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Gli esordi da sceneggiatore di b-movie e soggettista per Sergio Leone. La "trilogia degli animali" e il successo planetario di "Profondo rosso". L'orrore di "Suspiria" e di "Inferno" e l'amicizia con il papà degli zombie Romero. Rassegna completa dei successi e dei fallimenti di uno dei nostri autori "cult", il cui cinema ha scioccato generazioni di spettatori

"...conta anche il modo di scrivere.
E il modo di scrivere di un regista è la macchina da presa
"
(Dario Argento)


Dario Argento in tre termini

Tecnica, passione e poesia: tre termini per definire/identificare il cinema di Dario Argento (Roma, 1940). Figlio di Salvatore Argento, funzionario della Unitalia Film e in seguito produttore cinematografico (il quale si occuperà dei film di Dario fino ai primi anni 80) e della fotografa Elda Luxardo, famosa nell'ambiente dello spettacolo italiano dell'epoca (ha immortalato personaggi quali Sophia Loren e Gina Lollobrigida), è oggi universalmente riconosciuto come un "maestro dell'horror", anche se tale etichetta risulta riduttiva come avremo modo di scoprire.

1) Tecnica: Argento riserva una cura minuziosa per l'inquadratura e presta un'attenzione assolutamente privilegiata verso il mezzo che gli consente di realizzare film, ossia la macchina da presa. Tale atteggiamento lo conduce a sperimentare soluzioni innovative e improbabili per dare libero sfogo alla propria fantasia visionaria e creare una "firma" per le sue opere. Basti pensare al celebre e singolare uso della soggettiva e alla realizzazione di scene incredibili come quella della morte di Mimsy Farmer in 4 mosche di velluto grigio, catturata da un ralenti esasperato/esasperante grazie a una speciale mdp (la Pentazet) in grado di catturare fino a 30.000 fotogrammi al secondo.

2) Passione: Argento nasce come critico cinematografico e sviluppa una sincera attrazione nei confronti dei cosiddetti film di genere (seguendo, in particolare, i filoni western e thriller) e prima di approdare alla regia riesce a collaborare con Sergio Leone, suo fondamentale punto di riferimento, per la stesura del soggetto di "C'era una volta il West". Tale passione gli permette di affrontare il cinema in maniera consapevole e competente, nonostante l'esordio da giovanissimo, e di imporre da subito, in modo smaliziato, le proprie idee per sovvertire determinati cliché. Proprio nel primo film possiamo riscontrare l'esempio lampante della sua indole: la vittima non è la donna vestita di bianco.

3) Poesia: i film di Dario Argento sono in grado di imprimere un'immagine nella mente, di offrire un'acuta attenzione per il dettaglio e di restituire una visione "altra" della realtà osservata. Pensiamo agli occhi sbarrati in Opera e alla scena dello specchio in Profondo rosso, alle atmosfere oniriche ed espressioniste di Suspiria e Inferno e all'immersione nei dipinti de La sindrome di Stendhal. Ci troviamo, pertanto, di fronte ai tratti caratteristici del fare poesia e Dario Argento nel corso della sua carriera ha creato una poetica che l'ha reso un indiscusso maestro.

La trilogia degli animali 

uccellopiumecristalloIn poco meno di due anni (tra il 1970 e il 1971) le sale cinematografiche italiane vedono il debutto di un talento registico inimitabile e la nascita di un fenomeno destinato a protrarsi fino alla fine degli anni 70, conosciuto come il periodo del "thriller all'italiana" e che conduce anche all'esportazione del termine "giallo" per definire il genere in questione.
Il primo film di Dario Argento ottiene un successo commerciale tanto eclatante quanto inaspettato e spiana la strada a un remunerativo filone, proprio come accade qualche anno prima con Sergio Leone e il suo "Per un pugno di dollari" (1964) che inaugura la famosa "trilogia del dollaro" e dà vita allo "spaghetti western".

Girato in poche settimane sul finire del 1969, L'uccello dalle piume di cristallo (1970) costituisce ancora oggi un importante paradigma per il cinema del regista romano. Per tutta la durata del film Argento non fa altro che giocare con lo spirito d'osservazione dello spettatore. E lo fa attraverso un raffinato gioco di sguardi: particolarmente significativo in tal senso è l'uso della soggettiva, in grado di diventare anche il falso punto di vista dell'assassino (il quale si ritrova improvvisamente in campo), il reiterato flashback dell'episodio-chiave (con zoomate e fermi immagine per focalizzare l'attenzione sul dettaglio mancante) e l'ossessione verso l'immagine raffigurata in un quadro dal tratto infantile e tutta da interpretare.
Invero, soltanto in anni recenti è stato evidenziato il debito di questa pellicola nei confronti di un paio di opere antecedenti del geniale Mario Bava, "La ragazza che sapeva troppo" e "Sei donne per l'assassino", ma Dario Argento (che renderà il suo tributo a Bava 10 anni più tardi) non imita, bensì assimila e mescola, sapientemente, assecondando il proprio gusto estetico, idee e atmosfere estrapolate dal cinema che più lo colpisce.

Nel 1971 giungono in successione più o meno rapida Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio. Il primo si colloca in modo strano all'interno della filmografia argentiana, poiché "ripudiato" dall'autore, il quale sopporta malvolentieri le imposizioni della distribuzione americana, nonostante riesca a superare di gran lunga gli incassi de L'uccello dalle piume di cristallo. La storia rende l'idea di un canonico poliziesco all'americana, ma i punti d'interesse risiedono altrove e pensiamo, innanzi tutto, all'uso della soggettiva che inizia a essere estremizzato (emblematica la morte dell'assassino che cade nella tromba dell'ascensore) e alla perfetta costruzione e architettura della lunga sequenza del cimitero, uno dei momenti che svicolano dalla detective-story, capace di infondere genuini attimi d'ansia nello spettatore giocando sui tempi e sugli sguardi. Il secondo, invece, pone importanti basi per il futuro, grazie all'affiorare di elementi visionari/irrazionali più marcati: il sogno "premonitore" di Roberto e gli improvvisi flashback del folle omicida. Le coordinate sono ancora quelle del giallo dove tutto torna ed è spiegabile, ma la messinscena offre spunti che vengono estremizzati e meglio amalgamati in seguito, soprattutto la componente onirica. È da sottolineare, inoltre, come la rappresentazione dell'omicidio cominci a diventare un momento estetico esaltante: l'uccisione di Amelia nel parco.

Questi primi tre film costituiscono la cosiddetta "trilogia degli animali", per via dei titoli delle pellicole, accomunati dalla presenza di un riferimento zoologico. Tuttavia, l'espediente della "denominazione a effetto" viene utilizzato più che altro per motivi scaramantici: se, infatti, per L'uccello dalle piume di cristallo la scelta è determinata dalla voglia di poter sfruttare un titolo in grado di catturare l'attenzione dello spettatore nei confronti del prodotto di un esordiente, ne Il gatto a nove code diventa puro pretesto per creare una "firma" e associare il nuovo film al successo straordinario ottenuto dal suo predecessore.
Il nome di Dario Argento viene prontamente accostato a quello di Alfred Hitchcock, perché è il "maestro del brivido" per antonomasia, ma i riferimenti più evidenti fanno capo a due importantissimi autori del panorama italiano, ossia Sergio Leone, considerato da Argento un vero mentore (da non trascurare, poi, che le musiche di queste prime pellicole sono di Ennio Morricone), e Michelangelo Antonioni, del quale apprezza il virtuosismo e il cui "Blow-Up" del 1966 costituisce una pietra fondamentale per la tematica alla base di tanto cinema argentiano. A tal proposito è giusto evidenziare l'omaggio a questi due grandi registi presente ne Il Gatto a nove code: l'orologio-ciondolo di Bianca e il dettaglio della fotografia che resta fuori dall'ingrandimento della stessa.

Affondo in Argento - Il capolavoro italiano
 

profondorosso2Dopo soli tre film e poco più che trentenne, Dario Argento è già diventato un marchio di fabbrica e l'esperienza televisiva de La porta sul buio (1973) rende ben noto al grande pubblico anche il suo volto. Occupandosi della realizzazione e del coordinamento del lavoro di questo progetto, ne ricava quattro film per la televisione che ratificano il suo status di maestro del giallo: il cineasta introduce personalmente ogni singolo prodotto, alla maniera della serie "Alfred Hitchcock presenta". Argento si ritrova a girare ben due episodi della serie: Il tram, sotto lo pseudonimo di Sirio Bernadotte, e Testimone oculare, dove (non accreditato) sostituisce in corso d'opera Roberto Pariante.
Questa parentesi televisiva non è da sottovalutare per almeno due importanti motivi: 1) conferma il suo modo di concepire il cinema e la volontà di stupire lo spettatore, invitandolo a prestare sempre un'estrema attenzione al dettaglio e ai diversi modi possibili di osservare un'immagine 2) dimostra la volontà di sperimentare altri territori registici e anche l'(arrogante?) ambizione di andare oltre il thriller, abbandonando momentaneamente il cinema per non seguire la scia dei numerosi film di genere che spuntano fuori come funghi in quegli anni, proprio per sfruttare l'onda del successo della "trilogia degli animali".

Tali film non sono, comunque, privi d'interesse: basti citare almeno il nome di Lucio Fulci che è stato tra i più attivi, mentre è divertente notare come Mario Bava, in un curioso gioco di rimandi, invitato a produrre qualcosa che fosse più vicino al lavoro di Dario Argento, dà vita a "Reazione a catena", pellicola particolarmente efferata, che nulla ha a che vedere con i primi tre film del cineasta romano, e che costituisce, invece, un precursore del genere slasher.

Più o meno contemporaneamente a La porta sul buio è la volta de Le cinque giornate (1973), bizzarra commedia per il grande schermo, ambientata durante i moti rivoluzionari italiani del 1848, che ha come protagonista Adriano Celentano. Dario Argento avrebbe dovuto, in realtà, soltanto produrre il film assieme al padre, pur essendosi occupato di soggetto e sceneggiatura, ma si ritrova praticamente costretto a dirigerlo. La pellicola in questione non riscuote successo, anche se, nonostante qualche soluzione semplicistica e un finale retorico, è ricca di spunti originali e interessanti sia a livello stilistico che narrativo.

Quando si ritorna al genere che contraddistingue la filmografia argentiana con Profondo rosso (1975), finalmente, l'amalgama tra elementi onirici, fantastici, horror e quelli più "classicamente" thriller trova la giusta combinazione, dando vita a una pellicola che costruisce un perfetto meccanismo d'indagine continua, la quale scava per andare a fondo, oltre la superficie delle cose. La lunga sequenza in cui Marc esplora la villa abbandonata, accompagnata soltanto dall'efficace e sostenuto commento sonoro dei Goblin, risulta, in tal senso, emblematica: l'inquietante atmosfera che lascia aleggiare la minaccia di un fantasma e un ambiente occultato che a sua volta nasconde un misfatto sepolto.
Gli indizi sono tutti messi in tavola e a vista, senza trucchi; sono realtà e tempo ad alterarne la percezione, a renderli confusi ricordi che è sempre più arduo - e traumatico - ricercare/rievocare: la nenia infantile e i feticci (biglie e bamboline trafitte da aghi) esplorati in modo angoscioso dall'obiettivo snorkel della mdp e dai suoi movimenti sinuosi. L'azzardo di mostrare a inizio film il volto dell'assassino, sovrapposto a quelli deformi e grotteschi raffigurati su un quadro, che si riflette sulla superficie di uno specchio, è il definitivo scacco di Dario Argento per assoggettare lo spettatore alla logica dello sguardo, ma soprattutto al "suo" sguardo.
Infine, benché il discorso sia piuttosto ampio e complesso (l'uso della musica in Argento meriterebbe una dissertazione a parte), è doveroso aggiungere una postilla inerente la colonna sonora, poiché si tratta di uno dei lavori più importanti - e di successo - della storia del cinema mondiale. Accantonata, infatti, la collaborazione con Morricone e insoddisfatto della proposta di Giorgio Gaslini, già al lavoro su La porta sul buio e Le cinque giornate e che comunque scrive gran parte delle melodie per Profondo rosso, il regista trova nel giovane e sconosciuto gruppo di stampo progressive-rock dei Goblin l'esatta chiave per ottenere una musica capace di essere essa stessa istanza narrante e completare le immagini della pellicola. Ed è così che suoni reiterati e frasi ossessive diventano un tutt'uno con la rappresentazione di un'ambientazione ambigua e funzionale alla dimensione da incubo della vicenda: passeggiate notturne all'interno di edifici conturbanti, un pupazzo che sbuca fuori dal nulla per aggredire e occhi penetranti che si spalancano improvvisamente nell'oscurità.
L'immagine del volto affranto e sconvolto di David Hemmings, che si riflette sulla superficie di una pozza di sangue durante i titoli di coda del film, rappresenta (in realtà) la profonda immersione alla quale Dario Argento ci ha costretti. Il cineasta condensa l'esperienza maturata coi primi tre thriller in un prodotto che viene considerato ancora oggi il suo capolavoro e sicuramente quello più popolare, almeno in Italia.

Viaggio nel puro orrore 

suspiria1Dopo Profondo Rosso Dario Argento è pronto ad affrontare un nuovo percorso, grazie anche al connubio artistico con Daria Nicolodi, instauratosi proprio nel precedente film, intraprendendo un viaggio claustrofobico all'interno di una dimensione di orrore puro, libera, finalmente, da qualsiasi vincolo raziocinante.

Suspiria (1977) è un incubo pregno di intense sensazioni di terrore e minaccia dalla prima sino all'ultima sequenza. La magica e inquietante atmosfera creata dai tre colori (rosso, blu e verde) che dominano la pellicola si accorda al tema esoterico sviluppato dalla trama ed estremizza/esaspera ogni situazione secondo classici canoni espressionisti. Una favola nera e sanguinaria che si consuma all'interno di un edificio che appare maleficamente vivido e portatore di terribili e mortali presagi. I sinuosi e avvolgenti movimenti della mdp penetrano e catturano ogni singolo ambiente dell'accademia di danza protagonista della storia e del palazzo che "anima" il primo, duplice, omicidio, disegnando una perfetta geometria di orrore perturbante.
L'arrivo di Susy a Friburgo proietta subito in una terrificante dimensione onirica che costituisce un attacco completo ai sensi dello spettatore, il quale si ritrova travolto da surreali luci colorate che si riflettono sui volti dei personaggi e da elementi naturali scatenati in una furia inarrestabile (il temporale, i tuoni, le raffiche di vento, le cascate) i cui rumori si confondono e integrano con l'ineguagliabile commento sonoro dei Goblin, rilevando la valenza simbolica del tutto. E si prosegue con un atroce e "dilatato" omicidio che rappresenta il nuovo corso dell'estetica argentiana in tale materia: la sequenza della morte di Pat è anticipata da un'estenuante attesa nervosa - e psichica - che sfocia in una magniloquente architettura di annientamento.

Inferno (1980) continua il discorso e, anche se non offre lo stesso tema stregonesco, spingendo il piede dell'acceleratore sui misteri della dottrina alchemica, si pone come una sorta di fratello gemello. Meno riuscito, rispetto al precedente, per ciò che concerne la struttura della trama, la quale crea un microcosmo con vari personaggi (apparendo dispersiva per via di autonomi segmenti che costruiscono la vicenda), e la resa della tensione nervosa, ma altrettanto affascinante sotto l'aspetto onirico e simbolico.
La mdp di Dario Argento si ritrova a esplorare nuovamente ambienti perturbanti capaci di alterare la percezione del reale; e a percorrere lunghi corridoi costeggiati da finestre mortifere e resi particolarmente lugubri da tende svolazzanti. Ancora una volta tali scenografie sono trasfigurate da luci colorate di stampo espressionista: primeggiano il giallo, il rosa e tonalità tendenti al fucsia, oltre al verde. Le similitudini e la continuità tra le due pellicole è, poi, resa palese dalla sequenza del taxi che accompagna Sara in biblioteca, mentre la lettura delle pagine del libro che sostiene il principio della storia fa riferimento alla dimora di Mater Suspiriorum, edificata a Friburgo.
Per Inferno è doveroso aggiungere qualche altra nota: l'assenza dei Goblin, con le musiche affidate a Keith Emerson: la band di Claudio Simonetti & soci in due soli film ha impresso un marchio indelebile sul lavoro di Dario Argento e il regista, vuoi per presunzione, vuoi per coraggio (il coraggio di volersi distaccare da un connubio "pericoloso"), opta per una soluzione diversa. Daria Nicolodi, stavolta non accreditata, contribuisce in modo determinante alla scrittura del soggetto. Il film denota l'inizio di certi giochi autoreferenziali e costituisce una sorta di tributo a Mario Bava (nella circostanza, vedere soprattutto pellicole come "Operazione Paura" e "Gli orrori del castello di Norimberga"): fino a che punto possono essere considerati un caso il lavoro - benché non accreditato - dello stesso Bava come realizzatore degli effetti speciali, in collaborazione con il fido Germano Natali, e la presenza del figlio Lamberto in qualità di aiuto alla regia?

Se Suspiria apre nuovi orizzonti, Inferno li estremizza: l'incendio che conclude il primo è catartico, mentre quello del secondo sprigiona male puro; si è solo sconvolti per ciò che è stato scoperto e dissepolto. Il tutto passando per segni esoterici e i percorsi alchemici tracciati da Fulcanelli.
Questo dittico (che si completa in trilogia soltanto nel 2007), inoltre, proietta lo stesso Dario Argento in una dimensione altra: Suspiria spopola negli Usa e in Giappone, contendendo il ruolo di capolavoro a Profondo Rosso, mentre Inferno, pur risultando un gradino inferiore al suo gemello, resta uno dei successi più importanti e apprezzati all'interno della filmografia dell'autore.

Anni d'Argento - L'apice del successo 

phenomena_2Gli anni 80 costituiscono il periodo più intenso e soddisfacente, ma al tempo stesso difficile, dell'attività di Dario Argento. Intenso e soddisfacente perché realizza tre film (escluso Inferno) che riscuotono un grande successo, proseguendo l'ascesa commerciale dei suoi lavori, e collabora con George Romero per una pellicola divisa in due episodi, si dedica all'attività di produttore con l'intento di supportare/lanciare l'attività registica di Lamberto Bava e Michele Soavi (già suoi fidati collaboratori), torna in televisione per la trasmissione "Giallo" condotta da Enzo Tortora, all'interno della quale propone una serie di cortometraggi denominata "Gli incubi di Dario Argento", si concede alla pubblicità per uno spot della Fiat che gli consente di sperimentare nuove tecnologie, compie un'incursione nel mondo dei videoclip per il brano "Phenomena" di Claudio Simonetti e si occupa persino della regia di una sfilata di moda per Trussardi. Gli anni 80, tuttavia, sono anche un periodo difficile dal punto di vista della vita privata e di scontri con la censura, senza tralasciare il licenziamento per la regia del "Rigoletto" di Verdi nell'ambito della stagione operistica dello Sferisterio di Macerata, a causa delle eccessive modifiche apportate all'opera in questione: il Duca di Mantova che diventa un vampiro.

Con Tenebre (1982) Dario Argento "volta pagina" col recente passato: basti pensare alla scena iniziale in cui la voce narrante - quella dello stesso Argento - legge alcuni passi del libro "Tenebre", prima di dare il testo in pasto alle fiamme. Con un incendio si spegne Inferno e la protagonista malefica del film è la "Madre delle Tenebre". Inoltre, la sequenza successiva, dopo i titoli di testa, vede l'autore del romanzo trasferirsi da New York (ambientazione principale di Inferno) a Roma ed è facile tradurre tale incipit nella dichiarazione d'intento del regista. Ma Argento va ben oltre, trasformando il gioco in qualcosa di eccessivo e complesso, abbandonando la costruzione classica del giallo e dedicandosi a delitti efferati quasi privi delle attese e della suspense alle quali ha abituato lo spettatore con la voglia di stupire che regna sovrana: le riprese con la steadycam e lo straordinario piano sequenza, realizzato grazie a una particolare gru denominata Louma, che va a esplorare la facciata e gli ambienti dell'abitazione delle due lesbiche, fino a insinuarsi persino sul tetto. Aggiungiamo un doppio assassino e un doppio finale (l'indelebile immagine di Giuliano Gemma alle cui spalle si cela la figura di Anthony Franciosa), oltre al perfetto contrasto tra il titolo della pellicola e il mondo in cui si svolge la storia che è avvolto da una luce abbagliante, tanto intensa da essere quasi asettica, e il quadro è completo.

Se Tenebre rappresenta una sorta di rottura col passato e l'inesauribile voglia dell'autore di giocare col suo pubblico e di prendersi gioco della critica, Phenomena (1985) costituisce un vero e proprio spartiacque: Dario Argento riprende diversi spunti narrativi di Suspiria per elaborare - questa volta - una favola in piena regola. Jennifer, la protagonista, interpretata da un'ottima Jennifer Connelly, è una fanciulla diafana che simboleggia innocenza allo stato puro, coadiuvata da una simpatica e infallibile scimpanzé e da particolarissimi amici coi quali è in grado di comunicare in maniera privilegiata, ossia gli insetti, solitamente utilizzati, invece, come elemento di disturbo e shock. E anche se l'antagonista non è una "vera" strega, Mrs. Bruckner, una fredda e malvagia Daria Nicolodi, è una figura perfettamente assimilabile a tale ruolo (la pillola avvelenata che consegna a Jennifer). Inoltre, non manca la presenza di un mostro deforme, benché si tratti prima di tutto di una vittima. La lugubre e inquietante e notturna Foresta Nera tedesca viene sostituita da una lussureggiante e verde vallata svizzera, catturata in pieno giorno, dove si svolge una straordinaria sequenza d'apertura che può essere considerata analoga a quella di Suspiria. L'atmosfera, in tutta la sua connotazione naturalistica, rende comunque l'idea di un episodio onirico e perturbante: Fiore Argento resta isolata dalla comitiva turistica cui appartiene, la quale si allontana in pullman, ed è avvolta e scossa da un temibile vento che soffia forte, mentre la mdp si erge altissima al di sopra degli alberi per mostrare l'idilliaca vallata che in realtà, ovviamente, è un territorio minaccioso.

Il successivo Opera (1987) segue il percorso intrapreso coi due film precedenti per via di un ritmo serrato, sostenuto, così come accaduto per la prima volta in Phenomena, da canzoni non originali che sono veloci e potenti heavy-metal, e di omicidi spettacolari (vedi scena della morte di Daria Nicolodi). L'occhio è al centro dell'attenzione a partire dalla sequenza iniziale, la quale ci mostra il nero sguardo di un corvo di scena e la soggettiva del soprano che abbandona il teatro. Incontriamo poi occhi confusi, offuscati dal liquido di un collirio, e occhi che osservano da spioncini e condotti d'areazione; gli occhi sbarrati della scioccata protagonista, testimone - oculare, suo malgrado - degli efferati omicidi, fino all'occhio dell'assassino mangiato da un corvo.
Film dispendioso e difficile, ambientato quasi tutto all'interno del teatro Regio di Parma, Opera trova il suo apice nella complessa sequenza della soggettiva dei corvi liberati all'improvviso per scovare il serial killer. Realizzata tramite un imponente braccio meccanico rotante agganciato a una gru che si cala dal soffitto del teatro per via di un comando a distanza (la troupe è fuori del teatro e segue le operazioni dall'esterno), la scena in questione resta tra le più costose effettuate da Dario Argento, nonché una delle sue trovate tecniche più apprezzate di sempre. E anch'essa pone l'accento sull'importanza dello sguardo e su un improbabile punto di vista: quello dei corvi.

Dopo lo stress e la fatica accumulati con un progetto tanto impegnativo, il cineasta romano si rifugia in America per rigenerarsi e trovare nuovi stimoli. Nasce così un riuscito omaggio a un autore letterario tra i suoi preferiti, ossia Edgar Allan Poe. Argento si ritrova al fianco dell'amico George Romero per Due occhi diabolici (1990), film diviso in due episodi, e traspone il racconto "Il gatto nero", coadiuvato da assistenti con i quali lavora per la prima volta e collaborando in maniera proficua con un attore di un certo spessore quale è Harvey Keitel. Nella storia è di fondamentale importanza il contrasto che s'instaura tra la coppia protagonista, che sottende l'atmosfera di orrorifica e ambigua minaccia della narrazione e dell'ambientazione: l'eterea e delicata Annabelle e il rude e perverso compagno Usher. Tra i due si pone il famigerato gatto nero che diventa presagio di morte e "mezzo" per la condanna del malvagio fotografo. Ancora una volta ossessioni di una mente omicida che cerca di rimuovere la crudeltà delle sue folli gesta (la parete eretta per nascondere il cadavere della vittima) e il tormento di un subconscio pronto a emergere in qualsiasi momento: la sequenza onirica della notte delle streghe che anticipa l'epilogo della vicenda.
Vale la pena sottolineare, inoltre, che a inizio film si espleta un'ulteriore omaggio nell'omaggio: il riferimento è "Il pozzo e il pendolo" (1961) di Roger Corman, anch'esso tratto da un racconto di Poe. L'esperienza è un vero toccasana che consente a Dario Argento di guardare al futuro con ritrovati entusiasmo e ottimismo.

Argento factory

argento_romeroPrima di proseguire, riteniamo necessario aprire una breve parentesi circa l'attività di Dario Argento in qualità di produttore. Infatti ci troviamo, prima di tutto, di fronte a un autore dalla forte personalità e dalle idee chiarissime, il quale, inevitabilmente, tende a imprimere il proprio marchio anche in maniera indiretta; e non è un caso che ancora oggi il suo nome pesi come un macigno su film quali Zombi, Demoni e La chiesa. Proprio il suo debutto in questa veste, nel 1978 per la pellicola di Romero (nota negli Usa come "Dawn Of The Dead"), diventa un esempio eclatante: Argento non si limita a collaborare alla sceneggiatura e a spendere il suo nome sulla locandina come garanzia, ma incide sul montaggio e sulle musiche, per le quali chiama in causa i fidatissimi e collaudati Goblin, scegliendo anche un altro titolo per il prodotto europeo che è - appunto - Zombi.
Alla fine la versione del cineasta romano risulta più snella ed efficace, grazie anche alle atmosfere rese dall'ottimo commento sonoro, rispetto a quella americana di Romero, connotata da un montaggio dal ritmo più lento e priva di gran parte delle musiche dei Goblin, così da rendere disomogenea anche la soundtrack.

Attraverso la produzione Argento cerca/trova anche una via per dare sfogo alla sua indole più squisitamente horror che, per un motivo o per l'altro, non può espletare nei suoi film. E avvalendosi del proprio entourage dà vita a metà anni 80 a un progetto che sembra voler creare una sorta di scena italiana horror da lui guidata. È così che vengono fuori in rapida successione nel 1985 e nel 1986 Demoni (all'interno del quale non perde occasione di rendere omaggio in maniera efficace a "La maschera del demonio") e Demoni 2, affidati a Lamberto Bava; film che riscontrano un grande successo e che dovrebbero condurre a un terzo capitolo della serie.

Tuttavia, quando il regista torna al ruolo di produttore nel 1989, Lamberto Bava non è disponibile e comincia un nuovo filone con Michele Soavi, altro ex-collaboratore e aiuto-regia di Argento, abbandonando i demoni e concentrandosi su atmosfere più dilatate ed esoteriche, con La chiesa e il successivo La setta (1991), tanto che quest'ultimo nasce addirittura con l'ideale intento di concludere la trilogia inaugurata da Suspiria e Inferno.
Per La chiesa il successo commerciale ancora arride ai Nostri, ma La setta è decisamente sfortunato sotto questo punto di vista, nonostante sia una pellicola particolarmente amata sia da Soavi che da Argento.

Bisogna aspettare il 1997 per vedere un nuovo film prodotto da Dario Argento e si tratta di un grande classico, ossia M.D.C. - Maschera di cera. Il progetto vede la luce per la voglia di Dario di appianare vecchie divergenze con Lucio Fulci e di rilanciare quest'ultimo alla regia. Purtroppo, però, Fulci viene a mancare all'inizio del 1996, poco prima che comincino le riprese. A questo punto si decide di portare comunque avanti il lavoro ed è la volta del debutto di Sergio Stivaletti, creatore di effetti speciali e anch'egli al fianco di Argento da anni, nella veste di regista (sia Bava che Soavi non erano disponibili). Film in costume, ambientato all'inizio del 1900, che rende anche omaggio ai primi e tanto amati horror della Hammer di fine anni Cinquanta, non riscuote successo e resta, probabilmente, sottovalutato ancora oggi. Vale la pena sottolineare che di lì a poco (nel 1998) Dario Argento avrebbe portato sul grande schermo un altro classico ambientato sul finire del 1800, ossia Il fantasma dell'opera.

Passa qualche altro anno e viene fuori "Scarlet diva" (2000), per il debutto registico di Asia Argento. Con questo film, scritto interamente dalla figlia e imperniato essenzialmente su atmosfere e situazioni grottesche, tuttavia, il cineasta romano interrompe quel percorso che sembrava rendere l'idea di una factory argentiana di prodotti di genere. Inoltre, il suo ruolo, stavolta, è assolutamente "esterno": non collabora (almeno ufficialmente) ad alcuna scelta artistica. C'è solo da sottolineare che nel cast tecnico figurano alcuni soliti nomi: Sergio Stivaletti per gli effetti visivi, Anna Napoli, già al montaggio per Il fantasma dell'opera, e Frederic Fasano, che in seguito si occuperà della fotografia dei più recenti prodotti di Dario Argento.

Un nuovo Argento

sindromedistendhalOpera conclude la fase più prolifica e fortunata della carriera di Dario Argento ed è come se, in un certo senso, "svuotasse" l'autore, tant'è che bisogna attendere circa sei anni per vedere un nuovo film interamente argentiano (in mezzo c'è solo la parentesi episodica de "Il gatto nero").
Per Trauma (1993) Argento resta in America per offrire un compendio dei tratti stilistici del suo lavoro a un pubblico che lo apprezza tanto, ma che non conosce bene la sua filmografia. Questo film può essere considerato una sorta di remake di Profondo rosso (la madre assassina, la scena iniziale della seduta spiritica, il particolare rivelatore etc. - trauma = ferita e siamo sempre alla ricerca di un danno della psiche avvenuto nel passato), ma costituisce anche un vero e proprio punto della situazione per ricominciare daccapo, in totale libertà: la soggettiva dello svolazzare della farfalla. Il Maestro, infatti, presenta essenzialmente una storia d'amore, delicata e quasi disperata, tra due personaggi in qualche modo estranei al mondo che li circonda: un ex-tossicodipendente e una giovane affetta da anoressia. Ed è da sottolineare anche l'offerta di un tema decisamente avulso al contesto thriller-horror quale quello dell'anoressia, appunto. David (Christopher Rydell) giunge vicino a quell'autodistruzione dalla quale cerca di preservare Aura (Asia Argento - al suo primo film col padre) per tutta la durata della vicenda, quando, verso la fine, la ragazza pare essere riuscita a sottrarsi alle sue premure suicidandosi. La scena, sostenuta dalla splendida e liquida canzone originale "Ruby Rain" di Pino Donaggio e cantata da Laura Evans, in cui il protagonista s'immerge nelle acque del lago per cercare la compagna, avvolto in una cornice di algida luce che sembra disegnare un cuore bluastro privo di vita, e una successiva sequenza in cui, ormai tornato a essere un drogato, rievoca l'immagine della scomparsa, osservando il dipinto "Ofelia" di Millais, costituiscono i momenti più riusciti di tale condizione di (di)struggimento.

Il successivo La sindrome di Stendhal (1996), che pure - originariamente - doveva essere prodotto negli Usa, segna il ritorno in Italia di Dario Argento e rappresenta quello che a oggi si può ritenere il suo ultimo film  tra i più interessanti e riusciti, nonostante la seconda parte della storia si rifugi in un'atmosfera da thriller-noir psicologico più controllata e scontata, che accentua la connotazione dicotomica della narrazione, senza - però - mantenere costante il livello dell'insieme.
L'autore romano mette in scena il tema del doppio senza soffermarsi tanto sul concetto di dicotomia come gioco di opposti, ma offrendo un'ambigua relazione vittima/carnefice che si espleta tramite un efficace sovrapporsi di immagini e personaggi. Nessun enigma da svelare poco a poco, nessun misterioso assassino ad agire nell'ombra (il biondo e statuario Alfredo viene quasi immediatamente identificato quale perverso e malvagio antagonista) e una protagonista femminile (di nuovo Asia Argento) che passa attraverso delle "mutazioni" fisiche (dapprima fragile e delicata, poi mascolina e, infine, bionda e sensuale) e la straordinaria capacità di "entrare" nelle opere d'arte che osserva, poiché affetta dal malore che dà il titolo alla pellicola; la sindrome di Stendhal, appunto.
Tra i quadri esposti nella galleria degli Uffizi di Firenze si scatena, naturalmente, la visionarietà di Argento. Con la "Testa di Medusa" del Caravaggio non manca il gioco autoreferenziale: la testa mozzata non può non far pensare alla prima vittima - con tanto di treccine che richiamano in qualche modo i serpenti che formano la capigliatura della mitologica creatura - del precedente Trauma. Mentre il tuffo ne "Il volo di Icaro" di Bruegel, che avviene subito dopo la prima apparizione di Alfredo, sprofonda lo spettatore in una dimensione di terribile presagio, la quale preannuncia il violento dramma della vicenda che sta per dispiegarsi, attraverso il bacio tra la mostruosa cernia dalle fattezze vagamente umane e la ragazza. Anna è letteralmente sovrastata e assorbita da Alfredo: dopo il primo incontro tra i due, i loro volti sono accostati dal riflesso sul vetro di un taxi e si ritrovano affiancati poco più avanti, di nuovo riflessi su un vetro, dinnanzi a "La ronda di notte" di Rembrandt. Il "David" di Donatello, inquadrato dal basso verso l'alto, rappresenta una minaccia penetrante, una figura ricorrente fino alla fine, che si trasforma in un diavolo dall'enorme fallo infuocato: il murale che si anima quando Anna viene stuprata per la seconda volta. E il punto di congiunzione ideale tra Anna e Alfredo, tra vittima e carnefice, tra poliziotto e criminale, è proprio l'ultimo confronto, in cui il malvagio antagonista perde la vita: l'acqua della cascata dove viene gettato il corpo dilaniato non si rivela affatto purificatrice e l'immersione di un personaggio nell'altro è completata.
Vi è, inoltre, un ultimo aspetto che si evidenzia dopo la visione del film: La sindrome di Stendahl, infatti, è il prodotto argentiano che più si avvicina a certi elementi ricorrenti nel cinema di Alfred Hitchcock: pensiamo alla parrucca bionda di Anna e alla sua personalità schizofrenica, alla penombra che ne "frammenta" i contorni del viso, alle "misteriose" scale e - più in generale - a tutto il gioco di immagini speculari e susseguente tema del doppio. E riteniamo importante notarlo, poiché il Dario Argento di inizio carriera è sempre accostato al lavoro del "maestro del brivido". Ma nei primi thriller, in realtà, al di là di qualche omaggio più o meno esplicito ne L'uccello dalle piume di cristallo e ne Il gatto a nove code (la "scomparsa" del killer alla riunione degli ex-pugili - "Intrigo internazionale" - e il latte avvelenato - "Il sospetto"), oltre alla presenza di una bionda e di una bruna (Mimsy Farmer e Francine Racette) in 4 mosche di velluto grigio, e al rimando che si può avere tra la Clara Calamai di Profondo rosso e la Marion Lorne di "Delitto per delitto", tale comparazione è - almeno all'epoca lo è sicuramente stata - soltanto di natura pubblicitaria.
Questi riferimenti, che ritroviamo anche più avanti negli anni (l'omicidio di John Saxon in Tenebre può far pensare ancora una volta a "Intrigo internazionale", così come i corvi di Opera lasciano affiorare le immagini de "Gli uccelli", mentre in Due occhi diabolici avviene un vero e proprio rifacimento della scena dell'omicidio del detective Arbogaste, tratta da "Psycho"), infatti, soddisfano essenzialmente il piacere dello spettatore cinefilo e non permettono di riscontrare vere analogie tra il cinema argentiano e quello hitchcokiano. Ciò non toglie, comunque, che Hitchcock sia uno dei registi più importanti per Argento, che gli renderà un tributo "dichiarato" qualche anno più tardi.

Dario Argento conclude gli anni Novanta con un'altra impegnativa produzione che in qualche modo lo distanzia dai connotati che hanno reso tanto celebri i suoi film: l'ambizioso e rischioso progetto di proporre un ennesimo adattamento del celebre romanzo di Leroux "Il fantasma dell'opera". Ambientato quasi esclusivamente all'interno di un teatro e tra i cunicoli dei sotterranei di un castello e di grotte naturali, in una Parigi di fine Ottocento, Il fantasma dell'opera (1998) proposto da Argento pone le sue basi sul netto contrasto tra sottosuolo e superficie, creando una netta divisione tra due mondi, quello delle tenebre e quello della luce, che rappresenta una sorta di filo conduttore col precedente La sindrome di Stendhal, che pure manifesta un forte discorso dicotomico.
Per la prima volta il personaggio del fantasma non ha il volto deforme ed è un uomo dal portamento elegante che appare affascinante, nonostante viva isolato nei meandri delle innumerevoli gallerie che si dipanano in profondità lungo i quattro piani sotterranei del teatro, in simbiosi con i topi che gli hanno salvato la vita quando era ancora un neonato: emblematica, in tal senso, la scena in cui Julian Sands è ricoperto da tali animali in un reciproco (e aberrante? - il punto interrogativo è d'obbligo, poiché un punto di forza del film è proprio l'ambiguo ruolo di questo fantasma) scambio affettuoso.
La controparte di Julian Sands è Asia Argento, una cantante che appare come unico personaggio puro - e in un certo senso anche ingenuo - del mondo della superficie, la quale, soltanto nel momento in cui si rende conto dell'oscura natura del fantasma, sembra tornare in sé e cercare la libertà della luce contro la prigionia delle tenebre. In realtà è lo stesso Julian Sands a "spingere" la ragazza verso la salvezza, in un finale che, per certi aspetti assimilabile a quello di Inferno, è privo di una vera catarsi.
L'universo fantastico della storia, tuttavia, non è assecondato nel migliore dei modi da Dario Argento, il quale non riesce a imprimere un percorso univoco alla narrazione; a tratti si sofferma su elementi horror che, non costituendo le parti portanti della struttura, sono fuorvianti, mentre lascia affiorare qualche momento di visioni oniriche non approfondite che in ogni caso rimandano al parallelo Inferno/Paradiso, così come risulta non curata e, pertanto dispersiva e non efficacemente straniante, la capacità di comunicazione telepatica del fantasma.
Complessivamente, ci si ritrova di fronte a un prodotto ben confezionato, esaltato dalla crepuscolare fotografia di Ronnie Taylor, già al lavoro su Opera, che sottolinea i fondamentali colori della terra, il giallo e il marrone che costituiscono l'humus dei cunicoli sotterranei che dominano la scena, ma incapace di cogliere realmente nel segno.

Il ritorno di Dario Argento

brodyargentogialloDario Argento si proietta nel nuovo millennio in modo piuttosto simile a quello di inizio anni Novanta. Se Trauma serve a tirare un po' le somme e a tentare di aprirsi in maniera conscia a un nuovo mercato, quello statunitense, nel 2000 il cineasta romano è oggetto di rivalutazione critica e di riconoscimenti in giro per il mondo, per cui il nuovo film lo vede ripercorrere la strada del "classico" giallo che tanto celebre ha reso il suo nome.
È tempo di scrollarsi di dosso le fatiche accumulate in seguito alla realizzazione degli ultimi due ambiziosi e complessi, quanto non completamente riusciti, progetti (La sindrome di Stendhal e Il fantasma dell'opera) e di accontentare nuove schiere di giovani adepti che invocano a gran voce il ritorno del Maestro.

Nonhosonno (2001) rappresenta, pertanto, prima di tutto, un film che l'autore si diverte a realizzare, infarcito di una lunga serie di elementi (il pupazzo, i nani, il teatro, la villa misteriosa, il trauma che nasce dall'infanzia e dall'ambiente familiare etc.) che contraddistinguono l'immaginario del regista (persino l'impresa di ricomporre la formazione originale dei Goblin per le musiche), ma anche (e soprattutto) un vero e proprio gioco nel gioco che mette in scena la crescita e l'evoluzione dei personaggi e del mondo argentiano di un tempo. È interessante notare, infatti, come Gabriele Lavia sia chiamato in causa per interpretare il ruolo di un padre che alleva e protegge un folle figlio omicida.
Il film è penalizzato da alcune soluzioni di sceneggiatura davvero semplicistiche, da una trama in generale non brillante, da alcuni stacchi di montaggio approssimativi e da uno scialbo doppiaggio. Tuttavia, Argento se ne disinteressa e il suo cinema comincia a vivere di sprazzi e di singoli segmenti che possono essere definiti - o apparire come - autonomi, in grado di valere, da soli, il prezzo del biglietto per deliziare il pubblico: la lunga e lenta carrellata sul tappeto rosso che culmina con la scoperta di un omicidio che si svolge, sostanzialmente, fuori campo e che si conclude con la testa recisa dal corpo della vittima, la quale finisce sul pavimento, diventando il soggetto dell'inquadratura; la lunga - oltre 15 minuti - sequenza iniziale da vivere in totale apnea, così come vuole la pronuncia del titolo del film - senza pause, né spazi - che rappresenta un saggio di tensione e suspense e di molteplicità di sguardi in puro stile Argento: le soggettive di preda e inseguitore e le riprese dall'esterno, che catturano le scene di caccia incastonate nei finestrini del treno in corsa.

Il successivo Il cartaio (2004) volta pagina. Un thriller teso e serrato, praticamente privo di sangue e omicidi, dove l'interesse nello scoprire chi è l'assassino è irrilevante, che risulta, per quanto possa sembrare facilmente "brutto", decisamente più interessante del suo precedente. In questo film ciò che veramente conta è l'asettica e livida atmosfera che ci restituisce la scena dell'obitorio, nella quale viene esaminato il cadavere della prima vittima. Ed è soltanto con freddi cadaveri - giusto per ratificare il concetto - che lo spettatore avrà a che fare: gli omicidi sono già avvenuti, oppure restano fuori campo, pur racchiusi nello stretto riquadro di una videochat. Il nuovo mondo della comunicazione (internet e telefonia mobile e sms) contribuisce a rafforzare la generale sensazione di solitudine sociale e - soprattutto - di intrusione nella sfera della privacy dell'individuo (la relazione Anna-Carlo-John), contrappuntata da una buona dose d'ironia che si espleta per via dei bizzarri personaggi del dottore danzante e cantante e dello "sgargiante" Alvaro, gestore di una sala giochi. La sequenza in cui Stefania Rocca viene aggredita in casa costituisce un altro saggio di pura suspense e rappresenta il "jolly" della pellicola: questo lungo segmento, architettato e strutturato in modo geometricamente perfetto, con attimi di attesa calibrati al centesimo di secondo, movimenti che appaiono sinuosi e combinati, quasi rendendo l'idea di una danza tra Anna e il suo aggressore, e stacchi sonori minimali che assecondano, impreziosendo, puntuali, il tutto, ottiene una resa incredibile, sfruttando pochi basilari elementi, senza l'apporto di effetti speciali, oppure - peggio ancora - di subdole improvvise enfatizzazioni sonore/rumoristiche.

Dopo Il cartaio Dario Argento torna nel mondo della televisione per due progetti ben distinti tra loro. Il primo è Ti piace Hitchcock? (2005) e rappresenta un'esperienza particolarmente frustrante: modesto, ma riuscito episodio pilota (inquadrandolo nell'ottica di prodotto televisivo italiano) di una serie che non vedrà mai la luce: la Rai lo trasmette soltanto nel 2007 e in seguito alla sua distribuzione in Dvd. Questo piccolo film consente al regista - se non altro -  di rendere omaggio al grande Alfred Hitchcock in modo esplicito.
A questo punto l'America diventa nuovamente meta ideale di rifugio, luogo dove poter ritrovare stimoli e libertà espressiva. Tra il 2005 e il 2006, in più o meno rapida successione, Dario Argento realizza due episodi - tra i più apprezzati - per le due stagioni della fortunata serie "Masters Of Horror". Con Jenifer - Istinto assassino e Pelts - Istinto animale l'autore mette in scena impulsi primordiali fatti di carne e sangue, di sesso e desiderio, elementi che costituiscono anche il nutrimento fondamentale per la sopravvivenza, per un'esistenza sempre più animalesca e selvaggia, che mettono a nudo - letteralmente - l'avida e insana natura umana, sprigionando una ferocia insolita e uno splatter "realista", senza concedere spazio a un certo gusto barocco e "giocoso" decisamente più vicino al suo stile.

La terza madre (2007) segna il ritorno al grande schermo e prosegue, in un certo senso, il discorso intrapreso con i recenti prodotti televisivi americani. Un film folle ed eccessivo, volutamente imperfetto - e impertinente - che restituisce l'immagine di un (ir)reale mondo in stato di irrimediabile decadenza; la seconda caduta di Roma. Attraverso una storia che si pone l'intento di chiudere la trilogia de "Le tre madri", il regista dispiega tutti i mezzi a sua disposizione per realizzare un gioco di rimandi autoreferenziali a esclusivo uso del suo pubblico.
Dario Argento torna a graffiare irriverente, si riappropria di un volto ribelle e poco importa che i più vi vedranno una deriva trash. Con questo film travalica gli argini (la mdp che nella scena iniziale scavalca il cancello di un cimitero), proprio come accadde con Suspiria e Inferno coi quali affrontò l'orrore puro, e sprigiona una liberatoria fragorosa risata finale, ma anche lo sberleffo di un'improvvisa apparizione demoniaca al risveglio della protagonista, consapevole di un talento che - quando vuole - è sempre in grado di stupire senza trucchi e senza inganni: l'ammirevole piano sequenza della durata di cinque minuti e qualche secondo in cui Asia esplora la dimora di Mater Lacrimarum.

In questo periodo il cineasta romano si occupa anche della supervisione artistica del Musical di Profondo rosso scritto da Claudio Simonetti (ex-Goblin e sempre al fianco di Argento), prima di cominciare il lavoro per un nuovo film, che si presume debba seguire la scia horror e surreale del precedente. Ma si tratta, invece, di un prodotto maledetto, afflitto da problemi legati alla produzione e alla distribuzione, girato a metà del 2008 e che giunge in Italia soltanto nel 2010 direttamente per il mercato Home Video.

Giallo (2009) è assimilabile a un "buon" prodotto televisivo, a un episodio di una qualsiasi fiction poliziesca di richiamo; è questa l'inevitabile e sgradevole sensazione che se ne ricava quasi immediatamente e alla quale è impossibile sfuggire. Del resto la giovane - e pressoché debuttante - coppia di sceneggiatori Jim Agnew/Sean Keller è avvezza al lavoro per il piccolo schermo. Può tranquillamente essere considerato il peggior film di Dario Argento (paradossalmente, è un bene che sia finito direttamente in Dvd) e non vanta alcun guizzo creativo, nessuna intuizione visiva degna di nota, tanto da lasciare perplesso anche l'appassionato argentiano sfegatato.

Ritorno al gotico, con Dracula 3D 
Lo abbiamo dato per finito molte volte, lo abbiamo catalogato con tanti aggettivi, tutti presi dallo stesso registro: bollito, andato, impigrito, svanito, dimenticato. Abbiamo anche cominciato a chiederci se quella di un tempo fosse stata vera gloria, oppure se non fosse stato più il caso, il furore giovanile, il vero protagonista capace di pensare e creare opere dall'incommensurabile valore. Ma ci eravamo sbagliati: Dario Argento è vivo e lotta ancora insieme a noi. Il genio di "Suspiria" e "Profondo rosso" rispolvera alcune (purtroppo non tutte) delle sue qualità inimitabili e sorprende tutti con questa la sua versione del Dracula di Bram Stoker in salsa kitsch. A Cannes, quando il cineasta italiano aveva avuto l'onore (in ritardo sui tempi) di essere ricevuto per la presentazione in anteprima della sua ultima fatica, il pubblico lo aveva accolto con un'ovazione da stadio e gli applausi alla fine della proiezione erano stati decisi e calorosi.
Il Dracula argentiano che si trasforma nelle creature più diverse, originando effetti visivi tra l'assurdo e il trash, è un'ulteriore dimostrazione di un immaginario creativo che, forse, era davvero semplicemente dormiente e che necessitava di un soggetto adatto per ridestarsi. Tralasciando il senso della tecnica 3D, che non aggiunge o toglie nulla all'opera, vale la pena considerare una curiosa annotazione: nei suoi thriller metropolitani collocati nel presente, Argento si è perso drammaticamente. È quando ha deciso di rispolverare un testo classico, un'ambientazione puramente gotica, che la sua vocazione per il brivido ha di nuovo dato qualche segnale di vita.


(Contributo di Giancarlo Usai su "Dracula 3D")





Dario Argento