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Last But Not Least: speciale film-testamento

Un viaggio che rivela tante sorprese: gli ultimi film dei grandi maestri della Settima arte e il piacere di sorprendere lo spettatore, per l'ennesima volta. Spesso considerati episodi minori delle filmografie, sono invece pellicole meritevoli di essere riscoperte

"Nella carriera dei grandi registi gli ultimi quattro film sono di solito in rovinosa discesa".

Chi parla è Quentin Tarantino che, in una recente intervista, ha cercato di delineare il proprio futuro nel cinema annunciando che non andrà più avanti dei sessant'anni proprio perché, secondo lui, tutti i più grandi registi hanno sempre chiuso con opere non degne del proprio nome. Sembra quasi dirci che l'ispirazione di un artista sia limitata ad un decennio o poco più, poi è inevitabile il ripetersi e non trovar altro di nuovo da dire. Francis Ford Coppola enunciò quasi lo stesso concetto negli anni 90, quando George Lucas mise mano ai nuovi episodi di Guerre Stellari. In quell'occasione rimproverò il regista di Modesto, sostenendo che non si può andare avanti tutta la vita a rincorrere le proprie ossessioni, bisogna a un certo momento fermarsi.

A ben guardare però non esiste regista nella storia del cinema che abbia fatto tesoro di questi precetti. Nessuno mai si è fermato a contemplare la propria filmografia, considerandola come un'opera conclusa. La febbrile voglia di raccontare una nuova storia ha tenuto dietro la cinepresa fino a tarda età i più grandi registi. Ma è proprio vero, allora, che gli ultimi film sono sempre opere minori? La memoria collettiva sembra ricordare e incensare di più i film che si collocano nella parte centrale della vita professionale, di solito quando il regista ha superato i quarant'anni e non ha toccato ancora i sessanta. In apparenza ricordiamo tutti di George Cukor "La costola di Adamo" oppure "Donne", ma meno "Ricche e Famose", ultimo film del 1981. Quest'ultimo è ben lungi dall'essere un fanalino di coda: è una magnifica summa dell'elegante e raffinata messa in scena di Cukor. Ancora due donne come protagoniste (Jacqueline Bisset e Candice Bergen), i rapporti tra le due fatti da rivalità artistica e sentimentale, dramma e commedia a braccetto: un regista ottantenne molto lontano da una rovinosa discesa.
Diffidate quindi da frettolose semplificazioni: i film testamento sono tutti da riscoprire.


Una sonora risata e una fragorosa esplosione


Il nostro viaggio intorno ai film testamento dei grandi non può che cominciare con il più grande, sir Alfred Hitchcock. E' il 1976 e, a settantasette anni, sorprende tutti uscendo con "Complotto di famiglia". Dopo aver ritrovato un grande consenso di critica con il fortunato "Frenzy", il Maestro del brivido rimane in Gran Bretagna e gira una commedia gialla ma dai toni giocosi, percorsa dai temi più tipici del suo cinema. Come scrive Truffaut nel suo libro intervista, il regista britannico era attratto dalle geometrie della trama soprattutto dal tema del doppio, costante storica dei successi del passato. In questo caso, il film sembra prendersi beffa del doppio, moltiplicando in continuazione i punti di vista: abbiamo una ragazza mora che si trucca da bionda, un attore che si finge tassista, una veggente che in realtà è una casalinga. È un rutilante cambio di prospettiva, come a ricordare allo spettatore che non esiste un'unica versione dei fatti. Di sicuro i personaggi non sono all'altezza dei capolavori del passato: non hanno l'ambiguità e le ossessioni che possedevano James Stewart o Cary Grant però l'umorismo, spesso macabro, non manca. È meraviglioso assistere alla corsa in macchina del tassista che rimanda, con toni parodistici, alla celeberrima di "Intrigo internazionale". L'ultima comparsata è quella di un Alfred Hitchcock dietro a una porta a vetri: si vede solo la tipica sagoma e sopra una scritta "Death and Birth Certificate", quasi premonitrice. Come congedo dalla vita e dal cinema, il sommo Maestro lo volle fare con una sonora risata, prendendosi beffa del suo stesso cinema.
Il film testamento di Luis Bunuel, "Quell'oscuro oggetto del desiderio", finisce con un'esplosione improvvisa che manda all'aria il centro commerciale dove i due protagonisti stavano passeggiando. Non assistiamo a una rivisitazione divertente e divertita della propria cinematografia, qui Bunuel rimane coerente alla propria poetica chiudendo però in modo sorprendente, come a voler destabilizzare tutto e non salvare più niente.
Per tutto il film abbiamo seguito un ricco signore (Fernando Rey) innamorato perso della giovane Conchita e i suoi maldestri e inconcludenti tentativi di sedurla senza mai ottenere alcuna soddisfazione. Ancora il mondo della borghesia nello spietato mirino di Bunuel, come in tante opere della sua cinematografia. A settantasette anni il regista spagnolo lascia a bocca aperta per la quantità di invenzioni: una storia a scatole cinesi, raccontata in treno e ripresa in continuazione dai passeggeri che conoscevano già prima il protagonista per casi della vita.
Non sono da trascurare i particolari surreali e onirici che vengono a galla, per citarne uno il sacco marrone che Rey si porta dietro senza mai aprirlo e farci vedere dentro: sarà quella la bomba del finale? E la stessa Conchita che si sdoppia in due attrici (Angela Molina e Carole Bouquet).


Quanta libertà e freschezza per un regista quasi ottuagenario

È il 2006 quando Mario Monicelli, a novant'anni, conclude "Le rose del deserto". Non è più la Grande Guerra, non ci sono Alberto Sordi e Vittorio Gassman però c'è la Campagna del Nord Africa e un manipolo di soldati, impersonati da una nuova generazione di attori come Giorgio Pasotti, Michele Placido (qui nel ruolo di un frate, molto spassoso), Fulvio Falzarano. Il tocco lieve e ironico sembra immutato. La descrizione dei componenti della Divisione Minotauro del fronte africano è ricca di personaggi che rappresentano il nostro Paese, non solo per l'accento dialettale o una mimica ma soprattutto per i caratteri. Il film fu accolto da calorose recensioni sui giornali e da un buon successo commerciale: fu il magistrale congedo del cantore dei vizi e virtù degli italiani.


Anni inquieti e lunatici

Gli anni 80, nel nostro Paese, sono stati caratterizzati anche dalla ricerca dell'effimero, dal carrierismo a tutti i costi degli yuppie e, non da ultimo, dal decadimento del gusto apportato dall'avvento della tv commerciale. Al crepuscolo di quegli anni e all'alba del fragore di Tangentopoli, gli italiani sembrano essersi abituati in tv all'onnipresenza della pubblicità che interrompe un film e agli ammiccamenti di ragazze sempre più discinte. Il leitmotiv in televisione sembra essere unicamente il rumore e il kitsch. In questa cornice, nel 1989, esce un film che non mette in scena il rumore della tv e neppure il pragmatismo nichilista di quegli anni, piuttosto un gruppo di "lunatici" che si ritrovano in una piazza per la festa della Gnoccata. Da qui seguiremo le vicende di Ivo Salvini, dimesso da un manicomio, il quale vagherà per la Bassa Padana alla ricerca delle voci. In particolare della voce della luna. Da qui il titolo dell'ultimo film del sommo maestro riminese Federico Fellini. A sessantanove anni, filma una carrellata di personaggi poetici e di animo semplice, lontani anni luce dalla corruzione di quei tempi e Roberto Benigni e Paolo Villaggio ne furono due incredibili icone. La Luna chiederà di fare silenzio e ascoltare la propria voce. È la ricerca di un senso nell'insensatezza del mondo moderno e il grido di allarme verso l'incedere della volgarità. Un messaggio modernissimo ancora oggi. Come la "Dolce vita" e "Amarcord", un classico immortale. E' il dicembre del 1984 e, a due mesi dalla morte di Francois Truffaut, i Cahiers du cinema uscirono con uno speciale dedicato a tutta l'opera. In quell'occasione citarono Hitchcock, "per voi non è altro che un film, per me è la vita". Truffaut se ne era andato troppo giovane, lasciando come ultima opera un film di genere, tipicamente hitchcockiano, "Finalmente domenica". Una torbida passione condita da omicidio. Qui però la trama del giallo serve fino ad un certo punto, perché si capisce fin da subito che le tematiche che importano al regista sono quelle sull'amore e sulla nascita dei sentimenti. Un indizio di questa scelta ci viene dato dall'uso del flashback, squisitamente fuori posto rispetto all'uso consueto in un giallo: non più come strumento per spiegare qualcosa allo spettatore, ma un modo per tornare a raccontare di nuovo vicende già note. La creatività del maestro della Nouvelle Vague era immutata, come d'altronde l'aderenza alle tematiche di sempre e all'affetto smisurato verso i suoi personaggi.
Se per Fellini gli anni 80 rappresentano un mondo lontano dalla poesia e dal buon gusto, per Sam Peckinpah non sono altro che anni percorsi da inquietudine e violenza: l'uomo rimane sempre un animale che agisce pilotato dai suoi istinti. Il cantore di un cinema brutale dove l'autodistruzione dei protagonisti diventa epica, nel 1984, lontano da droghe ed eccessi, muore come uno dei suoi personaggi. L'anno prima cercò di finire "Osterman Weekend", cosa alquanto difficile e in parte riuscita a causa di una tribolatissima lavorazione, ritardi e tagli imposti dai produttori. Lontano dal de profundis del vecchio west ne "Il mucchio selvaggio", Peckinpah riesce ancora a colpire duro con atmosfere claustrofobiche in cui i personaggi assomigliano a topi in trappola.
Un professore ormai al tramonto della vita invita a ogni compleanno i suoi ex studenti. Alla domanda se sia pronto a passare nell'aldilà, lui risponde candido "non ancora". Il non ancora è "Madadayo", ovvero il titolo dell'ultima opera di Akira Kurosawa, il grande samurai del cinema nipponico. Il poeta dei grandi adattamenti shakespeariani con re e principesse giapponesi decide di raccontare come ultima storia una vicenda privata, intima e minimalista. Non più quindi le grandi scene di massa, non più costumi colorati e acconciature elaborate, ma una storia semplice che potrebbe capitare ad ognuno di noi, salvo concludere con un finale fantastico. Il grande Maestro più che ottantenne gira con innegabile freschezza una bellissima riflessione sul significato delle nostre azioni e quello che possono valere per gli altri, intessendolo come sempre di gesti e riti gentili della cultura giapponese.


Il sapore di un tempo

Nell'intervista citata all'inizio, Quentin Tarantino indica proprio "Buddy Buddy", l'ultimo Billy Wilder del 1981, come esempio del decadimento di un grande autore. In verità non sono altro che punti di vista, perché partendo dal presupposto che questo film non avvicina ovviamente capolavori come "L'appartamento", è però impagabile assistere ancora ai duetti della "strana coppia" Jack Lemmon e Walter Matthau. Il primo nei panni di un uomo che si vuole suicidare e che riesce, suo malgrado, a scombinare i programmi del killer Matthau. Il meccanismo comico coinvolge e funziona.
Se Wilder chiude citando vecchi cavalli di battaglia, Douglas Sirk realizza nel 1959 un vero e proprio capolavoro, "Lo specchio della vita". Ripreso poi da Fassbinder, l'anziano maestro di Amburgo chiude il suo capitolo ad Hollywood con un nuovo melodramma in cui Lana Turner mette da parte le proprie ambizioni di artista per la figlia. Dramma percorso dal tema dello scontro generazionale e da quello del razzismo. Questa volta le tensioni sociali non sono più sottintese da ellissi o da simboli come in "Come le foglie al vento", ma scoppiano in scene di violenza sempre però riprese con la consueta eleganza e bella calligrafia.
In una piccola radio del Minnesota va in scena l'ultimo spettacolo, prima che avidi produttori demoliscano i vecchi studi per far posto ad un centro commerciale. È l'ultimo giro di giostra di cantanti e artisti che si ritrovano ancora insieme a condividere la trasmissione. La morte però colpirà uno di loro, obbligando ogni componente ad un bilancio della propria vita. Con una storia sinistramente premonitrice Robert Altman gira nel 2006 "Radio America", ultimo film corale della sua smisurata carriera. Questa volta c'è estremo amore nel tratteggiare i vizi e le virtù di questo affresco umano: non ci sono politici corrotti né attori malvagi e l'occhio di Altman è decisamente più accondiscendente. La denuncia cede il posto alla nostalgia per un'America ormai del passato, una visione crepuscolare dove anche l'ottantenne regista statunitense si sentiva fuori posto.
Orson Welles è di sicuro la massima summa di questo ragionamento sui film testamento.
Libero da costrizioni produttive e non dovendo più dimostrare a tutti i costi il proprio talento, chiude la propria carriera con un film che è pura avanguardia. Nel 1975, dopo tre anni di lavorazione, finisce di girare "F come falso". Un mockumentary sul mondo dell'arte interpretato da lui stesso. Qui narra allo spettatore diverse storie riguardanti quadri veri e falsi con particolare attenzione alla vicenda del falsario ungherese Elmyr de Hory. La storia non è altro che lo spunto per una riflessione molto acuta sui rapporti tra arte e vita, citando anche le proprie opere e paragonandosi a un abilissimo falsario che vede nel cinema "un gioco di furbi castelli e specchi". Tutto questo viene raccontato attraverso la forma del documentario, con un montaggio molto veloce fatto spesso da foto fisse, immagini di repertorio e disegni animati.
Dopo aver esordito con un'opera che spalancò le porte al cinema moderno, a dieci anni dalla morte chiuse con un'opera d'arte contemporanea.

Il tratto comune di questi film è la freschezza e la libertà di raccontare ancora storie, rimanendo nel contempo coerenti alle proprie ossessioni e tematiche. Saranno pure opere "minori" però vale la pena andarle a riscoprire. Potrebbe essere un bel compito per questa torrida estate.




Last But Not Least: speciale film-testamento