Ondacinema

Definita l'estetica artificiale degli anni Ottanta, l'autore di "Alien" e "Blade Runner" ha esplorato ogni genere cinematografico. Uniche costanti: la sfida estrema ai confini della condizione umana e il rapporto viscerale con la tecnologia

Se il realismo, l'adesione alla natura, l'autenticità sono i criteri in base ai quali giudicate il valore di un film, di fronte all'artificio e all'eccesso come paradigmi negativi, probabilmente questa lettura non fa per voi, così come il cinema di Ridley Scott. Quale scherzo del destino quindi, che a perorare la causa de I Duellanti per il premio alla migliore Opera Prima alla Mostra di Venezia del 1977 sia stato il maestro del Neorealismo Roberto Rossellini, giusto un anno prima di morire. Ma il regista inglese è sempre stato in grado di dividere pubblico e addetti ai lavori in modo feroce ed imprevedibile, basti citare l'intervista a John Carpenter (non certo un intellettuale snob quindi, ma praticamente un "collega", autore di pellicole fantastiche e di fantascienza) nella quale Scott veniva accusato di aver segnato la morte del cinema classico, avendo introdotto modalità e tecniche tipiche della pubblicità, dei videoclip, della televisione, nella settima arte. Ora che l'appellativo di "regista di videoclip", peraltro passato in disuso, non è più spregiativo, ma rappresenta quasi una nota di merito sul curriculum di registi esordienti, e mentre la rivoluzione digitale sta ridefinendo i termini stessi di cosa sia autentico, reale, al cinema, possiamo affermare che l'opera di Ridley Scott, qualunque giudizio se ne voglia dare, è essenziale per capire uno snodo fondamentale del rapporto tra cinema e tecnologia. Se questo avviene è proprio in virtù di uno straordinario talento visivo, allo stesso tempo colto e moderno.

Se l'opera di Scott viene considerata è in virtù dell'infinito credito guadagnato coi primi tre film, I Duellanti (1977), Alien (1979) e Blade Runner (1982), che basterebbero a conservargli un posto nella storia del cinema. Non bisogna però dimenticare che, pur essendosi perso nei meandri del mestiere del cinema di spettacolo, egli è anche riuscito in seguito a produrre opere che hanno segnato i decenni successivi: almeno Thelma e Louise per gli anni Novanta e Il Gladiatore per il Duemila.

I Duellanti, ovvero l'anti-Kubrick

Approdato al cinema relativamente tardi, dopo svariate produzioni come regista di telefilm per la BBC e di spot pubblicitari, Scott giunge al suo esordio come un cineasta già maturo e in grado di fornire il suo primo capolavoro. Tratto da un romanzo breve di Conrad, I Duellanti è un film storico, in costume, che ricostruisce la sfida mortale tra due ufficiali dell'esercito napoleonico attraverso gli anni, fino oltre la caduta dell'Imperatore.
Il film vive di una dicotomia forte, ovvero quella tra una ricostruzione d'ambiente curatissima ed elaborata e una trama del tutto estranea al cinema classico, anzi praticamente inesistente, giacché la storia si sviluppa attraverso la ripetizione ossessiva, nonostante le infinite variazioni, di infinite sequenze di duello. L'altra nota rimarchevole, che non dev'essere sfuggita a nessuno spettatore della mostra del Settantasette, è l'ardire di un regista esordiente nel proporre un film sull'epoca napoleonica a distanza di pochi anni da quel capolavoro assoluto che è "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick (che tra l'altro era giunto al soggetto tratto da Thackeray dopo aver scartato proprio un film su Napoleone).
Per di più Scott non si limita a un confronto a distanza ma riprende proprio l'aspetto più ossessivo della pellicola kubrickiana, ovvero l'utilizzo delle luci naturali al fine di ricostruire un apparato luministico simile a quello descritto dalla pittura dell'epoca (l'Epoca dei Lumi...), sfida titanica che Kubrick aveva risolto facendosi produrre una lente speciale per la macchina da presa, in grado di assorbire il più possibile l'atmosfera d'ambiente, senza far ricorso ai fari. Mentre gli esterni de I Duellanti, con qualche eccezione, sono poco significativi, le scene di interno riportano la maniacale ossessione per l'apparato luministico, creando quasi dei veri e propri tableux vivants. Ma se la fotografia di "Barry Lyndon" si rivela tanto cristallina quanto empiricamente spietata nell'indagare la natura secondo la mentalità illuminista di Kubrick, quella di Scott ottiene praticamente il risultato opposto, proponendo una dimensione onnicomprensiva della messa in scena, dove ogni canone naturalistico viene abolito, e il mondo viene letteralmente ricostruito sulla base di un elaboratissimo artificio.
La giustificazione intellettuale di tale procedimento risiede nel modello dell'alta pittura che ne sta alla base, così di fronte ai nostri occhi Scott fa rivivere le luci e le composizioni di Vermeer, De la Tour, David, creando un mondo che è più reale della Natura stessa. Tutto questo non è però al servizio di un colto citazionismo, ma è materia viva e partecipe della creazione spettacolare, così come i mille altri artifici messi in campo dal regista. Impressionanti sono le numerose scene dove i personaggi in primo piano si trovano quasi in controluce rispetto alla fonte luminosa che proviene dallo sfondo e produce fiotti accecanti durante una delle scene di duello, ambientata in una sala con arcate, oppure avvolge D'Hubert e la sua donna nella scena in cui dialogano a un bivio, dopo essersi rincontrati a distanza di anni.
Citazioni colte e senso dello spettacolo convivono in un modo che raramente ci è stato dato vedere al cinema, per cui anche le polemiche sull'uso ed abuso da parte di Scott di filtri per la macchina da presa sembrano perdersi tra le accuse di chi fa risalire tale pratica agli spot pubblicitari e la replica del regista che dice di riprenderla da Kurosawa: alto e basso convivono in modo assolutamente plausibile in un universo dove la superiorità della tecnica va al di là di qualsiasi giustificazione intellettuale.
Il montaggio segue lo stesso procedimento, passando dai ritmi classici di numerose sequenze al frammentarismo spezzato e spettacolare della scena del duello a cavallo, alla quale vengono inframmezzati rapidi fotogrammi in flashback, caricandola di ulteriore tensione dinamica. Insieme a questa, la sequenza più mirabile è quella del duello finale, ambientata in una rovina preromantica che ci rimanda alla pittura di paesaggio di fine Settecento e in particolare al maestro Kaspar Friedrich. Qui si svela appieno il nesso tra l'aspetto visuale e quello concettuale del racconto. Il motore del dramma è infatti la dicotomia tra il buonsenso pratico, borghese, di D'Hubert (simile a quello di Barry Lyndon) che ovviamente preferisce la vita all'assurda questione d'onore che il rivale trascina negli anni, e l'ossessivo codice che Feraud pone al di sopra di tutto, giungendo a inseguire la morte in ossequio a una coerenza (anche politica, per contro all'opportunismo dell'altro) semplicemente inumana.
Quale altro modo potrebbe trovare Scott per rendere visivamente un tale slancio titanico del suo eroe negativo se non ricorrere alla citazione visionaria di Kaspar Friedrich, il grande maestro della pittura romantica? Quando nel finale la sagoma di Feraud si erge scura, solitaria, contro lo spettacolo immenso della Natura che si stende sotto di lui, come faceva il "Viandante davanti a un mare di nebbia"del maestro tedesco, abbiamo un vero e proprio manifesto di un cinema che, romanticamente, propone uno scontro tra Uomo e Natura, una realtà al di là del dato sensibile del vedere.
Ma I Duellanti è anche un film di corpi impegnati in una ossessiva, violenta tensione fisica, tanto più inaudita perché non giustificata razionalmente (all'interno di un contesto, quello bellico, di violenza razionalizzata), sempre più brutale man mano che il film procede e l'aplomb di D'Hubert si sfalda, con l'aumentare di ferite e tagli sul suo corpo, che alla fine apparirà sciancato per il duello finale. Questa fisicità estrema sarà un leitmotiv di Ridley Scott e si protrarrà fino a un film lontanissimo da I Duellanti come Il Gladiatore.

Alien: nel ventre della bestia

Si può considerare Ridley Scott un Autore, alla stregua dei maestri europei? È lui stesso, in assoluta umiltà, a dirci di no, e questo vale sia quando si parla degli slanci sublimi nell'Arte de I Duellanti, sia quando si parla di un fanta-horror come Alien. La pratica di artigiano sviluppata precedentemente al suo passaggio al cinema gli ha tolto ogni pretesa di coerenza interna all'opera, per cui può passare tranquillamente dall'alto al basso, dalla Mostra di Venezia al cinema di cassetta, per giunta memore delle pellicole trash degli anni Cinquanta, quelle coi mostri e le fanciulle in pericolo. È nella tecnica che si registra la coerenza. L'ambito fantascientifico gli permette infatti di portare a compimento la sua ideologia del "total environment", proponendo un mondo interamente di fantasia, che egli fa vivere grazie allo sforzo sovrumano infuso nella messa in scena, trasferendo nella realtà l'immaginario essenzialmente pittorico dei suoi story-boards e degli artisti cui attinge.
Fondamentale per Alien è il contributo dell'artista e disegnatore H. R. Giger che contribuisce alla messa in scena di un mondo totalmente artificiale e claustrofobico (l'intero film si svolge negli interni di una nave spaziale), che è coinvolto in modo fondamentale nella creazione della tensione drammatica alla base della pellicola. Tutto questo è dichiarato fin da un inizio che ricorda notevolmente "2001: Odissea nello spazio" di, ancora una volta, Stanley Kubrick, con gli ambienti asettici e bianchi che si schiudono ad accogliere l'equipaggio della nave "Nostromo".
Quasi subito, però, lo scenario cambia in un modo sorprendente, perché i personaggi, decisamente più prosaici di quelli di Kubrick, più operai che astronauti, cominciano ad aggirarsi in recessi ben più oscuri della nave, che ne rappresentano sostanzialmente la zona "di servizio", quella che nell'utopia scientifica di "2001" non era mostrata. Proprio questo "dietro le quinte" dello spazio bianco e cerebrale dell'inizio, prenderà il sopravvento nel corso del film, trasformandosi in una sorta di "ventre della bestia"quando sarà chiaro che la nave stessa (dominata da un computer chiamato "mater") è ostile ai suoi occupanti, e che ospita e protegge un organismo alieno destinato a sterminare l'equipaggio umano.
Dallo slancio idealistico, mentale, di "2001" ci troviamo quindi in un incubo psicologico, svolto tutto nell'area nascosta, recondita, o per meglio dire inconscia, del corpo della madre tecnologica. Ma il capolavoro di Scott e Giger è la rappresentazione della nave aliena che l'equipaggio della Nostromo visita brevemente, venendone contaminato: un organismo che è un ibrido di materia inorganica e organica, con corridoi che sembrano budelli, viscere, abnormi costati e colonne vertebrali.
Alien è un film di fantascienza anomalo: quasi tutte le pellicole di questo genere invecchiano male proprio per la non verosimiglianza e l'approssimazione della messa in scena e dei costumi, ma da questo punto di vista il film si mantiene affascinante e anzi trova il proprio punto di forza. Quello che si rivela sconcertante è invece un elemento che i film più normali non mettono mai in dubbio, ovvero il comportamento del (della, nel nostro caso) protagonista.
Chi abbia già visto tutta la saga dei vari seguiti di Alien potrebbe restare basito, riguardando il capostipite girato da Scott, nel ritrovare l'eroina Ripley che, di fronte a una nave sul procinto di autodistruggersi, all'equipaggio dei suoi compagni sterminato, alla creatura che imperversa con foga omicida, invece di scappare torna indietro per cercare il suo gatto. Sembra ridicolo (un rischio di ogni narrazione antinaturalistica) ma Scott riesce a farci digerire persino questo perché ci ha immersi fin dall'inizio in un ambiente cupamente simbolico.
Tutto l'orrore del film nasce dalla parodia oscena della maternità con cui Giger e Scott hanno caratterizzato il ciclo di vita dell'organismo alieno, nonché dalla trasformazione dell'ambiente amniotico, accogliente, della nave-madre in ambiente ostile, di madre che uccide i suoi figli. Se il computer Hal si ribellava razionalmente al tentativo degli umani di sopprimerlo, la "Mater"di Alien è ostile, irrazionale, fin dall'inizio: rifiuta le informazioni a Ripley, combutta con l'ufficiale Ash che si rivelerà un androide e quindi un'estensione della stessa nave, rifiuta addirittura di bloccare il processo di autodistruzione quando Ripley glielo chiede: "equipaggio sacrificabile" è la formula di Mater che innesca il conflitto drammatico. Ripley è quindi un'eroina donna in lotta con un'immagine negativa della femminilità e della maternità, quella che Jung definiva la "Mater terribilis": destinata a uccidere i figli, propulsa soltanto da un istinto naturale puro ("non contaminato da coscienza o illusioni morali" dice l'androide del mostro, che poi afferma di ammirare), dall'essere pura materia. Ripley è un'eroina in lotta contro l'essenza più profonda della stessa Natura femminile e lo dimostra, nel corso del film, con una condotta che la porta a invertire sempre di più i ruoli sessuali (comandando infuriata l'impaurita ciurma maschile) e trasformandosi sempre più nell' immagine di un corpo androgino: i successivi film accentueranno questo aspetto fornendole il look dal cranio rasato con cui tutti identificano il personaggio. L'ultimo simulacro dell'istinto materno, di quella che per contro Jung chiamava "Bona Mater" è il transfert riferito al gatto, che diventa, pateticamente, prezioso come un figlio per un'eroina che rischia di essere del tutto de-umanizzata, trasformata in un corpo androgino e para-tecnologico.
Questa tematica della modificazione e stravolgimento artificiale del corpo, che sta prendendo piede nella cultura degli anni Ottanta col body building e con l'opera di artisti come Robert Mapplethorpe, precursori del transgender e della body art dei Novanta, ricomparirà nel successivo Blade Runner, con un'umanità di corpi mutanti, ai confini sempre più incerti tra umano e non umano, materia in disfacimento e anelito alla trascendenza spirituale.

Blade Runner. Più umano dell'umano

Dapprima riluttante di fronte all'idea di un nuovo film di fantascienza, Scott viene allettato dal consistente budget disponibile a causa del successo di "Star Wars" e delle possibilità offertegli dal soggetto: il risultato è il suo capolavoro assoluto, un film che, se anche fosse l'unico da lui prodotto, gli garantirebbe fama e rispetto imperituri. Basato sul romanzo di Philip K. Dick "Do androids dream of electric sheeps?" il film ha una trama semplice e arcinota: il detective Deckard, in una decadente Los Angeles del futuro, persegue la sua missione di eliminare un gruppo di androidi (o per meglio dire, replicanti) sfuggiti al controllo umano, ma finisce per innamorarsi di una di loro, con la quale fugge. La scintilla che fa scattare l'interesse di Scott è quella della sovrapposizione tra una trama e un'atmosfera di stampo noir, alla Raymond Chandler, e un'ambientazione futuristica ispirata tanto a "Metropolis" quanto ai fumetti di Moebius.
Lo sforzo richiesto è immane, perché stavolta il "total environment" non riguarda più una ristretta serie di interni, ma un'intera città, la quale diventa il vero fulcro della creazione di Scott. Fin dai primi fotogrammi essa si rivela come un panorama di maestosi grattacieli, strade brulicanti di masse caotiche, interni giganteschi e fatiscenti, un vero e proprio universo a sé, immerso in una sorta di buio perenne che è aumentato da fumi, piogge, neve, e punteggiato da alte fiammate che emergono dagli edifici, fredde luci al neon, fasci di luce che squarciano indagatori le tenebre degli ambienti.
L'opera di stratificazione di luce, colori, effetti speciali è tale da far sì che ogni fotogramma di Blade Runner si presenti come un abisso caleidoscopico che si estende a dismisura in profondità e ai lati della percezione visiva, presentando agli occhi dello spettatore un mondo cupo, caotico, difficile da decifrare, nel quale lo sguardo si può perdere come in una vertigine infinita. Non è un caso che il film, a fronte di un incasso non eclatante al botteghino, si sia rivelato il primo grande successo del noleggio home video, e che sia stato ripresentato ciclicamente a platee sempre numerose: nessun film di intrattenimento stimola e regge quanto Blade Runner le visioni ripetute.
Immersa in questo tripudio distopico, che fa rivivere la fantascienza modernista anni Venti di "Metropolis" quanto le pretese dell'espressionismo di cinema completamente antinaturalistico, vi è una vicenda che pone al suo centro quella dicotomia tra umano e artificiale che ritorna, elevata all'ennesima potenza, dalle opere precedenti di Scott. Se è vero che il tema della de-umanizzazione dell'uomo nel contesto ipertecnologico e alienante della metropoli moderna era già presente nel libro di Dick, il regista pone il suo marchio stravolgendo del tutto i personaggi dei replicanti.
Se nel romanzo umani e replicanti sembravano fare a gara a chi era meno umano, in Blade Runner i secondi diventano degli autentici eroi romantici, corpi giovani, perfetti, superiori, costretti a vivere una vita intensissima ma breve, giacché limitata a soli quattro anni, sulla base del loro codice genetico. Lo scopo dell'eroe negativo, Roy Batty, capo dei replicanti, è quindi una titanica lotta contro la società che emargina gli androidi, ma soprattutto contro il limite naturale della morte. Nella scena finale, la morte di Batty è quella di un vero e proprio angelo caduto, di un eroe del romanticismo negativo che si confronta tragicamente coi limiti posti dalla Natura a un'esperienza umana di cui lui ha cercato di forzare i confini: "i miei occhi hanno visto cose che voi umani non potete immaginare...e tutti questi momenti andranno perduti, come lacrime nella pioggia. Ora è il tempo di morire".
Di fronte al contesto di corruzione fisica e morale che coinvolge tanto gli ambienti quanto le persone, l'artificio dei replicanti si pone dunque come un anelito alla purezza e alla bellezza. Con la tensione a trascendere il reale convive per contro una rappresentazione di corpi nella loro più estrema fisicità: gli eroi di Scott vivono la paura con ogni muscolo, sudano, si feriscono, si sporcano. Questo motivo riguarda D'Hubert ne I Duellanti, Ripley in Alien e viene portato alla massima evidenza nel duello finale di Blade Runner, dove il replicante Roy Batty abbatte muri, salta abissi, si ferisce da solo, si spoglia fino a raggiungere una purezza da ginnasta della Hitlerjugend, in una sorta di performance fisica estrema. Tutto questo allo scopo di sentirsi vivo, al di là dei limiti imposti dalla natura, in un empito estremo in dispetto alla morte. Per contro gli umani sono materia fragile e corruttibile, basti pensare, oltre a Deckard, alla mirabile figura di J.F. Sebastian, costruttore di automi affetto dalla sindrome dell'invecchiamento precoce, che vive in un palazzo popolato di bambole e giocattoli animati ("I make friends").
La bellezza non nasce quindi da una imitazione della Natura (o mimesi) ma da un supremo artificio (in greco tekne) con cui l'uomo riproduce i processi creativi della Natura stessa. Questo concetto, già romantico (non per caso si era partiti da Friedrich), diventa in Scott la premessa per un cinema che ha nella tecnica il suo principio fondante, che esalta la macchina come portatrice di bellezza in un mondo organico segnato dalla decadenza e dallo sfacelo ("cripple" era il termine usato da Dick nel romanzo).
Ma Blade Runner propone l'esaltazione dell'artificio anche e soprattutto da un punto di vista estetico. Valga per tutte la sequenza dell'uccisione della donna-serpente, il cui corpo precipita, al ralenti, in un caleidoscopio pop di vetrate, luci al neon folgoranti, tessuti sintetici di lattex e plastica che ne inguainano il corpo, in un impeto di pura vitalità animalesca destinato a spegnersi in dolorosa immobilità: è il vero e proprio paradigma dell'estetica artificiale degli anni Ottanta. L'altra sequenza fondamentale è quella in cui il detective sprofonda lo sguardo, attraverso un avveniristico sistema tecnologico, in una foto, scrutando un ambiente che potrebbe essere un quadro di Van Eyck e che nasconde, come un'opera del maestro fiammingo, il suo mistero riflesso in uno specchio.
Oltre a dimostrare come Blade Runner sia un film incentrato sulla simbologia della visione, degli occhi, la sequenza è una metafora di tutto il cinema di Scott: uno sprofondare dello sguardo al di là dei confini posti dalla natura, attraverso il grimaldello visionario della tecnologia. Romanticismo ottocentesco e post-modernismo, ce n'è abbastanza per affascinare il pubblico dei vent'anni successivi.
Questa vertigine ambigua e misteriosa che permea il film si riflette anche nella sua peculiare sorte di pellicola mutante: nel 1992 ne viene presentata una versione diversa (Director's cut) che suscita un uragano di interrogativi. Sono stati eliminati la voce fuori campo e il finale un po' incongruo (che presentava i due protagonisti in volo su delle verdi foreste, ottenute riciclando, incredibile a dirsi, dei fotogrammi scartati da "Shining" di Kubrick) mentre compare un breve inserto onirico che farebbe sospettare che anche Deckard sia un replicante. Ma Scott ha voluto basare il suo film sull'ambiguità tra umano e non umano, e anche il primo finale lasciava in sospeso il futuro dei due: non sono purtroppo soltanto i replicanti ad avere una vita a termine, sembra essere il messaggio conclusivo, quindi il destino di entrambi è segnato in ogni caso.
Sopravvalutare l'influenza di quest'opera è impossibile: presa a simbolo dell'estetica postmoderna, punto di partenza del genere cyberpunk, modello di tutta la fantascienza anni Novanta. Eppure l'importanza di Blade Runner risiede nella sua intrinseca bellezza e complessità, di cui, davvero tragicamente, il visionario P.K. Dick non ha potuto godere, essendo morto prima dell'uscita del film e senza avere neanche un'avvisaglia della fama che gli sarebbe toccata, purtroppo soltanto postuma.

Anni Ottanta e Novanta: storia di un ritorno alla realtà

Il Ridley Scott post-Blade Runner è reduce da uno sforzo sovrumano quanto poco remunerativo, non gli si può quindi fare una colpa del successivo capitalizzare la fama conseguita in una serie di film di intrattenimento, peraltro più che dignitosi.
Se Legend porta l'estetica dell'artificio a confrontarsi con le sue degenerazioni più estreme (il fantasy tipicamente anni Ottanta, peraltro venato da una patina di cupezza morbosa), film come Black Rain propongono Ridley Scott come regista di film più "normali", spettacolari e ritmati al punto giusto. Quest'ultima pellicola riprende tra l'altro le atmosfere cupe di Blade Runner, essendo ambientata in una Osaka oscura e livida, pervasa da una tensione razziale che era presente già nel suddetto capolavoro ma che qui prende parvenze realistiche. Il sottotesto è infatti il profondo sconcerto che anima la società americana di fronte a quella che sembra un'ascesa inarrestabile dell'economia giapponese alla fine del decennio. Se è vero che una delle molle dell'ispirazione di Scott per il suo capolavoro era stata la visione apocalittica delle nuove metropoli orientali (Shangai, probabilmente), si può dire che qui si chiuda un cerchio, ma Black Rain è soltanto un buon poliziesco della serie interpretata da Michael Douglas.

Molto più interessante è invece Thelma & Louise, che probabilmente è l'ultimo film importante di Ridley Scott. Anche se gran parte del merito va alla sceneggiatrice Callie Khouri, che scrive un'opera importante per la rappresentazione dell'emancipazione femminile, bisogna dar atto a Scott di saper essere all'altezza, adattando il suo stile agli anni Novanta. Ricompaiono qui eroine in lotta contro una società che le emargina ed aliena, ma il contesto realistico dà una dimensione tragica al personaggio interpretato dalla Sarandon che la Weaver di Alien non poteva avere: qui la rinuncia al ruolo di moglie e madre avviene come estrema reazione a una condizione insopportabile, ed è già parte della tragedia che si compirà col finale.
Ancora una volta il pessimismo esistenziale di Scott non si ammorbidisce, i suoi eroi sono destinati inevitabilmente a una sorta di gloriosa sconfitta. Le due protagoniste, a differenza della Ripley di Alien non sono in contrasto con una parte della loro natura femminile, ma con una società che pretende, sulla base di quella natura, di costringerle a un ruolo subalterno, a una vita senza orizzonti. Esse esplicitano quindi il lato politico degli eroi di Scott, che era sempre esistito fin dai contrasti tra l'opportunismo politico di Hubert e l'idealismo di Feraud nei Duellanti, passando per la guerra tra Ripley e la "Compagnia"(artefice dell'astronave mater che la vorrebbe sacrificare a favore del mostro), fino alla lotta dei replicanti contro la "Tyler Corporation"che li ha fabbricati e di cui Batty uccide il fondatore, suo ideale padre. Si tratta spesso di eroi al negativo, volti non a costruire ma a distruggere, così anche Thelma e Louise trasformano il loro viaggio in cerca di libertà in un'uscita dalla legge e dal consesso civile, fino alla scelta estrema di continuare la propria strada nell'abisso del Grand Canyon.
Per una volta non si tratta di un film d'interni (come potrebbe esserlo, in quanto road movie?) ma si tratta di un attraversamento dei luoghi comuni della mitologia Usa, "the Land of the Free", le pistole, il viaggio in auto, il paesaggio dei film western, che, agli occhi delle anti-eroine si trasformano in una geografia disperata, letteralmente senza orizzonte.
Soltanto Scott poteva avere il coraggio di mantenere, in quello che è comunque un film d'azione per il grande pubblico, un finale così nichilista, e questo farà la fortuna di quest'opera nel panorama estremista del cinema anni Novanta.
Quella che qui emerge, a dare al cinema di Scott una dimensione che lui stesso probabilmente sentiva mancargli, è una dimensione politica, data dall'empito femminista del soggetto che si sposa perfettamente con l'estremismo romantico e letterario del regista, dandogli una concretezza e una forza che lasceranno decisamente il segno sulla successiva decade cinematografica.

Purtroppo per lui l'alchimia si attua attraverso un concorso esterno, combinazione che gli sarà difficile rinnovare a causa del carattere sempre più episodico delle sue collaborazioni. Se successive opere come 1942: la conquista del paradiso (1992) e Hannibal (2001) avranno il carattere di opere su committenza, nelle sue opere di fine anni Novanta - primi anni Duemila emergerà una sorta di discorso politico.
In questo filone si può inserire il bellico Black Hawk Down (2001) ma anche quello che è stato il più grande successo di Ridley Scott negli ultimi anni, ovvero Il Gladiatore (2000).
Questo è una ardita rivisitazione postmoderna dei cosiddetti peplum, ovvero i colossal ambientati nell'antica Roma, girati a Cinecittà. Il soggetto ripropone un nuovo eroe titanico, il generale Massimo Decimo Meridio, che, pur ridotto in schiavitù e al ruolo di gladiatore nel Colosseo, continua a combattere contro il malvagio imperatore Commodo (la cui reale propensione a prender parte ai ludi deve aver rappresentato lo spunto di partenza degli sceneggiatori). Proprio il dinamismo della prova dell'attore Russel Crowe sembra esaltare il pubblico, ponendo ancora una volta al centro del meccanismo drammatico la fisicità e la lotta, a distanza di vent'anni da I Duellanti.
I critici notano inoltre l'incontro di Scott con la tecnica digitale, che dà vita ad una Roma modello Blade Runner, livida e cupa come mai è stata, ricostruita al computer senza metter piede sul suolo italico. A colpire di più, oltre alla sapiente atmosfera cupa che il regista sembra dispensare come un marchio di fabbrica tornato di moda ( Firenze aveva subito un simile make up gotico nel succitato Hannibal) è l'emergere di una tematica che va oltre il latino motto panem et circenses, riflettendo la ben più attuale distopia americana di una società dominata dallo spettacolo e dalla informazione televisiva, che sembrano nascondere sempre più gli interessi e le manipolazioni del potere politico. Sia il malvagio imperatore, sia il suo antagonista gladiatore manipolano il consenso popolare attraverso lo spettacolo e la fama che ne deriva. Il fatto che lo show sia rappresentato da uno scontro fisico estremo, in cui ci si gioca la vita, rappresenta la molla attraverso la quale Ridley Scott riesce a far suo il soggetto e ridar credibilità a un genere in disuso da decenni. Non per niente la distruzione di Commodo giunge quando questo accetta di misurarsi nell'agone ad armi pari.
Al di là delle innumerevoli incongruenze storiche (Commodo non uccise suo padre, il glorioso Marco Aurelio, che anzi fece in suo favore il grave errore politico di riportare la discendenza su basi ereditarie), l'idea più incredibile è che il gladiatore (uno schiavo costretto a combattere per la vita) possa diventare partecipe dello star-system come un odierno giocatore di football. Come attestano certi affreschi di Pompei l'idea non è del tutto peregrina, ma nel film il personaggio di Crowe si trasforma da "uomo di sport" in soggetto politico, contrastando l'Imperatore stesso, in una rappresentazione estrema della società dello spettacolo statunitense, e non certo di Roma.
Agli albori dell'elezione di George W. Bush, si può dire che il film sia stato tetramente profetico. Ridley Scott non si pone più, però, lo scopo di trascendere i generi (peraltro sempre più spericolati, quella de Il Gladiatore è un'autentica scommessa vinta contro il ridicolo) che affronta, quindi il risultato è quello di opere di puro intrattenimento, realizzate da un mestiere sopraffino.
Se successive opere come 1492: la conquista del paradiso (1992) e Hannibal (2001) avranno il carattere di opere su committenza, in altre produzioni di fine anni Novanta - primi anni Duemila emergerà la voglia di trattare tematiche più interessanti.

Il tentativo di ripetersi nel genere storico con Le Crociate (2005), che dovrebbe lanciare un messaggio di pace e pacifica convivenza tra le religioni in un momento di enorme tensione, non produce un successo simile a quello del Gladiatore, anche se rimane impressa la figura del re lebbroso Baldovino, il volto sostituito da una maschera d'argento, vera epitome della dicotomia tra corruzione del corpo e bellezza artificiale su cui è giocata la parte più interessante dell'opera del regista.
Una nota finale, parzialmente positiva, la offre invece American Gangster del 2007, dove la maestria nel costruire le atmosfere si unisce a un montaggio sapientemente destrutturato e a un soggetto forte, basato sull'ascesa di un gangster nero nel commercio della droga degli anni Settanta.
Mentre il dilagare del cinema digitale apre possibilità che all'epoca di Blade Runner erano inimmaginabili, possiamo dire che il Duemila non ha ancora trovato il suo Ridley Scott, per quanto sapienti siano i fratelli Wachowsky ("The Matrix" è la cosa più simile a un nuovo Blade Runner che si sia vista negli ultimi anni, ma non vi si avvicina neanche a livello di pathos) o Peter Jackson. Né pare incomprensibile che Ridley Scott abbia scelto di non confrontarsi sul loro terreno, evitando una nuova incursione nel genere fantastico.
Rimane comunque indelebile la lezione visionaria dei suoi primi tre film, testimonianza di un'epoca in cui sembrava lecito al cinema osare, forzare le colonne d'Ercole del futuro possibile.

Nell'ultimo quadriennio, Scott ha ripreso a girare film con costanza micidiale, uno ogni due anni al massimo. Prima Nessuna verità, action-thriller ambientato negli intrighi dello spionaggio mediorientale, poi la rilettura della leggenda di Robin Hood e infine il suo progetto più ambizioso, inseguito, ambito: Prometheus. Nessuno dei tre lavori offre spunti particolarmente significativi per offrirci un pensiero circa la "rinascita artistica" sempre attesa e sempre tradita del cineasta britannico. Ma se con la pellicola interpretata da Leonardo DiCaprio e Russel Crowe, Scott fa il suo dovere dignitosamente e si conferma maestro della costruzione spettacolare, della messa in scena adrenalinica, è con i due lavori successivi che qualcosa sembra rompersi irrimediabilmente.

Robin Hood non è altro che un pigro adattamento, senza il benché minimo spunto originale, del mito di Sherwood. Un'opera che crede di trovare la chiave giusta nella narrazione, trasformando in versione "machista" l'arciere più famoso della storia, inscenando battaglie e scontri ad alto tasso adrenalinico, con una macchina da presa nervosa e ossessiva che non fa altro che dissolvere il fascino leggendario dei luoghi e dei personaggi che si sono tramandati fino a noi.

Prometheus, invece, era negli intenti del suo autore qualcosa di più di un imponente lavoro di fantascienza. Doveva essere il ritorno alle origini, la riscoperta di una pellicola di genere "umana" che si rifacesse, nasconendosi da prequel, al capostipite Alien. Purtroppo, in questi oltre trent'anni Scott ha perso quel suo tocco magico, capace di ergere a veri protagonisti di una storia i paesaggi, le atmosfere, i rumori e i colori. Stavolta, con la complicità di un digitale tanto immaginifico quanto anonimo, l'opera si scolorisce di fronte agli effetti speciali grandiosi e diventa solo un espediente per una grande giostra, senza sentimento e senza passione.

Nel 2013, per la seconda volta nel giro di pochi mesi assistiamo all'inaspettata collaborazione tra due massimi esponenti della cinematografia e della letteratura mondiale. Se in "The Canyons" il regista Paul Schrader aveva trovato nella penna di Bret Easton Ellis un degno contraltare alle sue ossessioni, ora è il turno di Ridley Scott, che porta sul grande schermo una sceneggiatura originale del premio Pulitzer Cormac McCarthy. In entrambe le occasioni il risultato è controverso, divide, non lascia impassibili. Non è un caso che entrambe le pellicole parlino dell'Apocalisse che ci ha travolti, della fine di un'epoca e di un mondo, di Hollywood innanzitutto. "The Canyons" lo faceva attraverso lo stile narrativo e i personaggi decadenti e sfatti tipici di Ellis, The Counselor - Il Procuratore è invece in tutto e per tutto figlio dell'anti-epica nichilista (e anti-capitalista) dell'autore di "Non è un paese per vecchi" e "Meridiano di sangue".
A conti fatti tra le opere più coraggiose, amabilmente sbilenche e riuscite del regista inglese.

Conviene, forse, sgombrare il campo dai dubbi residui. La piega che la carriera di Ridley Scott ha preso negli ultimi dieci-quindici anni è ormai una direzione ben precisa e non casuale: lasciati per sempre da parte i cult che ne hanno motivato la fama e la stima imperitura, il regista britannico ha consapevolmente abbracciato la magniloquenza delle grandi produzioni hollywoodiane ad alto tasso di effetti digitali e a bassa densità di contenuti capaci di resistere oltre la visione dell'opera.
Questo Exodus - Dei e re, infine, certifica ancora una volta la pigrizia crescente di un ex grande cineasta, ormai incapace di plasmare soggetti diversi coerenti con una sua precisa poetica e visione del mezzo cinematografico. Il lavoro del buon Ridley si limita ormai a "certificare" la passività della sua macchina da presa di fronte a una produzione (e a una post-produzione) che ha l'obiettivo di spremere fino all'ultimo centesimo un pubblico assuefatto a un cinema digitale fermo da anni. La visione della Storia di Scott è anonima e ignava: non ci sono sfumature, non ci sono differenze tra epoche, luoghi, personaggi. Tutto è ripreso alla stessa maniera, fra solite panoramiche e campi lunghi che annientano la presenza umana all'interno dell'inquadratura.

Piazzate a bella posta nelle locandine dei film per stimolare la fantasia del potenziale spettatore, le frasi di lancio che accompagnano i titoli dei film di Ridley Scott vanno spesso oltre i sofismi legati alle ragioni commerciali delle grandi produzioni, per diventare la promessa di qualcosa che davvero esiste all'interno dell'offerta narrativa proposta dalle storie del regista inglese. Abbiamo ancora in mente quella presente nel poster di "Alien" che prefigurava come meglio non si poteva la tragedia a cui sarebbero andati incontro i componenti della nave spaziale Nostromo, decimati dalla micidiale creatura aliena. E ancora, sempre per dire della coerenza del regista inglese che, per ribadire il potere evocativo di quelle parole, decise di lanciare il trailer del film (nel suo genere una piccola opera d'arte per estetica e suggestione) senza aggiungere alcun suono al cocktail di immagini che lo costituivano. Meritano quindi di essere considerate nella giusta maniera quelle che campeggiano sopra il faccione del naufrago Matt Damon (Bring Him Home), per l'imperativo sotteso alla missione di riportarlo a casa da parte dei suoi colleghi (e quindi del film), dopo che gli stessi, credendolo morto, lo hanno abbandonato sul pianeta Marte. Perché Sopravvissuto - The Martian essendo innanzitutto un blockbuster di primo livello per impegno artistico e produttivo - basti pensare a una star come Jessica Chastain, prestata a un ruolo importante, ma comunque comprimario - si premura in prima istanza di mettere in bella vista i segni di una natura spericolata e avventurosa, legata appunto alle qualità di chi, con sommo sprezzo del pericolo e delle responsabilità dovrà sobbarcarsi la operazioni necessarie a evitare al protagonista il supplizio di un futuro senza speranza.
E' quindi un bene che il castaway di Matt Damon (ottimo nella parte di un homo faber dalla vitalità contagiosa), che usa il computer al posto del pallone, abbia in dote un senso dell'umorismo in grado, in qualche modo, di smorzare il sentimento d'onnipotenza che il film si porta dietro. Se poi qualcuno, per denigrare il lavoro di Scott, volesse fare appello alle imprecisioni della ricostruzione messa in piedi dal regista (su Marte non esistono tempeste così intense come quella che dà l'avvio alla storia e gli spostamenti sulla superficie avverrebbero con saltelli e non camminando normalmente), ricordiamo che le stesse rimostranze, pur esatte, non hanno impedito a "Il gladiatore" di diventare un classico del cinema. Qui non siamo a quei livelli, ma il discorso rimane comunque uguale.


Con contributi per la parte finale di Giancarlo Usai, Alex Poltronieri e Carlo Cerofolini





Ridley Scott