicole presenti sia in concorso sia nelle retrospettive. Dopo aver imparato a continuare a "muoversi in avanti" (nell'edizione 2021) e a "piantare radici per il futuro" (nella venticinquesima edizione) non resta forse che l'immobilità di un attimo di concentrazione, per riflettere su quanto fatto finora e decidere come andare avanti. A questo punto non appare più approssimativa l'immagine scelta per rappresentare questa edizione del FEFF, una figura di spalle che contempla, forse smarrita, le tentacolari vie di un abitato dai tratti tipicamente asiatici, sia esso Hong Kong o una cittadina thailandese (ma ci si potrebbe immaginare di perdersi anche in mezzo al Giappone rurale, come è avvenuto nel suggestivo video-concerto "Gift" di Ishibashi Eiko, precursore del progetto "Il male non esiste" di Hamaguchi Ryūsuke).
"Vivere!"
Forse la ventiseiesima incarnazione della kermesse udinese ha voluto proporre un simile tipo di immersione ai suoi sempre più numerosi partecipanti, un'immersione completa in un variegato e a tratti labirintico panorama di produzioni cinematografiche impossibili da ridurre a un minimo comune denominatore, poiché provenienti da nazioni, culture e industrie sempre più differenti. Unico elemento in comune, la natura collettiva della visione cinematografia, d'altronde celebrata anche da Zhang Yimou, mentre notava che raramente si ha ormai l'occasione di far vedere a ben 1200 persone il medesimo film in un unico spazio (e questo nonostante il permanere di una sezione online, che appare ormai, pur ridotta, destinata a restare). Detto ciò si può considerare particolarmente rilevante la scelta di concludere (quasi) la kermesse con "Vivere!" di Zhang, storia di un piccolo nucleo famigliare che si trova ad assistere ad avvenimenti molto più grandi di sé non rinunciando però mai alla propria unità, né a sperare che "la vita sarà sempre migliore". Fra i molti rivoli di questa eterogenea edizione del Far East Film Festival, di questa multiforme città di pellicola (sic!) costituitasi temporaneamente a Udine, si potrà sicuramente trovare una via che porterà a futuri migliori, a pellicole migliori, e anche a edizioni del FEFF migliori.
Non resta che aspettare.
P.s. anche quest'anno intendo ringraziare i miei compagni di copertura del Far East Film Festival, Alessio Cossu, costante supporto nel seguire il festival nella sua edizione online, e Giuseppe Gangi, con cui ho avuto il piacere di discutere dal vivo dei film visti a Udine, fonte di molteplici spunti di riflessione. Allo stesso modo ringrazio anche mia sorella, con cui ho condiviso l'immersione nel mondo cinematografico asiatico, e molte discussioni, in questa edizione.