Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi

«Guarda che non ce la possiamo fare mai. Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi. Voi al massimo potete andare a lavorare!»
Tiberio Braschi nel film

C'è un film nella storia della cinematografia nazionale entrato con prepotenza nell'immaginario collettivo e nel linguaggio comune, resistendo con rara forza e senza difficoltà al passare del tempo. Un film che ha mostrato l'originalità di uno stile, quello della commedia, che sarebbe presto diventata all'italiana,[1] ma che all'epoca era solo il lato comico del neorealismo, emergendo dalle macerie del presto consumato neorealismo rosa. Quel film è "I soliti ignoti", opera spartiacque nella storia del cinema nostrano, tanto quanto "Ossessione" di Luchino Visconti o "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, recepito sin da subito come un'opera singolare e originale nel panorama cinematografico di allora. E a tutt'oggi rimane uno degli esempi di cinema italiano più imitati (e amati) all'estero.

Mario Monicelli, classe 1915, aveva realizzato il primo film da professionisti nel 1949: quasi per caso e in pochi anni, in compagnia del collega di penna e di regia Stefano Vanzina, aveva macinato sceneggiature e pellicole fino al successo, anche internazionale, di "Guardie e ladri", con Totò e Aldo Fabrizi, grazie al quale vinse, sempre insieme a Steno, il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes del 1952. "I soliti ignoti" non arriva quindi come un fulmine a ciel sereno, c'era una tradizione vastissima che risaliva all'avanspettacolo e al cinema da esso derivato, di cui i film con Totò protagonista ne sono stati i portabandiera; come si notava già allora, però, un grande talento come quello dell'attore napoletano era spesso sprecato in produzioni povere, scritte con poca verve, dove l'unico collante era proprio il genio  del Principe De Curtis. Solo alcuni titoli possono essere iscritti a precursori del fortunato genere, come il già citato "Guardie e ladri", o il Fellini de "Lo sceicco bianco" (1952) e de "I vitelloni" (1953), mentre la parodia del crime movie americano era già stata messa in scena con "La banda degli onesti" (1956) di Camillo Mastrocinque. Dall'altra parte c'erano le commedie del neorealismo rosa, quelle del primo Risi più disimpegnato, che passava dal garbato "Il segno di Venere" a "Poveri ma belli", e l'ormai proverbiale "Pane, amore e fantasia" di Luigi Comencini, considerato quasi il fondatore del genere già  con "Proibito rubare" (1948). Nessuno di queste pellicole, tuttavia, raggiunge la compiutezza di intenti e di risultati dell'opera monicelliana, e difatti, l'altro alfiere della commedia, Dino Risi, offrirà le sue opere maggiori solo dopo l'exploit de "I soliti ignoti" con la scommessa de "Il sorpasso" (1962), che diverrà a sorpresa un grande successo e col film a episodi de "I mostri" (1963). [2]

L'anno successivo Mario Monicelli avrebbe diretto "La grande guerra", capolavoro immenso vincitore ex-aequo del Leone d'oro insieme a "Il generale della Rovere" in un evento sui generis - da una parte una commedia al vetriolo nei confronti del patriottismo italiano, dall'altra un grande melodramma storico dalla patina neorealista che faceva convergere i due autori simbolo della corrente, Rossellini regista e De Sica protagonista - che dichiarava la chiusura di quell'indimenticabile fase del cinema nostrano, ponendo le basi per il genere italiano par excellence, che avrebbe dominato ai botteghini - ma spesso col consenso della critica - almeno fino alla fine degli anni '70.

E' sempre stato sottolineato il carattere parodico de "I soliti ignoti", tenendolo presente in maniera anche più preponderante di quanto non meritasse: la parodia fatta a uno dei capostipiti del noir francese, "Rififi" di Jules Dassin (1955), è perfettamente dissimulata anche solo dalla differenza del contesto sociale e della caratterizzazione dei personaggi. Le affinità rimangono soltanto nello spunto narrativo di base, poi ribaltato da spietate stilettate di ironia, utilizzate anti-frasticamente (a cui contribuiscono anche i cartelli). Ovvero la gag è costruita quasi sempre su due inquadrature che dialogano tra loro e dalla cui collisione semantica scaturisce l'effetto esilarante: emblematica è la sequenza della presentazione di Peppe.  

Capannelle è in cerca della "pecora", ovvero di un sostituto che si faccia la galera al posto di Cosimo: inizia una sequela di incontri coi possibili candidati, i quali rifiutano l'occasione per "motivi di famiglia".[3] Il susseguirsi di scene comincia il fulminante gioco che si sviluppa per accumulo, tipico di tutta la commedia all'italiana, fino all'arrivo del pugile suonato interpretato da un magnifico Vittorio Gassman.[4] Presentato tra le travi e i chiaroscuri di uno spogliatoio improvvisato, il manipolo di personaggi  cerca di convincere Peppe "er Pantera" della convenienza di accettare ben 150 mila lire per sostituirsi a Cosimo dietro le sbarre. Il boxeur sbruffone, quasi stizzito dall'offerta, risponde che, puntando al titolo, non poteva finire in galera e conclude: "Senti, leggili i giornali domani mattina. A me me' trovate nella pagina sportiva, all'avversario mio negli annunzi mortuari". Mario, convinto dalla sicurezza del soggetto, rincara: "Ma figurati se un fusto come quello se mette a fa' la pecora". Naturalmente nell'inquadratura successiva Monicelli mostra l'avversario mandare al tappeto Peppe al primo round. Questa maniera diverrà poi sistema ne "La Grande Guerra": se nel film successivo tutto è più limato, anche per l'umorismo che va a irretire il registro epico tipico delle narrazioni belliche, ne "I soliti ignoti", alla maniera della farsa plautina o della commedia dell'arte, i personaggi non possono che essere concepiti tutti in primo piano. Lo sfondo definisce solo  i contorni della realtà da loro abitata: si pensi alla baracca dove vive Capannelle, la modesta casa di Ferribotte e di sua sorella Carmelina, alla piccola dimora-studio del fotografo di Tiberio.[5]

Sullo sfondo, o meglio, in un profilmico sorto a oggetto del desiderio,  c'è anche "la comare", la cassaforte del banco dei pegni, vista prima col binocolo nella perlustrazione iniziale del gruppo, dopo aver soffiato il colpo allo sfortunato Cosimo,[6] e poi rivista nel filmato di Tiberio. Questa sequenza è mirabile sia per la composizione metafilmica (i protagonisti stanno in una stanzetta a vedere le immagini con la stessa apprensione di una troupe che guarda il girato del giorno), sia per il susseguirsi di battute, in particolare quella di Totò, illuminato al centro tra gli altri protagonisti, che esordisce commentando nei confronti dell'indispettito Tiberio "Come film...è una vera schifezza".

"I soliti ignoti" è un canto dei disperati che si aggrappano all'idea del furto come ultimo metodo dell'arte di arrangiarsi, l'unico altro modo di vivere nella società senza abbassarsi al lavorare. In questo senso il personaggio di Dante Cruciani è foriero di una serie di elementi che preteriscono la sorte dei protagonisti: l'uomo è anziano, guardato a vista dalle forze dell'ordine (la famosa battuta "Brigadiere, come vede, si lavicchia"), evidentemente povero. L'esperienza che mette al servizio del gruppo gli è servita solo a sopravvivere (cosa non sempre scontata, si pensi al "Fu Cimìn"), ma non a vivere una vita normale o da benestanti. I personaggi quindi sono accompagnati dall'aurea del fallimento e chi non vuole fallire si deve adattare, adattare al lavoro, come fa Mario per amore di Carmelina o come in sostanza fa anche Peppe, dopo che il colpo era andato male. Nonostante il suo strenuo tentativo di pianificare le cose "sc-sc-scientificamente",  la catastrofe tragicomica dei protagonisti è incombente, e riflette la frustrazione (auto-inflitta) del mancato adeguamento alle regole della società.[7]

Monicelli ha avuto dalla sua anche la fortuna di dirigere un cast che col senno di poi si definirebbe "all stars", ma che, grazie a "I soliti ignoti", trovò una nuova fama: come afferma Morandini, Gassman, grande attore teatrale, istrione shakespeariano, sembrava relegato a figure di villain dove poteva gigioneggiare liberamente (si pensi a "Riso amaro", e ci si ricordi che a teatro lui era stato il nostro Stanley Kowalski in "Un tram che si chiama desiderio"), mentre grazie al personaggio di Giuseppe Baiocchi riesce a limare l'esplosiva espressività della sua arte (il trucco era molto particolare, con attaccatura dei capelli abbassata, naso accentuato, labbra cadenti) per caratterizzare, insieme all'inimitabile parlata balbettante, un pugile allampanato e genio del crimine della domenica. Poi c'erano due belli del nostro cinema, Mastroianni e Salvatori, quando Marcello non era ancora divenuto l'uomo dei sogni felliniano; a completare la banda di questi criminali da strapazzo vi sono dei caratteristi come Tiberio Murgia, che recitava il ruolo del siciliano (lo farà anche nel successivo "La grande guerra" e nei sequel de "I soliti ignoti") sebbene fosse sardo, oppure il Capannelle di Carlo Pisacane, vecchietto sdentato che si arrende subito all'idea, non proprio da buttare, di rubare "pasta e ceci" (come reciterà il titolo del giornale del giorno dopo). Infine uno dei cammei entrati a ragione in un'ipotetica antologia delle migliori "partecipazioni straordinarie", ossia quella di Totò nel ruolo del maestro di scassinaggio Dante, che dà ripetizioni ai protagonisti e che affitta loro le armi del mestiere.  E ne "I soliti ignoti" non manca nemmeno un apostrofo rosa: il rapporto sentimentale tra Mario e Carmelina (una giovanissima Claudia Cardinale) e quello tra il bugiardo patologico Peppe e la maliziosa e innocente Nicoletta (l'allora diciassettenne Carla Gravina), che si conclude con la decisione dell'ex pugile di non usare le chiavi, per non far ricadere i sospetti sulla povera ragazza.

A scrivere la sceneggiatura insieme al regista, la coppia sacra formata da Age e Scarpelli e la grande Suso Cecchi D'amico: Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, come lo stesso Monicelli e come Steno, Zavattini, Scola, Maccari, Fellini, e tanti altri, erano stati frequentatori  del Marc'Aurelio rivista di satira che fu, insieme al Bertoldo, una vera fucina di umoristi. La narrazione è scandita dal leitmotiv jazz di Piero Umiliani e a la fotografia di Gianni di Venanzio ritrae i quartieri romani dell'epoca nella maniera più naturalistica possibile, con le strade bagnate, le case miserabili, annullando quella che può essere la granduer dei gangster e costruendo uno sfondo di stampo neorealista.

Nella sequenza finale i nostri eroi, sconfitti, si dileguano mestamente, ognuno per conto suo, alle prime luci del giorno. Rimangono soltanto Peppe e Capannelle che per sfuggire ai carabinieri (notati perché trilla la sveglia in tasca al vecchio ladro) si mescolano a dei disoccupati in cerca di lavoro giornaliero. Peppe non riesce a districarsi e viene spinto dalla folla, arrendendosi ormai alla malasorte: Capannelle fa in tempo a gridargli "Beppe, ma ti fanno lavorare, sai?!".  Uno va a lavorare, l'altro è solo vestito da straccione. La danza[8] degli anti-eroi monicelliani è appena iniziata.



[1] L'etichetta di commedia all'italiana fu coniata all'indomani del successo di "Divorzio all'italiana" di Pietro Germi, parafrasandone il titolo.

[2] Senza dimenticare il dramma della commedia umana di "Una vita difficile" (1961), magnifico ritratto di una generazione sperduta con Alberto Sordi mattatore.

[3] Mario non abbandona sua madre, che poi sarebbero le tre inservienti dell'orfanotrofio dove è cresciuto, Ferribotte potrebbe compromettere la sorella Carmelina, vicina al fidanzamento con un uomo per bene, e Tiberio ha il suo da fare con il bebè, visto che la moglie è stata arrestata per contrabbando di sigarette.

[4] Da notare come questo percorso che porta a Gassman si ripeterà nell'incipit de "L'armata Brancaleone", 1966.

[5] Merita una citazione anche lo sketch che vede protagonista Capannelle in mezzo a un gruppo ragazzini del sottoproletariato della periferia, a cui chiede se conoscono un certo Mario. Uno di loro risponde che "Qui de' Mario ce ne so' cento" e allora l'anziano aggiunge, come se fosse un elemento di discrimine determinante, che questo è uno che ruba e di rimando si sente dire, seccamente: "Sempre cento so'".

[6] La sua è una figura quasi tragica che soggiace alla dura "Legge del Menga". Cosimo è il primo personaggio a entrare in scena insieme a Capannelle (che chiuderà il film), mentre viene colto in flagrante a rubare un'automobile (il crimine non paga). Come nota Enrico Giacovelli ne La commedia all'italiana (Gremese Editore, 1995) è il primo personaggio di una commedia a morire in scena, in modo abbastanza brusco, finendo sotto un tram.

[7] Cfr. Maurizio Grande, La commedia all'italiana, Bulzoni, 2002. In fondo «il tema del comico» era stato definito da Northrop Frye come «l'integrazione della società che, normalmente, assume la forma dell'incorporazione di un personaggio centrale nella società stessa».

[8] Non ancora macabra, come diverrà in parte ne "L'armata Brancaleone" e poi nel germiano "Amici miei" (1975).


29/11/2011

Cast e credits

cast:
Vittorio Gassman, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni, Carlo Pisacane, Tiberio Murgia, Memmo Carotenuto, Rossana Rory, Carla Gravina, Claudia Cardinale, Totò


regia:
Mario Monicelli


distribuzione:
Lux Film


durata:
102'


produzione:
Vides Cinematografica, Cinecittà, Lux Film


sceneggiatura:
Mario Monicelli, Suso Cecchi D'Amico, Age & Scarpelli


fotografia:
Gianni Di Venanzo


scenografie:
Vito Anzalone


montaggio:
Adriana Novelli


costumi:
Piero Gherardi


musiche:
Piero Umiliani


Trama
Un gruppo di ladruncoli male in arnese pianifica una rapina ai danni un' agenzia del Monte dei pegni. Bisognosi della consulenza di un esperto, i cinque si rivolgono a Dante Cruciani (Totò), criminale in libertà vigilata, che rivelerà loro i segreti per scassinare qualsiasi cassaforte.