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recensione di Giuseppe Gangi

François, Jules e Jim

La sceneggiatura non piaceva affatto ai produttori. Dicevano: la donna è una puttana, il marito sarà grottesco, ecc. La scommessa per me è che la donna commuova (senza ricorrere al melodramma) e che non sia una puttana, e che il marito non sia ridicolo -
F. Truffaut [1]

Alexandre Astruc non poteva immaginare che teorizzando la caméra-stylo stesse ponendo la prima pietra per quel movimento che dalla fine degli anni 50 cambierà i connotati del cinema europeo, per poi dilagare in ogni dove. Gli alfieri della Nouvelle Vague con le loro ferme convinzioni e la politique des auteurs lodavano i film che raccontavano la verità e si auguravano che i registi avessero una considerazione artistica pari a quella del letterato. Pertanto, i filmmaker dovevano essere autori a 360°, scrivendo la propria opera con la macchina da presa. La sceneggiatura era il dispositivo per sparigliare le carte e, difatti, l'adattamento, nella sua forma classica e calligrafica, incomincia a essere malvisto. François Truffaut, nel celebre articolo "Una certa tendenza del cinema francese" (1954), faceva una distinzione essenziale tra le tecniche di Aurenche e Bost, i campioni dell'adattamento letterario che, a dire del giovane critico, comprimevano e sopprimevano parti delle fonti, in un lavoro di sterile "taglia e cuci", e lo stile di registi quali Jean Renoir e Robert Bresson: "Diario di un curato di campagna" (1951), tratto da Georges Bernanos, era senza dubbio uno dei modelli contemporanei in cui si dimostrava la capacità delle tecniche del cinematografo di appropriarsi con originalità del linguaggio verbale, divenendo in breve anche un modello di rigore artistico per i futuri registi della "nuova onda".

Truffaut lesse casualmente "Jules et Jim", opera prima del già ultrasettantenne Henry-Pierre Roché, nel 1955, rovistando tra i libri in offerta in piazza Palais Royale. Se ne innamora e lo cita in maniera così lusinghiera nella recensione di "Fratelli messicani" (Edgar G. Ulmer, 1955) da non passare inosservato a Roché, che spedì una lettera di ringraziamento al critico dei Cahiers du Cinéma; nel 1956 nacque dunque un'amicizia che si protrasse fino alla morte del vecchio dandy, avvenuta nel 1959. Pierre aveva approvato l'idea di Truffaut di trarre un lungometraggio dal suo romanzo, che poca fortuna editoriale aveva avuto, proponendosi di aiutarlo nel lavoro di adattamento: proprio qualche giorno prima della sua morte, Roché scriveva a Truffaut che le foto di Jeanne Moreau, considerata per il personaggio di Catherine, gli piacevano molto e che avrebbe voluto conoscerla. In quell'anno il ventisettenne François esordiva con "I quattrocento colpi" e dopo un episodio sottovalutato, quel "Tirate sul pianista" che sembra quasi un'invasione nel campo di Jean-Luc Godard, riuscì finalmente a portare a compimento il progetto che lo legava all'anziano scrittore.

Il sincero amore che il regista nutriva nei confronti della fonte letteraria lo portò ad affermare che il suo film era un omaggio a Roché, la cui opera restava ben più completa. Tale definizione può andare bene se si considera in maniera quantitativa la storia narrata: in effetti nel romanzo accadono più cose, si susseguono più eventi, si conoscono più personaggi. Qualitativamente l'adattamento irreggimenta, però, quelli che erano gli ideali teorici sulla trasposizione cinematografica da parte dell'autore. Bazin, al cui pensiero il critico Truffaut si rifaceva, scrisse riguardo al "Journal": «La fedeltà di Bresson al suo modello non è (...) che l'alibi di una libertà rivestita di catene; se rispetta la lettera è perché questa gli è più utile di certe inutili libertà, perché questo rispetto è, in ultima analisi, molto più di una raffinata difficoltà da superare, un momento dialettico della creazione di stile».[2] Lo stile aforistico (telegrafico, sottolinea Truffaut) e sottilmente poetico con cui Roché tratta un materiale per l'epoca scabroso, fa parte della grandezza del romanzo che scivola con fluidità verso l'epilogo, attraversando stati d'animo di segno alterno, superando frontiere geografiche e sentimentali ed affrontando lo scorrere del tempo. Si sa bene che dietro Jim si nascondesse lui, Henry-Pierre Roché, mentre Jules è l'amico fraterno Franz Hessel che, insieme alla moglie Helen, ha intrattenuto questo singolare rapporto. Quello che a Truffaut preme più di ogni altra cosa è di restituire il senso della successione di istantanee di memoria, di cartoline da un passato in cui gioia e dolore sono indissolubilmente mescolati, osservate con la discreta ironia di chi è sopravvissuto alla propria epoca.


Amicizia e guerra

Quando fu proprio vicino, Jim uscì di corsa. Si abbracciarono quattro volte. E ripresero la loro grande conversazione interrotta - H.P. Roché

Roché, nella prima parte del romanzo, mette al centro l'amicizia tra Jules e Jim per evidenziare la profondità del rapporto, l'intesa intellettuale e l'affinità spirituale che li lega. Per Truffaut questa parte si traduce in un gioviale sommario delle loro pratiche quotidiane, quali gli incontri galanti nei locali della Parigi della Belle Époque, il pugilato, le traduzioni incrociate (dal tedesco al francese e viceversa). Per Truffaut l'amicizia è una sinergia rappresentabile già attraverso le interpretazioni di Oskar Werner (Jules) ed Henry Serre (Jim), attendendo con impazienza l'arrivo dell'Amore, l'arrivo di Catherine (Jeanne Moreau). Catherine è una forza centrifuga che attrae irresistibilmente i due amici, sebbene Jim si faccia inizialmente da parte per vedere coronata la felicità del compagno. Per riequilibrare la situazione il regista inserisce subito il personaggio di Gilbért con cui Jim ha stretto il patto di invecchiare insieme, qualora non si fossero sposati, mentre Roché la fa emergere solo quando il ménage à trois è avviato. Le triangolazioni che si avvicendano nel romanzo vanno oltre Jules, Kathe e Jim, poiché è l'intera narrazione ad assumere un andamento triadico moltiplicando questa nuova figura retorica e sentimentale. Truffaut, ad esempio, elimina Lucie (soltanto citata), il più importante amore non corrisposto di Jules, personaggio che fa da contraltare a Kathe nella sua compostezza borghese, nella scelta di una vita mediana che finisce per respingere, per ragioni differenti, sia Jules che Jim. A fare da asse portante della narrazione truffauttiana sono quindi solo i tre protagonisti e le loro relazioni, con problematiche che fanno da fil rouge nell'opera del cineasta parigino.

La guerra nel romanzo di Roché è un trauma rimosso, il cui centro gravitazionale è spostato verso la storia d'amore con Kathe. È difatti la vita con lei ad avere ritmi bellici, composti da pace paradisiaca, da tregue purgatoriali e da attacchi che li precipitano nell'inferno dei loro sentimenti, logorandoli lentamente. Truffaut approfondisce, seppur brevemente, questo passaggio che allontana i due uomini, i quali si ritrovano ad essere nemici per motivi indipendenti dalla loro volontà: in una lettera a Catherine, Jules confessa di essere contento di essere stato inviato al fronte russo perché viveva nell'angoscia di poter uccidere Jim. L'uso delle immagini di repertorio (magnificate dal cinemascope) che mostrano la violenza della vita di trincea costituiscono una spezzatura nel tono del film, che si fa via via più serio e inquieto. Le macerie post-belliche non intaccano comunque il rapporto tra i due amici che si riscopre saldo come prima, e lo spettatore ritrova la tranquillità della finzione. 


Catherine, la donna che inventò l'amore

Avevano mai incontrato quel sorriso? Mai. Cosa avrebbero fatto se lo avessero incontrato? Lo avrebbero seguito.

Il volto di Jeanne Moreau è una visione vertiginosa scolpita nella pietra di un busto, per farsi carne solo dopo. Catherine trasfigura il sorriso della statua di cui si innamorano i due amici durante il loro viaggio in Grecia: il sorriso arcaico è ambivalente, ha superato le intemperie del tempo incurante della morte di generazioni e generazioni di custodi, la sua bellezza abbraccia l'astante ma lo imprigiona con la sua crudeltà. Quel sorriso e i suoi reconditi significati si leggono sul volto della Moreau, bellezza intellettuale mostrata anche nella sua severità, che assurge a simbolo del nuovo cinema francese. Truffaut è innamorato di Catherine (e anche dell'attrice che la interpreta) esattamente come lo era Roché e come lo sono i personaggi protagonisti. Non importa chi si alterna nel rapporto con la donna, perché c'è lui ad accarezzarla con la macchina da presa, a fotografarla con il bianco e nero di Raoul Coutard, a narrarne le vicissitudini con la voce di Michel Subor. La Catherine della Moreau è un essere sfaccettato che non accetta semplificazioni: ha sicuramente qualcosa dell'androgino se il travestimento in Thomas è un successo, ma è assolutamente femminile nel modo di richiedere e di imporsi alle attenzioni maschili. Per i protagonisti è generosa e dispensa gioie, ma le sue crisi sono dei terremoti le cui scosse hanno ripercussioni imprevedibili. Il primo tuffo nella Senna, fatto appositamente per punire Jules per la sua esclamazione misogina ("Chi ha detto: la donna è naturale e dunque abominevole?", citando Baudelaire), segnala un'instabilità difficilmente sanabile. È l'incarnazione purissima dell'eterno femminino creativo e distruttivo al contempo che, come la Storia stessa, non compie alcun'azione giusta o sbagliata, bensì soltanto esperienze che avverte come necessarie: infatti, Jim, che più di tutti la comprende, non si permette mai di giudicarla.

Al contrario di Roché che mette i personaggi più o meno sullo stesso piano (sebbene il suo alter-ego abbia una lieve preminenza), per Truffaut è la donna ad essere la reale protagonista dell'opera: è a lei che un dilaniato Jim rivolge un'accusa da cui non può discolparsi, "Hai voluto inventare l'amore, ma senza un minimo di umiltà, solo con l'egoismo". Si tratta di un nuovo tipo di relazione, liberata dagli ipocriti criteri di catalogazione borghese, la cui morale si rispecchia unicamente nella felicità che si realizza. Un amore che si nutre dei momenti belli e che brucia di rabbia a causa dei litigi, degli equivoci e delle incomprensioni. Il tempo livellatore cicatrizza sulla pelle dei protagonisti nodi irrisolti che scavano solchi forse incolmabili. Perché l'amor fou [3] di Truffaut o l'amore estetico di Roché sono due facce della stessa medaglia che corrono inevitabilmente verso la catastrofe. Un suggello tragico che eterna Jim e Catherine, un salto nel vuoto del tempo, affinché angustie e capricci non li allontanino più. Jules, trasformatosi in un intellettuale-eremita, è il custode e il guardiano di questo rapporto sacrale, e non ha nulla del voyeurismo che permea il personaggio di Roché. Catherine, che ha plasmato i due uomini su di lei, è l'ultima a prendere una decisione, vincendo la sua partita con la vita. Quasi come contrappasso per la sua tracotanza, Jules non può accontentarne l'ultima volontà - le ceneri sparse nel vento - perché illegale. 


Filmando la felicità

La vita era come una strana vacanza. Mai Jules e Jim avevano giocato una partita a domino così importante. Il tempo passava. La felicità si racconta male perché non ha parole, ma si consuma e nessuno se ne accorge.

Il tentativo di rappresentare qualcosa di transitorio, una parentesi difficile da rapprendere e rendere in parole e immagini è una delle sfide cinematografiche che accetta Truffaut quando inizia a girare il suo terzo lungometraggio. Senza dubbio fotografia, montaggio e colonna sonora sono tra le peculiarità che servono a far fluire il sentimento e dirigerlo negli anfratti degli stati d'animo messi a nudo dalla caméra-stylo del regista. La matrice letteraria non viene celata, bensì sottolineata a partire dall'artificio della voce di Subor, narratore onnisciente che recita porzioni del testo di Roché, sostituendosi spesso alle voci degli attori esattamente come accadeva nel romanzo: i protagonisti sono quindi, come spesso accade nella Nouvelle Vague, funzioni di una rappresentazione, dove la consapevolezza della finzione comporta la malinconia del registro. I personaggi di Truffaut sono accondiscendenti di fronte al turbine degli eventi che li catturano, arrendendosi alla folle violenza dei sentimenti: questo vale soprattutto per i suoi film d'amore di cui "Jules e Jim" è la pietra angolare su cui tutti gli altri si costruiranno. Lo stesso regista si rese conto che, nonostante gli eventi, il suo film andava rappresentando la forza dirompente di tale sentimento, raccontandone la bellezze, il vitalismo, mentre tale stato d'animo poteva avere sfaccettature di segno diverso. Di conseguenza, la sua pellicola successiva, "La calda amante", si configurò quasi come un contre-Jules e Jim, un'opera sull'adulterio dove il corteggiamento e i primi febbricitanti incontri amorosi sono raccontati con la suspense di un film hitchcokiano, col montaggio serrato di un thriller. "La peau douce" raccontava l'incubo, la paura di un amore illecito, tutti aspetti assenti nella pellicola precedente, la cui vita a tre non era mai messa in crisi da gelosie di sorta. D'altra parte, sebbene sia celata da una prima parte dall'entusiasmo giovanile, l'epicentro di "Jules e Jim" consta in una visione ambigua e inquieta del rapporto uomo-donna: la coppia non è il sistema perfetto e il ménage à trois praticato dai protagonisti sembra dare speranze per un'armonia speciale, dai risultati insperati. Ma anche questo sistema è destinato a deteriorarsi, fino alla scelta di Catherine di porvi fine. L'uso della fotografia di Coutard si focalizza proprio sui contrasti e la saturazione del bianco e nero rispetto alla temperatura emozionale della narrazione. Si può suddividere la pellicola in quattro parti riferenti alle quattro stagioni: si inizia dalla primavera dell'incoscienza giovanile, che si conclude con la corsa a perdifiato sul ponte vinta da Catherine con l'inganno; la seconda è l'estate dell'armonia a tre; nella terza, dopo la prima guerra mondiale, vi è l'autunno, e il tentativo di restaurare il paradiso perduto è destinato lentamente a naufragare; nella conclusione troviamo l'inverno, corroborato anche da una natura più fredda (gli stessi personaggi indossano abiti più pesanti). Coutard passa da una fotografia dai toni lirici, fino a punte di astrazione come nella celebre sequenza della partita a domino dove i muri e il patio imbiancati fanno emergere in maniera ancor più netta le tre figure umane di nero vestite; nella terza e quarta parte, il bianco e nero si fa più cupo e tale modulazione è percepibile sia dalla mobilità della macchina da presa che dalle soluzioni di montaggio. La regia di Truffaut è vivace e piena di piccole sperimentazioni, come le frequenti virate a schiaffo che connettono i tre protagonisti, piuttosto che il canonico decoupage, o il pianosequenza a casa di Jules che culmina nel "trenino a vapore" mimato con la sigaretta da Marie Dubois, nell'allegro crescendo delle musiche di Georges Delerue. Le partiture del musicista francese sono essenziali nella composizione audiovisiva orchestrata dal regista: non è un caso che il celebre (e, ormai, immortale) tema "Catherine e Jim", che emerge durante la successione di pianisequenza della passeggiata notturna durante la quale i due si confessano a vicenda, rechi con sé un languore tristemente malinconico. Il montaggio si fa sempre più spezzettato, fino alla sequenza finale, in cui il "Guardaci bene" di Catherine innesca il sospetto di Jules: in pochi secondi si susseguono una quindicina di brevi inquadrature che dilatano la sospensione, sortendo il voluto effetto di spiazzare lo spettatore che precipita nella Senna, ormai dimentico dell’incipit buffo (che possedeva il tocco lubitschiano di "Partita a quattro") e dell’elegiaca seconda parte (seguente la poesia del Renoir di "Partie de campagne"), annaspante per la tragedia in atto.

All’inizio di questo paragrafo si parlava di come la felicità venisse rappresentata in "Jules e Jim". Difficile spiegarlo senza ricorrere a degli esempi, ma siamo certi che se non ci fosse la Moreau che canta "Le Tourbillon", o la camera-car che accompagna nelle curve i protagonisti in bicicletta, se non ci fossero le meraviglie di momenti splendidi nella loro naturale spensieratezza, c’è una sequenza a cui solo il cinema poteva dare vita. Catherine, mentre i due amici giocano silenziosamente a domino, racconta di quando, da bambina, sognava di avere un figlio da Napoleone e, sentendosi trascurata, dà uno schiaffo a Jules: il sorriso arcaico della donna mostra qui il suo doppio volto, una contaminazione di gioia (riesce a far ridere tutti com'era nelle sue intenzioni) e di cattiveria gratuita (opera come suo solito la legge del Taglione nei confronti dell'amato). E Truffaut decide di fermare il tempo. Se la verità scorre a 24 fotogrammi al secondo, un fotogramma, il fermo-immagine è la coincidenza perfetta tra il tempo reale e il tempo cinematografico. Cinque freeze-frame immortalano in primo piano una metamorfosi esistenziale, il passaggio – raccontato da Catherine – da ragazza, quando teneva sempre il muso, rispetto ad ora, dove invece sorride grazie alla vicinanza dei due uomini. La felicità che si racconta male, perché passa e nessuno se ne accorge, la si può per lo meno fotografare per non dimenticarsi che sia esistita.

Di "Jules e Jim" si sono innamorati generazioni e generazioni di registi, primo tra tutti, Godard, che più volte omaggerà la pellicola dell'amico François (già a partire dal coevo "Une femme est une femme"). Probabilmente aveva intuito che questo capolavoro di commovente potenza, avrebbe rappresentato la quintessenza del cinema truffauttiano. 



[1] O. De Fornari, I film di François Truffaut, Gremese Editore, 1990, p. 56. 
[2] A. Bazin, La stilistica di Robert Bresson, 1951, in La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, a cura di G. Grignaffini, Firenze, La casa Usher, 1984, p. 127.
[3] L'amor fou tanto caro alla Nouvelle Vague è la traslazione contemporanea del furor amoris, ereditato dalla cultura latina attraverso il pensiero e la tragedia greca. La tragicità del personaggio di Catherine è anticipato dalla presentazione in foto della statua greca dall’enigmatico sorriso, alla cui incarnazione i protagonisti attendono.


20/03/2013

Cast e credits

cast:
Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henry Serre, Marie Dubois, Boris Bassiak


regia:
François Truffaut


titolo originale:
Jules et Jim


durata:
102'


produzione:
Les Films du Carrosse; SEDIF


sceneggiatura:
François Truffaut, Jean Gruault


fotografia:
Raoul Coutard


scenografie:
Fred Capel


montaggio:
Claudine Bouché


costumi:
Fred Capel


musiche:
Georges Delerue


Trama
Jules e Jim sono due amici che a Parigi dividono la comune passione per la poesia e l’arte. Jules è austriaco e Jim è francese. Quest’ultimo è molto abile anche con le donne, mentre Jules, meno esperto, spesso ne resta deluso. Quando incontrano Catherine per Jules è un colpo di fulmine e Jim, pur affascinato dalla sua avvenenza, si fa da parte per favorire l’amico. La prima guerra mondiale li vede su opposti fronti, ma senza gravi conseguenze. Alla fine del conflitto si ritrovano in uno chalet sul Reno dove Jules e Catherine si sono sposati e hanno avuto una bambina. Catherine però è una donna contradditoria ed interiormente travagliata. Jim li ritrova come separati in casa e per nulla scoraggiato da Jules non nasconde allora i suoi sentimenti a Catherine...