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recensione di Rudi Capra

I misteri del giardino di Compton House

È il 1980 quando Peter Greenaway, dopo vari anni spesi come pittore, montatore, critico d’arte e regista dilettante di cortometraggi sperimentali, esordisce con "Le cadute", eccentrico mockumentary composto da 92 interviste ai sopravvissuti di un misterioso incidente che ha decimato l’umanità. Già vi si trovano, in forma embrionale, le fascinazioni e le manie che ne segneranno la poetica: l’ossessione per il volo, l’acqua, la morte, gli elenchi, i cataloghi; lo humour nero e la diffidenza verso il pensiero dogmatico; l’ispirazione all’arte europea e alla pittura barocca; il disprezzo per il cinema inteso come mera pratica di narrazione.

Tuttavia, è nel 1982 che il talento di Greenaway si impone al grande pubblico e all’attenzione della critica con "I misteri del giardino di Compton House", murder mystery secentesco ambientato in un bucolico e idealizzato Wiltshire. Sfruttando gli stilemi tipici del racconto giallo, il regista gallese confeziona un barocco pastiche audiovisivo che si pone nel contempo come indagine sul concetto di proprietà, come espressione cinematografica di una Weltanschauung prospettivista e come originale manifesto per un’idea di cinema innovativa, ispirata ai canoni dell’estetica postmoderna e post-strutturalista.

Immagine e conoscenza

"I feel happier talking about cinema through the experience of five thousand years of Western painting, than I do considering it through some 100 years of cinema critique."

1694, Inghilterra. Un talentuoso e arrogante pittore, Mr. Neville (Anthony Higgins), viene faticosamente persuaso da Mrs. Herbert (Janet Suzman) a comporre 12 vedute della tenuta di Compton House, la dimora familiare. I disegni sono pensati come un dono per l’ignaro coniuge, Mr. Herbert (Dave Hill), assente per due settimane. Mr. Neville e Mrs. Herbert stipulano, quindi, un contratto secondo il quale la donna si impegna a offrire all’artista vitto e alloggio, a pagare ciascuna tavola otto sterline e "a incontrare in privato Mr. Neville al fine di soddisfare le richieste riguardo al suo piacere". Mentre punta sui giardini rigogliosi la griglia da disegno, Mr. Neville seziona gli spazi di Compton House e le ore della giornata con il metodico rigore di un chirurgo. Tuttavia, lussuria, cupidigia e sopiti istinti di violenza affiorano con inquietante e crescente regolarità dietro la rassicurante familiarità delle forme visibili.

La macchina da presa asseconda Mr. Neville, duplicando in seconda battuta la prospettiva "pittorica"del disegnatore in inquadrature piane e statiche, scosse all’occasione da flemmatiche carrellate orizzontali. Del medium pittorico, il film recupera anche la sincronicità: privilegiando il nitore di campi e panoramiche, Greenaway restituisce all’immagine il distacco minuzioso dei paesaggi inglesi secenteschi, nei quali si annota con eguale, compassata indifferenza lo stormire degli olmi e un efferato omicidio. Greenaway parla, a questo proposito, di landscape-movie: l’orizzonte profilmico alterna, infatti, il bianco e il nero dei costumi al verde della campagna inglese, la cui rilevanza, espressiva e allegorica, è tanto marcata che funge non da mero sfondo, ma da autentico personaggio, muto e onnipresente. A questo riguardo, la rievocazione fotografica dei paesaggi di Lorrain e Poussin, delle atmosfere di Caravaggio e La Tour, non è l’ultroneo capriccio di un erudito, né una semplice indicazione di gusto, bensì il veicolo di un brechtiano effetto di straniamento (Verfremdungseffekt). Il palese artificio contribuisce difatti, insieme ad altri elementi (i costumi stravaganti, i dialoghi magniloquenti e sfacciati, la scabrosa ironia), ad acuire la frattura tra rappresentazione e focalizzazione, invitando lo spettatore a riflettere sul rapporto tra immagine e conoscenza in seno alla settima arte. Una riflessione possibile a condizione che lo spettatore stabilisca con il regista una comunione d’intenti e d’interessi, tanto che, su suggerimento del regista stesso, "The Draughtsman’s Contract" avrebbe altresì potuto chiamarsi "The Filmmaker’s Contract". 

La proprietà invisibile

"The artist is not employed after all to draw but to sire. His prowess as a stud is more understood and valued that his prowess as draughtsman."

Così come una maestosa cattedrale sfrutta per la propria sussistenza non solo panciute colonne e voluttuosi capitelli, ma anche gli impalpabili vuoti di arcate ed esedre, allo stesso modo la lussureggiante bellezza dei giardini di Compton House prospera grazie alle invisibili pulsioni umane che alimentano (o avvelenano?) la sua ristretta comunità. Sotto parrucche e belletti, pizzi e trine, è la triviale assenza di un oggetto del desiderio che nutre e sostiene le azioni e le ambizioni degli attanti. La pressione invisibile e ubiqua del possesso si rivela fin dalle prime scene, quando la cinica e astuta Mrs. Talmann enumera in ordine decrescente gli affetti del padre (la casa, il giardino, il cavallo e, infine, la moglie) per poi auto-classificarsi come "parte della proprietà". La proprietà, per definizione, si costituisce e si estingue tramite un rapporto contrattuale fra due o più soggetti giuridici. Nel film è sempre un contratto a regolare i rapporti interpersonali fra i personaggi, è attraverso la stipula di un contratto che si sviluppa la narrazione, e il titolo originale rimanda appunto a un contratto. Pare quasi che il contratto sociale, nato secondo Hobbes per correggere e arginare gli istinti brutali connaturati in ogni individuo, sia invece sorto per nasconderli.

L’anno esatto, categorico, in cui si svolge la vicenda, è il medesimo in cui venne promulgato il Married Woman’s Property Act che consentiva per la prima volta alle donne di ereditare una proprietà: 1694. È il desiderio di possesso che spinge le due scaltre donne, Mrs. Herbert e Mrs. Talmann, madre e figlia, a tramare un diabolico ordito di cui Mr. Neville diviene l’ignara vittima. Stallone designato in un harem all’inverso, pullulante di virtuali eunuchi, Mr. Neville viene sì apprezzato per il pennello - ma non quello che usa per dipingere. Il disegnatore contempla il giardino secondo il puro crisma della bellezza, non vi scorge le contaminazioni sociali ed economiche, sospese e trasparenti come tele di ragno. Ecco dunque che la purezza si rivela per quel che è: la sorella nobile dell’ingenuità. 

Questione di prospettiva

"The eye is lazier than the brain."

Il film esemplifica quindi un’estetica post-strutturalista: perennemente proteso oltre l’intreccio, si pone come autocosciente indagine sui rapporti strutturali che legano realtà e rappresentazione, amore e interesse, produzione artistica e logiche di mercato, denunciando nel contempo la natura parziale e limitata di ogni interpretazione del reale. Ogni verità è relativa, ogni visuale prospettica. Perciò si comprende bene come Mr. Neville, pittore-scienziato che si impegna a "riprodurre il mondo fedelmente" e "si applica con ogni sforzo a non distorcere e non dissimulare mai", sia destinato allo scacco dal principio. I rogue elements che infestano il giardino (il paio di stivali, la scala, la camicia) sono le invariabili eccezioni che violano la regola. E nella proliferazione virulenta di tali segnali, riconosciamo i capricci di una realtà recalcitrante, che rifiuta di piegarsi al metro cartesiano del protagonista. Nel mondo di Greenaway, sistemi o codici di ogni sorta sono sogni inadeguati, fantasie, velenose illusioni. Il pensiero categorico sembra rendere il mondo più comprensibile; Greenaway ritiene che esso lo distorca, forzandolo in schemi innaturali.

Dunque, l’occhio è più pigro del cervello: Mr. Neville, un equo amalgama di arroganza e innocenza (come afferma Mrs. Talmann), è capace di vedere, ma non di intuire.[1] E la sua cecità, dapprima metaforica, trova una crudele e letterale concretazione nel finale. Tuttavia, lo scarto fra immagine e conoscenza, tra realtà e prospettiva, non è un problema esclusivo del protagonista, ma si riverbera invece negli occhi dello spettatore, chiamato come Mr. Neville a una cogente (e si spera, a una più fortunata) interpretazione. Perciò, se da un lato "I misteri del giardino di Compton House" richiama la gloriosa tradizione britannica del murder mystery, sotto un’altra luce attinge a piene mani dalle sperimentazioni letterarie di Alain Robbe-Grillet ("La Jalousie", "L’Année dernière à Marienbad") e dal cinema di Resnais (la trasposizione filmica di "L’Année dernière à Marienbad") e Antonioni ("Blow-Up"), opere che tramite l’espressione cosciente dei propri artifici strutturali invitano il fruitore a partecipare alla creazione del significato come alla soluzione di un enigma. 

Catalogue-movie

"I was anti-narrative in picture-making, and therefore in cinema. If you want to tell stories, be a novelist."

Greenaway stesso ha coniato una precisa definizione per lo sperimentalismo che ha contraddistinto buona parte della sua produzione artistica: "catalogue-movie". Ne "I misteri del giardino di Compton House", come in altri medio e lungometraggi del regista gallese, la narrazione è sostituita dall’elenco, il catalogo, l’enumerazione, la collezione. Insiemi compiuti o parziali, chiusi o aperti, disgiunti o intersecati, di oggetti, gesti, simboli o figure fungono da principio regolativo nell’orizzonte sistemico del girato, in cui eventi e personaggi vengono inseriti, moltiplicati e sottratti alla maniera di un articolato rebus audiovisivo. I film di Greenaway satirizzano cataloghi e principi organizzativi, ma paradossalmente, per quanto il regista sembri disprezzare il pensiero sistematico, lo vede come unica plausibile alternativa alla narrazione.

L’insieme delle vedute di Compton House, composto da 12 disegni (+1), funge allora da espediente funzionale (anti-narrativo, più che narrativo) per permettere il dispiegamento di un sistema di regole e significanti in cerca di un interprete. Difatti alla messinscena, protesa verso l’espressione simbolica di una poetica autoriflessiva e autocosciente, partecipano tutti gli elementi del linguaggio cinematografico, come ad esempio il colore, gli attanti, la colonna sonora. Esaminiamoli dunque in quest’ordine, a cominciare dal colore: se la natura, indifferente alle macchinazioni sociali, mantiene un verde brillante, l’aristocrazia muta invece i costumi dal bianco al nero, e Mr. Neville da nero si fa bianco. L’inversione cromatica, conseguente all’omicidio di Mr. Herbert, raffigura il candore dell’artista, velato in precedenza dal simulato cinismo, e il malcelato (ma autentico) cinismo dell’aristocrazia, cui allude un emblematico attante: il genius loci di Compton House, che anima a turno le statue del giardino, esibendo con smorfie e gesti scurrili il disprezzo per le convenzioni e gli interessi privati.

Infine anche la colonna sonora di Michael Nyman, curata scena per scena, acuisce il senso di artificio e straniamento. Nyman, formatosi come esperto in musica barocca e affermatosi come compositore e critico innovativo e prolifico (per primo applicò il termine "minimalismo" in ambito musicale), era senza dubbio il profilo più adatto per musicare la versione cinematografica postmoderna di un murder mystery ambientato in una magione aristocratica nell’Inghilterra di Guglielmo d’Orange.[2] Decostruendo Henry Purcell (1659-1695) in un sofisticato gioco di ripetizioni e relazioni tonali, e unendo alle timbriche classiche (archi, piano, tuba) altre più moderne (chitarra basso, sax baritono, sax contralto, sax tenore, sax soprano), Nyman raggiunge una compiuta integrazione di linguaggi musicali in un meccanicismo sonoro anacronistico, che all’opulenza del suono barocco affianca l’umore ipnotico e pulsante del minimalismo contemporaneo. In questa rielaborazione parodica del barocco musicale si riflette fedelmente l’indole postmoderna del film, laddove il "postmoderno", in un presente svuotato di canoni e valori, implica la rievocazione dei valori e dei canoni delle epoche precedenti, eseguita con ironica consapevolezza e iperbolica maniera. 

Beyond narration: il cinema di Greenaway fra gioco e arte

"I misteri di Compton House" è il primo lungometraggio in cui Greenaway integra i bizantinismi dei precedenti cortometraggi ("A Walk Through H", "Windows", "Intervals", "Dear Phone") in un codice lineare che pure cela, sotto il velo dell’intreccio, divergenti e molteplici rimandi.[3] Si comprende dunque perché il film costituisca una pietra miliare del cinema moderno: gettando un ponte oltre la narrazione, esemplifica e precorre il carattere enigmatico dei successivi, coinvolgendo lo spettatore in un perpetuo gioco di rimandi, allegorie, allusioni e inventari. Parte della critica si è chiesta dal principio se la poetica di Greenaway corrispondesse allo sterile divertissement di un erudito oppure al prodotto di una sincera vocazione artistica. A dar retta a Gadamer ("The Relevance of the Beautiful", 1986), i due eventi non sono in contraddizione, poiché l’esperienza estetica si configura in primo luogo come pratica dialogica che cattura il fruitore e lo sfida all’inesauribile gioco dell’interpretazione. Ecco spiegato perché i giardini di Compton House, dopo quasi quarant’anni, rappresentano per noi ancora oggi una fonte di incommensurabile fascino, insondabile mistero.


Bibliografia
Mary Alemany-Galway e Paula Willoquet-Maricondi, "Peter Greenaway’s Postmodern/Poststructuralist Cinema", Scarecrow Press, 2008
Peter Greenaway, "Greenaway in his own words", BFI Website
Amy Lawrence, "The Films of Peter Greenaway", Cambridge University Press, 1997
James Mackenzie, "The Draughtsman", Cinémathèque Annotations on Film, Issue 12, Febbraio 2001


[1] Anche "intuire", da un punto di vista etimologico, stabilisce un’intima connessione fra visione e conoscenza: dal latino intueri, a sua volta da tueri ("guardare") e in (prefisso locativo che evoca varie connotazioni: "all’interno", "dentro", "oltre la superficie").

[2] In un articolo del 1968 apparso su "The Spectator".

[3] Per esempio: da "A Walk Through H", la camera statica e l’ampiezza delle immagini. Da "Windows", la tradizione pittorica dei paesaggi inglesi. Da "Intervals", l’idea di pittura seriale. Da "Dear Phone", il rifiuto dell’idea di oggettività in favore di un prospettivismo estetico.


23/07/2018

Cast e credits

cast:
Anthony Higgins, Janet Suzman, Anne Louis Lambert, Hugh Fraser


regia:
Peter Greenaway


titolo originale:
The Draughtsman's Contract


distribuzione:
United Artists Classics


durata:
108'


produzione:
British Film Institute


sceneggiatura:
Peter Greenaway


fotografia:
Curtis Clark


scenografie:
Bob Ringwood


montaggio:
John Wilson


costumi:
Sue Blane


musiche:
Michael Nyman


Trama
Inghilterra, 1694. Il talentuoso pittore Mr. Neville stipula un contratto con Mrs. Herbert, impegnandosi a eseguire 12 vedute della magione di Compton House in cambio di vitto, alloggio e favori sessuali. Dai disegni emerge un complicato intrico di trame e delitti.