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Il magnifico scherzo di un eccentrico comico giapponese al cinema d'autore: diventare il regista di riferimento di una generazione. Ecco la storia di Takeshi Kitano, artista proteiforme che ha forgiato un linguaggio dal nitore formale fiammeggiante, sconvolgendo gli anni 90

Nascita di "Beat" Takeshi

kitanodirectorTakeshi Kitano nasce il 18 gennaio 1947 a Tokyo (a Umeshima, per essere precisi). Suo padre, Kikujiro, fa l'imbianchino, ma a causa della crisi post-bellica si accontenta di lavorare quando può e sperpera il salario in alcol e scommesse, diventando spesso rissoso e violento. La madre si trasferisce coi bambini a Senju, un quartiere malfamato del distretto di Adachi, e la situazione peggiora quando il padre abbandona la famiglia; la donna, nonostante le difficoltà economiche, educa i figli in maniera severa, spingendoli a fare del loro meglio a scuola, così da poter avere in futuro una carriera di tutto rispetto. Per Takeshi, il più piccolo dei quattro figli, si prospettano gli studi in ingegneria, nonostante il ragazzo saltasse le lezioni di calligrafia per andare a giocare di nascosto a baseball e fosse in guerra con la ferrea disciplina materna.
Sul finire degli anni Sessanta, il giovane si iscrive all'università e si avvicina ai movimenti della contestazione studentesca frequentando l'ambiente intellettuale e artistico di Shinjuku. Alla fine viene espulso per condotta ribelle, ma sua madre sperava ancora che potesse conseguire la laurea con i corsi serali: le cose non vanno come da lei desiderato e, nel giro di un paio d'anni, suo figlio si trova a cercare dei lavoretti ad Asakusa, quartiere dei divertimenti di Tokyo, pieno di cinema, teatri e locali di vario livello. Durante quegli anni "beatnik", zeppi di letture esistenzialiste, il giovane si era infatti deciso a voler vivere in maniera indipendente, a non sottostare alle imposizioni dall'alto da cui voleva fuggire a ogni costo.

Nel libro in cui ricorda le sue origini, "Asakusa Kid", Kitano parla del suo lavoro di ascensorista, un punto di osservazione privilegiato da cui spiare i comici che si esibivano;. Racconta anche del contraddittorio rapporto con Senzaburo Fukami, il suo maestro al Français, un locale in cui lo strip-tease veniva intervallato da numeri comici: è con lui che Takeshi compie lentamente il suo apprendistato e qui ha la sua occasione quando uno degli stand-up comedian dà forfait. Questo momento si rivelerà cruciale nella vita di Kitano; ormai convinto di poter fare quel mestiere molto meglio di tanti che si esibivano, passerà gli anni successivi a migliorare le sue doti di intrattenitore e di improvvisatore: creerà con Kaneko Kiyoshi il duo chiamato "The Two Beats", senza successo agli esordi, finché dei nuovi testi e un cambio di rotta voluto fortemente da Kitano non li imporrà come un fenomeno nel circuito dei teatri fino a diventare appetibile anche per la televisione.
Il materiale è irriverente fino al politicamente scorretto, infarcito di turpiloquio e volgarità, infatti, il loro spettacolo viene immediatamente chiuso e il produttore che li aveva scritturati licenziato. Erano invisi all'ambiente tradizionale e conservatore che li criticava aspramente, ma ormai erano diventati delle celebrità in tutto il paese.

A questo punto Kitano alza il tiro delle proprie ambizioni, scrivendo anche degli spettacoli in solitaria dove varia e amplia il proprio repertorio stilistico: Beat Takeshi vuole essere preso anche sul serio. Alla fine degni anni Settanta abbandona Beat Kiyoshi, andando a lavorare in tv dove diverrà uno degli autori e dei personaggi televisivi più popolari durante gli anni Ottanta. Dei numerosi programmi da lui creati, "Takeshis' Castle" diviene un vero fenomeno di culto, giunto fin da noi attraverso il riadattamento grottesco della Gialappa's Band. "Mai dire banzai", uno dei primi successi televisivi del trio milanese, altro non era che la messa in onda delle puntate del programma di Kitano, commentate fuori campo per il pubblico italiano. Takeshi, vestito di tutto punto con smoking bianco o di altri colori sgargianti, presentava una serie di concorrenti che, ignorando il concetto di pudore, dovevano raggiungere un premio finale affrontando una serie di prove fisiche esilaranti per chi guardava e degradanti per chi le affrontava.
Va comunque ricordato che fino alla fine degli anni Novanta Kitano era presente in ben nove programmi, tra quelli in cui era protagonista e quelli in cui era ospite come opinionista, senza poi contare le rubriche da lui curate in svariati giornali. Nel 1988, quando Kitano ha 41 anni, viene pubblicato con successo "Asakusa Kid", il suo memoir.

Attenzione, quell'uomo è pericoloso!

kitanoviolentcopScherzando in interviste successive, Kitano commenterà la sua gavetta di attore drammatico dicendo come per  anni sia stato costretto a fare lo stupratore o il killer psicopatico, in due parole, il sadico bastardo. Negli anni Ottanta inizia infatti una parallela carriera in film e serie per la tv, fino al determinante ruolo del sergente O-hara in "Furyo" (1983) dell'amico Nagisa Oshima, interpretazione che ne sancisce il talento anche sul grande schermo.
Nel 1989 Kitano viene scritturato per il ruolo da protagonista in un film diretto da Kinji Fukasaku, maestro dello yakuza eiga: si tratta di un poliziesco dai toni scanzonati, in cui Kitano avrebbe interpretato un agente dai modi piuttosto bruschi. Caso volle che Fukasaku dovette abbandonare il progetto per motivi di salute e proprio Kitano si propose per sostituirlo alla regia.
Il comico non si accontenta di questo ampliamento del suo raggio d'azione: sebbene il suo lavoro di sceneggiatore non appaia nei credit, riscrive in gran parte il copione, stravolgendone i toni generali. Il risultato è un poliziesco feroce e brutale che riprende in maniera piuttosto evidente alcuni crismi della serie siegel-eastwoodiana sull'ispettore Callahan, piegati secondo il personale gusto dell'autore esordiente.
Azuma, il poliziotto protagonista di Violent Cop (il titolo giapponese si potrebbe tradurre "Attenzione, quest'uomo è pericoloso!") è il primo personaggio radicale della galleria di Beat Takeshi: è violento fino al sadismo, ma conserva del tenero affetto per la sorella, non segue le norme né l'ortodossia morale della categoria poiché fuma, beve, gioca d'azzardo, chiede prestiti, porta i novizi negli strip-club, ma è un poliziotto duro e puro in mezzo alla corruzione dilagante. L'incipit è un sunto di queste caratteristiche: in primo piano viene inquadrato un barbone sorridente che viene assalito da una banda di ragazzini che lo malmena selvaggiamente, schegge di un'ultra-violenza urbana di kubrickiana memoria; nella seconda scena, uno dei ragazzi torna a casa ma, una volta entrato dalla porta d'ingresso, la macchina da presa persiste nel suo campo lungo, finché una figura in abito scuro non entra nell'inquadratura da sinistra, dirigendosi verso la medesima dimora. È Azuma che appare come una manifestazione di un giustizialismo da strada che raggiunge il ragazzino fino alla sua stanza non per redarguirlo o per arrestarlo, ma per castigarlo: alla fine del breve pestaggio gli intima di costituirsi l'indomani. Riguardo alla camminata di Azuma, a spalle leggermente curve e ampie falcate, diverrà non solo un segno distintivo dei futuri personaggi kitaniani ma anche una sequenza che il regista userà come transizione da un episodio a un altro, commentata dalle note della Gnossiene n.1 di Erik Satie.
Il plot ruota intorno all'indagine per sgominare un'organizzazione  che gestisce lo spaccio di droga della città, retta da Nito, un intoccabile e potente boss che tiene sul suo libro paga anche un collega e amico del protagonista. Il braccio armato di Nito è lo spietato Kyohiro, il vero avversario con il quale Azuma si dovrà confrontare: una delle prime disincantate riflessioni che fa il Kitano-autore, attraverso il nuovo medium, è proprio questo puntare l'obiettivo verso i tirapiedi, quelli che si battono fino allo stremo delle forze ma che, con tutta probabilità, non spostano di una virgola le sorti di una partita a scacchi già compromessa sin dalle mosse iniziali, a causa di una deriva della società alla quale loro non hanno saputo o voluto adattarsi.

kitanoboilingNonostante il film suscitasse un'ovvia curiosità, visto il nome coinvolto nella doppia veste di regista e attore, Violent Cop non ebbe alcun successo, ma Kitano era all'ennesimo turning point della sua carriera artistica: non più o non solo comico, autore televisivo, opinionista, scrittore, attore, ma anche cineasta.
Boiling Point
(1990) esce solo un anno dopo e accoglie in sé i primi frutti della maturazione di Kitano nel suo nuovo ruolo. Quando gira il suo esordio, il regista, pur avendo le idee chiare sulla direzione che avrebbe dovuto prendere il progetto, ignora le reali possibilità delle tecniche e del linguaggio cinematografico: in questa seconda prova Kitano, oltre a dirigere, scrive e monta la pellicola, compiti di cui si occuperà sempre, d'ora in avanti. È infatti grazie al montaggio che comprende come disorientare lo spettatore ma, soprattutto, come amplificare il senso delle immagini, superando i limiti imposti della narrazione tradizionale, rendendo le scene più o meno ambigue, aumentando il carico di suggestioni poetiche e pittoriche.
Difficile sviscerare Boiling Point senza un serio raffronto con il finale di Violent Cop: nelle battute finali, Azuma, sospeso dalla polizia diviene la facile preda di Kyohiro che gli rapisce la sorella, facendola drogare e stuprare dai suoi scagnozzi; scampato a un agguato, Azuma sente di non avere più nulla da perdere, va dritto nel palazzo di Nito, lo uccide, e, infine, raggiunge Kyohiro per vendicarsi: qui si svolge una ferale carneficina, degna di un film "pulp", commentata dal vice del boss che, arrivato sul luogo, ammette che "qui sono tutti impazziti". Nessuno si salva dalla follia che sconquassa a tratti un solido poliziesco urbano, poiché se Kitano a un livello di linguaggio non ha ancora i mezzi per andare fuori dalle convezioni di riferimento, possiede già la personalità per immettere spasmi di un codice estetico originale, come ad esempio le inquadrature spesso frontali e anti-naturalistiche, la cattiveria ghignante di Azuma che investe gratuitamente un ricercato dopo un lunghissimo ed estenuante inseguimento, oppure la peculiare sequenza dell'agguato ad opera di Kyohiro, dove uno sparo deviato con un calcio alla pistola da Azuma colpisce mortalmente una innocente passante, della quale nessuno dei due si preoccupa: l'ex-agente se la dà a gambe, mentre il sicario, rinfoderato il revolver, con tutta calma si avvia all'inseguimento. Questi tratti diventano difficilmente trascurabili in Boiling Point, non tic casuali ma coerente volontà autoriale: apparentemente meno scritto, è un film costruito sulla narrazione debole, aperta alle divagazioni e alle digressioni tramite un ellittico montaggio. Il regista segue la vicenda di uno svogliato benzinaio che si diletta nel baseball ma che, per un moto d'orgoglio, ha un alterco con uno yakuza, coinvolgendo in seguito anche il suo coach nella questione d'onore. Per procurarsi delle armi, lui e un compagno di squadra partono allora per Okinawa: in questa sezione, che prelude al set che sarà di Sonatine, incontrano uno scalcinato duo di yakuza, uno dei quali interpretato da Kitano che voleva ritagliarsi un ruolo secondario ma che, inevitabilmente, cannibalizza il film quando entra in scena. Il suo personaggio, sessualmente depravato, ha anche i soliti scatti di violenza folle e gratuita attraverso la quale esplode lo stesso nichilismo che incendiava Violent Cop e che sarà il leitmotiv più concreto della poetica kitaniana. In Boiling Point Kitano si diverte a stravolgere la narrazione tradizionale e le regole dello yakuza-eiga: in effetti, diviene un'opera assai più comprensibile se lo si rapporta a quel cinema di rinnovamento e di rilettura postmoderna che si stava operando oltreoceano, grazie ad autori quali i fratelli Coen e David Lynch, anticipando il successo di Quentin Tarantino, con un genere che si potrebbe chiamare semplicemente pulp fiction (cfr. Enrico Ghezzi). Il pianosequenza del karaoke bar girato con obiettivo grandangolare e macchina a mano che, circolarmente, asseconda gli incroci (di sguardo) tra i personaggi è un'accensione di stile che dimostra la forma già compiuta del cinema e del pensiero kitaniano. L'atmosfera fluttuante e onirica accoglie esplosioni di violenza ovattate da una distanza ironica in un saggio di bravura registica che sarà seminale per il cinema noir e d'azione degli anni 90 e 2000. La parabola dell'evasione del giovane Ono Masahiko dai paludamenti della pigra provincia giapponese si conclude con l'ennesima esplosione suicida - citata anche da Takashi Miike in "Agitator" (2001) - sebbene il finale sia poi un enigmatico sberleffo nei confronti dello spettatore.

La scena sull'oceano: Il silenzio sul mare e Sonatine

sceneattheseaIl silenzio sul mare (il titolo originale starebbe per "Quell'estate, l'oceano più silenzioso") è il terzo film in tre anni e il primo in cui Kitano sfugge a quegli schemi di violenza e sadismo da lui stesso eretti, non partecipando nemmeno come attore e producendolo in proprio con la Office Kitano: si tratta di una piccola grande opera, forse la gemma più nascosta e lucente della sua prima parte di carriera. Molto più sicuro delle proprie capacità, il regista si lancia in una narrazione minimalista che combina astrazione e semplicità - va però detto che Kitano preferisce attribuire alle proprie creazioni solo il secondo termine. Il set urbano non è troppo distante da quello di Boiling Point ma come sfondo vi è l'oceano azzurro, al posto del terrigno campo da baseball: l'acqua del mare, comparsa dei film precedenti, è qui il catalizzatore delle attenzioni del protagonista, Shigeru, un sordomuto che fa il netturbino e che trova in una vecchia tavola da surf la molla per tentare qualcosa di diverso rispetto al tran-tran quotidiano.
Sotto un profilo estetico l'aspetto decisivo del film è la palette cromatica costruita in sinergia con il direttore della fotografia Katsumi Yanagishima, già operatore di Boiling Point e d'ora in avanti collaboratore di fiducia del regista: se nella pellicola precedente si notava uno sforzo verso un uso maggiormente espressivo del colore (e dello spazio), nel Silenzio sul mare il regista, attraverso diversi tipi di filtri e di lenti, codifica quello ormai noto come "blu Kitano", una particolare gradazione di azzurro che non investe semplicemente il cielo e il mare, ma trascolora l'intera tavolozza atmosferica dell'opera.
L'opera terza di Kitano è composta da piccoli e limitati eventi che si raccontano male senza l'ausilio delle immagini, poiché una fredda descrizione degli snodi principali dell'esile trama svilirebbe la bellezza delle intuizioni registiche. Kitano canta essenzialmente dell'affettuosa storia d'amore tra Shigeru e la sua ragazza, anch'essa sordomuta, e della crescente passione del giovane verso il mare, per mezzo dell'espediente sportivo del surf. Quello che poteva essere il romantico scontro tra la potenza della natura e l'uomo si tramuta in una riflessione sulla transitorietà di quest'ultimo e il mare diviene un luogo di elevazione e di liberazione, dove l'handicap che affligge Shigeru nelle relazioni sociali conta molto poco. In questo rapporto del ragazzo col mare non mancano alcuni connotati tipici dell'ossessione come il provare e riprovare a stare in equilibrio sulla tavola da surf, fino a raggiungere dignitosi risultati da autodidatta, sacrificando persino il lavoro; è altresì vero che, in tal modo, Shigeru riesce a farsi apprezzare dall'esperto proprietario di tavole da surf che lo aiuta negli allenamenti e dal gruppo di appassionati surfisti che inizialmente lo schernivano. La quotidianità del protagonista viene quindi stravolta in meglio: vi sono nuovi obiettivi, nuove conoscenze, un nuovo modo di vedere le cose. Kitano racconta queste impercettibili modifiche esistenziali impaginando piani fissi e lenti movimenti di macchina che seguono i protagonisti e, indubbiamente, il dialogo dominante consta nella centralità della figura umana che occupa e agisce uno spazio vuoto o astratto (le strade, le spiagge, le onde), in cui l'unico suono è quello del malinconico main theme di Joe Hisaishi - compositore e sodale di Kitano fino al 2002. In questa pratica contemplativa Zen è difficile non notare delle assonanze con lo stile di Yasujirō Ozu, autore che solo dopo molti anni verrà associato al cinema kitaniano: usando la terminologia di Paul Schrader, si potrebbe asserire che Il silenzio sul mare rappresenti la rilettura di Kitano dello stile trascendentale del maestro Ozu, contaminato anche da suggestioni occidentali. La "via di liberazione" dello stile trascendentale propone il passaggio dalla dimensione terrena a una dimensione Altra; l'attrazione titanica di Shigeru nella dominazione del mare comporta un elemento di rassegnazione e di abbandono di sé che si manifesterà nelle battute finali del film e che può riportare alla memoria anche il momento dell'estasi, capitale in Bresson: sebbene si scriva sulla scorta delle suggestioni, l'evoluzione autoriale di Kitano, a partire già da Sonatine, non smentisce affatto quest'ipotesi critica.

sonatinemonografia2Dopo il suo "doppio" esordio registico nel campo dello yakuza eiga e la sorprendente inversione a "U" del suo terzo lungometraggio, Kitano sbarca a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con il suo quarto film. Sonatine (1993) si impone subito come un'opera miliare nella finora breve ma già significativa filmografia dell'autore giapponese. Il suo noir ambientato negli ambienti gangsteristici del Giappone contemporaneo si svela ben presto come un'occasione per imporre all'attenzione del pubblico la sua concezione del mondo. Il mafioso tradito e mandato a morire sull'isola di Okinawa, di fronte alla contemplazione di una natura tanto bella quanto severa, sceglie di ritagliare del tempo per una sorta di "regressione totale": sulla spiaggia, insieme ai suoi uomini, in attesa di una fine ineluttabile, Murakawa passa le sue ore facendo giochi infantili e riscoprendo antiche tradizioni. Un modo, insomma, per scavare nel passato di un uomo e di un paese alla ricerca nostalgica di radici perdute, con l'obiettivo di cogliere sul finale di una vita criminale quella serenità e quella purezza ormai perdute. Kitano non ha mai fatto mistero di essere un conservatore: convinto assertore del decadimento culturale e sociale del suo Giappone, usa la macchina da presa come una pagina bianca su cui scrivere i propri pensieri in libertà. Senza alcuna preoccupazione di risultare indigesto, Kitano annulla i ritmi concitati dell'azione, bandisce dalla scena la violenza esibita e confina i momenti più truculenti al fuori campo. Nell'inquadratura c'è spazio solo per un cinema profondamente umanista, che segue con estenuante pazienza il vagare senza meta dei suoi protagonisti, ormai ex-fuorilegge in cerca di un motivo per redimersi. Il mare, e con esso un'osservazione follemente romantica del paesaggio naturale, ha ancora una funzione essenziale nel cinema di Kitano: è infatti elemento purificatore e al tempo stesso occasione di riflessione. Stupisce non poco la bravura del regista nel far entrare la natura così prepotentemente come protagonista vera e propria delle storie narrate. E poi c'è ancora un elemento da non sottovalutare. Nel suo gangster movie assolutamente sui generis, acquista ancora una volta un rilievo peculiare il suicidio. Nel suo essere così nichilista e sfiduciato verso l'uomo contemporaneo, Kitano non solo annulla le azioni fisiche, ma conduce l'essere umano di fronte a una scelta finale. Il togliersi la vita, infatti, per permettere una salvezza alle persone amate, diventa allora un estremo rimedio, un gesto di altruismo e di presa di coscienza.
Sonatine è il canto disperato di un Giappone irrimediabilmente smarrito e la caduta sanguinosa, ma anche ridicola, dei suoi criminali ne è una perfetta metafora. Ma è anche un perfetto marchingegno cinefilo, attraverso cui un autore che camuffa la sua cultura cinematografica in realtà strizza l'occhio all'arte godardiana (il titolo di lavorazione era "Okinawa Pierrot", in omaggio a "Pierrot le fou") e cita a piene mani sia il rigore formale di illustri antenati connazionali, come Mizoguchi e Ozu, sia quella stilizzazione della messa in scena violenta e improvvisa, tanto cara a personaggi quali Sergio Leone o Sam Peckinpah.

Harakiri, rinascita, consacrazione

gettinganyNel 1994 Kitano decide di spiazzare il suo pubblico, concentrandosi in una divagazione nella sua parabola artistica. Con soli quattro film all'attivo è già uno dei registi più importanti della contemporaneità eppure, al culmine della sua evoluzione artistica e poetica, tira fuori dal cilindro l'indefinibile Getting Any?, sorta di ritorno alle origini di cabarettista demenziale. Sicuramente uno dei risultati meno rilevanti della sua filmografia, è una pellicola comica che procede per accumulo, accontentandosi di mettere insieme una serie infinita di sketch di dubbio gusto al fine di scatenare l'ilarità nello spettatore. Eppure ci sono anche intenzioni "alte" che accompagnano la realizzazione dell'opera: il film, che altrimenti risulterebbe senza capo né coda, è una lunga rassegna di generi cinematografici messi alla berlina, combinati fra loro in modo pazzo e genialoide. C'è il teen movie di partenza, quello che parla del giovane protagonista che insegue donne di ogni tipo per fare sesso e crede che la loro disponibilità all'accoppiamento sia direttamente proporzionale alla bellezza dell'automobile con cui si fa vedere in giro; ma poi c'è anche il gangster movie, inevitabilmente riferito agli ambienti della yakuza, improbabili stralci di fantascienza cronenberghiana (la mutazione dell'uomo in mosca gigante), tempi e ritmi comici mutuati dalla premiata ditta dei fratelli Zucker. Tutto è satirico e al tempo stesso citazionista nei confronti di tanti universi paralleli alla carriera di Kitano. Di certo, Getting Any? è amore per il cinema allo stato puro anche quando è la Settima arte stessa a venire ridicolizzata dalle gag inconcludenti della pellicola.
Nella prima mezz'ora si ride spesso, si viene come avvolti dal turbinio di eventi stupidi e irrazionali che si succedono freneticamente. Poi, alla lunga, l'opera si palesa per quello che è, nient'altro che un lungo e, a tratti, noioso divertissement. Colpiscono, a ogni modo, alcune scelte registiche spiazzanti di Kitano che dimostra così, in un episodio pur minore della sua carriera, una versatilità anche sul piano tecnico che ancora non avevamo imparato ad apprezzare. Qui infatti la macchina da presa si ibrida con il mondo cinematografico che si diverte a prendere in giro: ne viene fuori uno stile registico virtuoso, che dimentica, o comunque accantona, le strenue convinzioni del Kitano prima maniera. Insomma, se lo si prende per quello che è, ovvero nient'altro che una parentesi disimpegnata, è una pellicola che fa il suo dovere. Se ci si aspetta di ritrovare qui quegli stralci di irrefrenabile lirismo che si riscontrava altrove in precedenza, meglio non avere grandi aspettative.

Poco dopo la fine delle riprese di questo film, nell'agosto 1994, avviene un episodio fondamentale nella biografia di Kitano, un tremendo incidente motociclistico che gli costa quasi la vita. Egli stesso, anni dopo, rivelerà che vedeva quell'evento di cui non ricordava le dinamiche come un "inconscio tentato suicidio": risvegliandosi ancora vivo, il regista riconsidera la propria prospettiva sulla vita e sulla morte. Getting any? uscirà in patria all'inizio del 1995, dimostrandosi un buco nell'acqua sotto tutti i punti di vista, disprezzato con serenità dal suo stesso autore: rivedendolo col senno di poi, quest'opera bislacca preannunciava in filigrana l'insoddisfazione del suo creatore, il quale, attraverso un irrisolto harakiri, voleva demolire il cliché registico che gli era stato cucito addosso.

kidsreturnmonoEra quindi giunto il momento di guardarsi dentro e tentare di raccontare, più che in passato, la propria vita. Il regista lo fa in un periodo particolarmente significativo: nel 1996, con una parte del volto paralizzata e un tic all'occhio che col tempo peggiorerà, torna al cinema dopo la convalescenza. Innanzitutto, è impossibile non restare ammirati per un'altra straordinaria prova di versatilità: se prima di congedarsi provvisoriamente dal suo pubblico, il cineasta aveva dato una dimostrazione di (discutibile) comicità come ai vecchi tempi, è incredibile vederlo tornare in azione con un romanzo di formazione come Kids Return, grande successo in patria, ma flop in giro per il mondo. Come tutte le opere particolarmente sentite dagli artisti che le creano dal nulla, anche il sesto film di Kitano è un involuto tentativo di dare voce a dei sentimenti profondi covati per anni e forse pronti a esplodere dopo aver visto la morte in faccia. E così, attraverso la storia dei due ragazzacci scapestrati a scuola ma con tanta vitalità nascosta, si cela l'adolescenza del Takeshi regista, negato per lo studio ma con una strenua volontà di riuscire nel mondo dello spettacolo. Per Kitano i due mondi che possono affascinare i giovani giapponesi, incastrati in una società che spersonalizza tutto, che non lascia alcun margine alla creatività e al talento e che non ha fiducia nelle nuove generazioni, sono lo sport e la criminalità. Il racconto, che pure non rinuncia a una messa in scena come sempre raffinata e articolata, che utilizza al massimo le straordinarie doti evocative della colonna sonora del sodale Hisaishi (qui davvero al suo massimo), è però stranamente ordinario, consolatorio. Nella voglia di Kitano di guardare con ottimismo al futuro, cogliendo di sorpresa lo spettatore ormai abituato al suo nichilismo rabbioso, c'è anche l'imbarazzo di un autore che non ha confidenza con la materia che tratta. E così, se anche nella pellicola ci sono stralci di innegabile bellezza e un paio di sequenze almeno di notevole impatto emotivo (come non definire in questo modo le cavalcate in motocicletta nella periferia prima dell'imbrunire?), Kids Return risulta più che altro un punto interrogativo senza risposta nella filmografia kitaniana.
L'ottimismo insolito, si diceva. Sì, perché pur di fronte a un ineluttabile fallimento, perché fondamentalmente fra la scuola e il mondo là fuori non c'è poi grande differenza, la coppia di amici che voleva dimostrare il proprio talento e pure ha dovuto accettare una seconda sconfitta dopo quella tra i banchi e le lavagne, ha la forza di scambiarsi un inaspettato incoraggiamento per l'avvenire. "Pensi che per noi sia finita?", domanda il mancato pugile Shinji al mancato boss Masaru. Ma lui, beffardo, gli risponde: "Idiota! È solo cominciata!". Insomma, con un finale del genere Kitano porta a casa la sufficienza e ancora una volta ci dimostra il suo profondo amore per una Storia del cinema che finge sempre di ignorare. Quando Shinji, a sorpresa, si rivela più bravo di Masaru (che aveva inizialmente sognato una vita nello sport) davanti agli allenatori della palestra, il pensiero corre a Luchino Visconti e al suo "Rocco e i suoi fratelli". E corre ad Alain Delon che surclassa davanti a Paolo Stoppa il fratello Renato Salvatori. Attimi del grande cinema viscontiano che si inseguono, inaspettatamente si ritrovano e si abbracciano fra loro.

hanabikitanoNel 1997 Kitano partecipa alla 54ª edizione della Mostra d'arte cinematografica di Venezia con Hana-bi, che vuol dire, letteralmente, "fiori di fuoco" ovvero "fuochi d'artificio": il suo settimo film è uno dei più applauditi e acclamati del concorso ufficiale e alla fine della kermesse la giuria presieduta da Jane Campion lo premia con il Leone d'oro. Per Kitano si tratta della definitiva consacrazione nel panorama internazionale e anche di una rivincita su un piano della visibilità commerciale, visto che aveva molto patito per i ripetuti flop al botteghino dei film precedenti: infatti, se all'estero era poco più di un autore di nicchia (in Italia Ghezzi si era precocemente accorto di lui, volendo fortemente Sonatine al Festival di Taormina dopo la proiezione al cannense Un Certain Regard ), in patria la sua carriera registica non veniva considerata o quasi. Per alcuni è un'opera inferiore al film del 1993 o a Dolls (2002), per altri il capolavoro assoluto del regista, è superfluo aggiungere che Kitano aveva ormai raggiunto la maturità artistica e un totale controllo della macchina filmica.
Nishi, l'agente protagonista, ha una vita grama, ha perso una figlia e sua moglie è malata terminale di leucemia: è idealmente apparentato con l'Azuma di Violent Cop, sebbene la violenza di cui è portatore sia l'evidente valvola di sfogo di un disagio e di un dolore interiori. Mentre Nishi si trova in ospedale dalla moglie, il suo amico e superiore Horibe viene ferito gravemente in un agguato durante un appostamento: trovato il colpevole, il poliziotto lo uccide, dopo che questi aveva ferito mortalmente un altro agente nella colluttazione. A questo punto, Nishi dà le dimissioni e si indebita fino al collo facendo regali alla famiglia del collega morto e al suo amico Horibe, al quale compra l'attrezzatura per iniziare a dipingere, hobby che dovrebbe alleviare la sua nuova condizione di paraplegico. Infine, ormai indossati i panni del fuorilegge (abito scuro, camicia bianca e occhiali da sole nel tipico stile kitaniano), compie una rapina per saldare il proprio debito con la Yakuza e per procurarsi i soldi per portare in viaggio la consorte.
Queste poche righe di trama non rendono l'idea del racconto impostato da Kitano, visto che il montaggio di Hana-bi è tra i più complessi del suo cinema, sorprendente per le elisioni schizoidi di alcune immagini (la celebre sequenza dell'accecamento con le bacchette), per le analogie e per la dislocazione temporale di linee narrative parallele: nella prima scena del film, Nishi non è più un poliziotto, e da qui si sviluppa un flashback che si riallaccia al tempo presente, quando il protagonista va a trovare il suo amico nella clinica di cui è degente, facendogli fare una passeggiata in riva al mare. I quadri di Horibe che si vedranno nel corso della pellicola sono opere realizzate da Kitano medesimo, il quale iniziò a dipingere dopo il suo incidente: il montaggio li utilizza alternandoli, ad esempio, alla sequenza in cui Nishi ridipinge il taxi come volante della polizia, sfruttandone l'analogia, oppure, alla stregua di pillow shot che, in fin dei conti, commentano o preannunciano un'azione narrativa (si pensi al dipinto con inscritto "suicidio").
La tecnica regina di Hana-bi è dunque il contrappunto, grazie al quale il regista può far sgorgare immaginifica poesia da uno sequenza di tensione (la camminata notturna di Nishi sulla neve filtrata dall'inimitabile blu), contrapporre la brutalità alla delicatezza, il serio con il faceto (un colpo di pistola si trasforma con uno stacco negli spari della pistola giocattolo di Nishi). Il girovagare dei due coniugi sempre silenziosi ma affettuosi tra loro è quanto di più vicino ci sia a "Viaggio a Tokyo" di Ozu: qui Kitano esplora e riflette formalmente su silenzi e rumori, pieni e vuoti cristallizzati in uno spazio-tempo ripreso quasi sempre frontalmente. In Hana-bi si trova il compendio dell'arte kitaniana, tra palpiti di ferocia assassina e attimi di tenerezza, ma si ravvisa soprattutto il mutamento esistenziale subito dal suo autore: la rabbia che lo agitava si è ora rassegnata a una contemplazione della vita e della morte non più in antagonismo spirituale ed etico. L'incontro fatale è una possibilità, una scelta di cui si percepisce la dolorosa accettazione e da cui non occorre fuggire: come fa la moglie di Nishi che continua a dare acqua a dei fiori, nonostante siano già appassiti.

Kitano maestro del cinema


kikujiromonoL'estate di Kikujiro (1999) rappresenta una scanzonata vacanza on the road dopo il cupo spleen di Hana-bi. È estate, le lezioni sono finite, il campetto di calcio è vuoto, gli amici vanno in vacanza e il piccolo Masao si sente solo a casa della nonna. Un giorno, rovistando in un cassetto, scopre casualmente che la madre che non vede da anni abita molto lontano da Tokyo, a Toyohashi, ma decide comunque di partire per andarla a trovare. Una vicina di casa, incontrandolo per strada, lo affida al marito scansafatiche (Kitano) affinché lo porti a destinazione sano e salvo, ma l'uomo spreca i soldi datigli dalla donna non per pagare il trasporto, bensì per le scommesse al velodromo. Senza uno yen in tasca, uscito dal locale dove aveva cenato (lasciando fuori il bambino), si accorge che Masao è sparito: era stato infatti allontanato da un pedofilo, ma il suo intervento arresta fortunosamente la molestia. A questo punto, lo strano signore senza nome capisce che è il momento di prendere sul serio il suo compito e il viaggio ha realmente inizio.
Il modello al quale Kitano si rifà è "Il monello" di Charlie Chaplin e il suo protagonista è difatti la traduzione di Beat Takeshi del Vagabondo, una versione litigiosa e irriverente verso tutti e tutto. L'umanità e l'umorismo infuso da Kitano rendono L'estate di Kikujiro una delle sue opere più preziose e solari, dove dominano i colori caldi della stagione estiva come il giallo e il verde, sebbene, nel complesso, il film non sprizzi felicità da ogni scena: è, anzi, una commedia con un sottofondo triste e malinconico, non privo di qualche reminiscenza autobiografica. Il nome del "gambler" a cui dà corpo Beat Takeshi, rivelato solo nel finale, è Kikujiro, nome anche del padre del regista; e quando va a trovare la madre, Kitano omaggia la propria madre a quel tempo ricoverata in ospedale e che sarebbe morta quello stesso anno. A tal proposito, si evidenzia come il legame instauratosi tra Kikujiro e Masao si saldi grazie all'immedesimazione che ha l'adulto nei confronti del bambino: l'uomo, quando coglie tutta la delusione del suo piccolo compagno di viaggio nel vedere la madre con una nuova famiglia, fa di tutto per distrarlo e per regalargli scampoli di gioia - come si potrà constatare in seguito, anche lui è un figlio non riconciliato.
Il racconto è intessuto di gag e sketch che non supportano un reale sviluppo o una crescita dei protagonisti, contraddicendo l'orizzonte tipico del road movie e del picaresco: è come se Kitano avesse dilatato a dismisura l'intervallo della guerra tra bande di Sonatine, dedicandosi completamente agli scherzi a lui tanto cari e al gioco. Per mezzo del contrappunto e di una combinazione antifrastica delle immagini, il regista mette in scena numerose sequenze comiche dai toni sovente demenziali e nonsense: memorabili quelle in piscina, dove Kikujiro inizia a nuotare come un ossesso finendo a gambe all'aria sul salvagente, oppure l'episodio dell'attesa alla fermata d'autobus (dove ha un breve cameo Beat Kiyoshi) che ha il suo culmine nella cecità simulata dall'uomo per scroccare un passaggio alle auto in transito.
L'estate di Kikujiro assume le sembianze di una parentesi di vita, della pausa estiva esperita con inconsueta spensieratezza, come un'avventura fiabesca e o un sogno dove Kitano non si preoccupa affatto dei possibili effetti naif di alcune scelte, come le sovrimpressioni digitali degli angioletti o la proiezione del cielo stellato nei sogni di Masao, poiché pertengono all'universo infantile al quale Kikujiro appartiene tanto quanto il piccolo che accompagna. Nota di merito all'impatto della colonna sonora di un ispiratissimo Hisaishi, la cui "Summer", oltre a essere reiterata nel corso della pellicola, è rimasta una delle sue composizioni più celebri e amate.

anikikitanoDopo aver interpretato se stesso nel controverso e feroce Battle Royale di Fukasaku, in apertura di millennio, Kitano porta compimento il progetto co-prodotto da Jeremy Thomas, che aveva conosciuto sul set di "Merry Christmas, Mr. Lawrence". Si tratta di Brother (2000), uno yakuza-eiga di ambientazione esotica, prima e ultima sortita di Beat Takeshi negli Stati Uniti. Kitano interpreta Yamamoto, detto Aniki (appellativo onorifico che indica il "fratello maggiore"), un affiliato della Yakuza il cui clan viene smembrato dalla famiglia rivale dopo l'assassinio del suo boss: rimasto solo, gli viene suggerito di abbandonare il paese. Seppur a malincuore, parte per l'America dove abita il fratello minore che mantiene agli studi; naturalmente il fratellino, piuttosto che studiare, vivacchia con un gruppo di amici etnicamente misto, spacciando droga per conto di un clan portoricano e Yamamoto finisce per mettersi in mezzo. Una scena chiave del film vede Aniki accogliere il suo fedele luogotenente colpendolo con il calcio della pistola, ancor prima di poterlo riconoscere: quando Kato gli chiede il motivo del gesto, Yamamoto sogghigna dicendo che è in guerra anche in America. Kitano è sempre stato un critico agguerrito nei confronti dell'imperialismo americano, sia in termini culturali che politici (in una battuta di Sonatine si imprecava contro un ordigno che non esplode, dicendo che era "made in America"), ma Brother non porta con sé queste caratteristiche quanto piuttosto un discorso di continuità nel genere di riferimento, cioè il gangster movie.
Denso dei motivi e del linguaggio del suo autore (l'incastro narrativo dell'incipit ricalca Hana-bi), Brother si configura come una variazione sul tema di Sonatine, con uno yakuza che ricostruisce in esilio il fantasma del proprio mondo. Se nel capolavoro del 1993 Murakawa ingannava la morte organizzando dei giochi coi propri uomini, fatti di scontri simulati e di roulette russe truccate, qui Yamamoto ne dilaziona l'incontro scappando altrove; ma, riproponendo il medesimo modus vivendi, si ritrova di nuovo in guerra e attende a questo punto il fatale incontro senza alcun timore ("È finita... moriremo tutti" annuncia ghignando al fratello, quando la mafia italo-americana inizia la sua ritorsione).
Come detto per Hana-bi, il Kitano-pensiero è notevolmente cambiato e, difatti, non dirige il proprio personaggio verso un personalistico suicidio da samurai, ma lo rende un diversivo, un sacrificio in favore di Denny, il fratello elettivo a cui salva la vita. Brother si presenta come un esperimento di ibridazione linguistica affascinante anche per l'irresoluzione di fondo: come ammetterà in seguito Kitano, non celando una certa insoddisfazione per il risultato finale, il film poteva ambientarsi ovunque, visto che il set americano non ha alcun valore strutturale - di questo livello si preoccuperà con maggiore sensibilità Sion Sono quando realizzerà "Hazard" (2005), opera che mantiene qualche debito col nono film kitaniano.
Imperfetto e incompreso, Brother si risolve in un flop e convince Kitano a non riprendere in mano le armi degli yakuza per molti anni.

dollsmonografia.Che cos'è l'amore se non la ricerca di una perfezione sublime in una realtà che è tutto fuorché sublime e perfetta? La fotografia del sentimento più profondo e più narrato dal mezzo cinematografico Kitano la compie con Dolls, opera presentata a Venezia nel 2002, capace di cogliere nuovamente tutti di sorpresa per una nuova, incredibile svolta nella carriera del cineasta nipponico. Dopo la trasferta americana, si compie la catarsi totale. Takeshi abbandona ogni riferimento alla cultura occidentale, elementi sempre critici ma costantemente presenti, e si lancia in un ardito parallelismo tra il teatro Bunraku, quello della tradizione medievale delle marionette, e il Giappone contemporaneo, un paese ancora una volta immortalato nella sua pressoché irreversibile spersonalizzazione. E qui Kitano ambienta tre storie diverse, tre episodi che mettono in scena storie d'amore contrastato, il cui finale ineluttabile è sempre lo stesso: la morte come via d'uscita tragica ed estrema a una realtà inaccettabile.
C'è la storia dei due amanti tormentati, con un matrimonio per interesse di lui e un tentato suicidio di lei, che decidono di vagare per le stagioni del tempo legati da un filo rosso, senza meta e senza più alcun entusiasmo. C'è il boss yakuza che, in tarda età, rimpiange la tenerezza di un sentimento adolescenziale e proprio quando ritrova la donna di un tempo subisce un regolamento di conti mafioso. E c'è la star della musica pop, il cui sogno di gloria termina in un brutto incidente che le sfigura il volto e provoca l'insostenibile dolore del suo più affezionato fan che, per una forma di solidarietà amorosa, si cava gli occhi.
Con un montaggio alternato di grande classe e maestria, che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, la bravura di Kitano anche in fase di post-produzione dei film, Dolls è uno straziante melodramma sull'impossibilità dell'amore ai nostri giorni, sul contrasto tra una società frenetica e in continuo mutamento e il bisogno dell'essere umano di sentirsi legato a solide e sincere radici che affondano nella tradizione di un popolo e di un paese. E ancora una volta, il Giappone dipinto da Kitano è al tempo stesso crudele e bellissimo. Il mare, la foresta, la città, la campagna, il passare di autunno, inverno, primavera ed estate, tutto viene ripreso con un occhio che è parte di quel mondo, ma che al tempo stesso non risparmia allo spettatore la verità più cruda. L'apparenza, cioè la momentanea e fuggevole bellezza, nasconde invece un senso di inquietudine, di smarrimento generale.
Dolls è una delle opere più sorprendenti nel corso della filmografia del regista giapponese perché arriva come un pugno nello stomaco: colpisce i suoi detrattori perché dà prova di un talento registico senza pari al giorno d'oggi e spiazza i suoi ammiratori, perché ancora una volta è capace di cambiare registro improvvisamente. Ma, forse, il furore giovanile, quella irriverente irrequietezza delle prime opere si è fatta solo più introspettiva, pronta a esplodere nel cuore di chi guarda giunti al termine della visione. Allorché resta in ognuno un sentimento di lacerante commozione.

zatoichikitanomonoDopo aver cantato la morte delle proprie radici e raggiunto lo zenit romantico con Dolls, il percorso di Kitano potrebbe sembrare arrivato a un punto di non ritorno. Oltre, nell'opera di perfezionamento narrativo e stilistico, sarebbe difficile andare. Ecco giungere allora la caleidoscopica opera onnicomprensiva delle sue ossessioni/passioni, il film-monumento alla Settima arte stessa da parte del regista giapponese. Il mondo ottocentesco dei samurai, infatti, è solo il pretesto per un'enciclopedica rassegna su ciò che è cinema per Kitano: Zatoichi è infatti omaggio al Medioevo nipponico, al teatro tradizionale, al musical di Broadway, allo spaghetti-western, fino alla commedia intesa in tutte le sue accezioni, dal demenziale al gioco degli equivoci.
Attraverso la storia, in fin dei conti esile e leggera, del massaggiatore cieco che si ferma in un paese oppresso da una gang spietata e che, attraverso un'abilità fuori dal comune nell'uso della spada, regolerà tutti i conti e aiuterà la collettività a sfuggire alla morsa della malavita, Kitano mette in scena il suo lungometraggio sicuramente più teorico. Mettendo, almeno in parte, in stand-by l'evoluzione del suo personale nichilismo e della sua sempre coerente concezione del mondo, Zatoichi dà l'occasione per raggiungere due nuovi ed esaltanti obiettivi. In primo luogo, Beat Takeshi si rimette al centro della scena, riservando a se stesso il ruolo del protagonista, concedendosi alcuni vezzi egocentrici, quali una tintura di capelli biondo platino alquanto fuori tempo rispetto all'epoca della vicenda. Un modo, insomma, per ribadire la sua presenza "totale" nella cinematografia, anche e comunque davanti alla macchina da presa, con la sua unica e sempre stupefacente mimica azzerata, fatta di pochi tic e poche espressioni catturate dai primi piani insistiti. E in secondo luogo, l'alleggerimento dei significati diversi nascosti nella sceneggiatura fanno di questa pellicola d'azione in costume l'escamotage perfetto per un gioco cinefilo spudorato e raffinato. Kitano si fa coreografo dei combattimenti, si diverte a disseminare lungo il percorso rimandi ai generi più disparati, costruisce attorno alla sua consueta ossessione per il non senso e l'imprevedibile una vera e propria categoria a parte. Cita, inoltre, a piene mani il cinema dell'amato padre della patria Akira Kurosawa: dalla fascinazione per le scene sotto il diluvio agli espliciti rimandi al mondo dei samurai come lo aveva ritratto il suo più importante cantore, Kitano fa rivivere con un ritmo fulminante e una tensione ostentata la grandezza del genio di Kurosawa. Il suo nutrirsi di cinema si esalta nel pre-finale, con la messa in scena corale del lavorio dei contadini a tempo di musica, una scena iper-virtuosa, costruita con un montaggio "sconsiderato", capace di alternare il ballo di gruppo a momenti rivelatori della trama sconnessi nel tempo e ripescati letteralmente dal passato. Una sequenza che frulla in pochi minuti i rimandi al Lars Von Trier di pochi anni prima, quello di "Dancer in the Dark", con il cinema puro e alto del Maestro Akira.
Ma il Kitano cinefilo, che riflette sul mezzo cinematografico e sulle sue infinite possibilità, non si accontenta mai di soggetti scontati o inconsistenti. Anche in Zatoichi, infatti, si prende il tempo di ritagliare non solo per sé, ma anche per un altro interprete un personaggio di proporzioni titaniche. È il grande Tadanobu Asano, che poco prima di questo film aveva attirato la curiosità di critica e pubblico occidentale interpretando il gangster sadico Kakihara nel capolavoro di Miike "Ichi the Killer". Qui è Hattori, la nemesi di Zatoichi, in paese per accettare l'incarico di guardia del corpo del boss locale e alle prese con una moglie gravemente malata. Il confronto a distanza tra i due concetti di onore, di lealtà e di rispetto delle radici sono la chiave di volta narrativa che eleva l'opera a momento miliare nella filmografia kitaniana. Meritoriamente insignito del Leone d'argento per la miglior regia alla 60ª edizione della Mostra del cinema di Venezia.

La trilogia del suicidio


takeshis2005mono"Non capisco tutte queste interpretazioni sul film, avevo solo voglia di divertirmi. Questa pellicola non ha alcun significato ulteriore". Così parla Kitano quando spunta fuori a sorpresa, nel 2005, in concorso a Venezia con Takeshis', il suo nuovo lungometraggio mai uscito nelle sale. In realtà, quello che comincia con quest'opera è un nuovo percorso per il cineasta, quello che alcuni chiameranno "la trilogia del suicidio artistico", giocando su uno degli elementi cardine della sua poetica consolidata. Ma anche questa definizione è alquanto riduttiva. Parrebbe, infatti, che a Kitano interessi solo l'aspetto più provocatorio dei nuovi film, la loro autoreferenzialità e distanza dal pubblico. In realtà, dietro ogni tassello del meta-cinema inscenato a partire dalla pellicola del 2005, si nasconde una profonda e per nulla banale riflessione sullo stato dell'arte, della propria vita professionale e del proprio rapporto con l'essenza stessa dell'universo cinematografico.
Per la prima volta Takeshi interpreta se stesso, attore di successo, sballottato da un set all'altro, scortato da assistenti e lacchè, che a un certo punto si imbatte in un suo sosia: un tristissimo clown che sogna a occhi aperti una carriera nel mondo del cinema. L'incontro è solo un pretesto: davanti alla cinepresa giocosa di Kitano si apre un meccanismo di matrioske impossibile da decodificare pienamente. Il lungometraggio non ha senso né logico, né cronologico: attraverso un pericoloso alternarsi di realtà e onirismo, di set cinematografici sognati e altri realmente esistenti, il regista distrugge qualsiasi ipotesi di senso compiuto e libera, come fosse su un lettino dello psicanalista, un flusso di coscienza sulla propria carriera, sulla strada fatta fino a questo punto. Attraverso le allucinazioni beffarde del "sig. Clown", il vero Kitano, quello che sorride sornione dietro la macchina da presa, ripercorre la sua storia artistica, mantenendo il suo carattere spietato anche nel rileggere se stesso.
Il livello di ironia parodica è pesante su ogni angolo del cammino: dall'ossessione per il mondo della yakuza alla messa in scena della violenza, dall'immortale nostalgia per le radici della società nipponica agli elementi ricorrenti in tutti i suoi capolavori (il suicidio, il mare, l'uso del fuori campo). In Takeshis' si ironizza su tutto questo, in un'operazione esorcizzante e rigenerante. Fino all'inevitabile finale beffardo. Molti hanno storto il naso di fronte a questa nuova piega del cinema kitaniano. Ma, dietro gli eccessi onirici e l'esasperata illogicità dei pochi snodi narrativi, il film emana un'energia positiva e un sentimento diffuso di sincerità. La maschera impassibile del Takeshi attore lascia trasparire la voglia di mostrarsi al pubblico per come si è, evidenziando al contempo pregi e difetti del proprio modo di intendere la Settima arte. Una visione sicuramente ostica anche per gli spettatori affezionati, ma che, dopo una diffidenza iniziale, non può che crescere nel corso degli anni. Una precisazione, doverosa, è ancora una volta per il Kitano meno noto, quello che si siede in saletta di montaggio. L'editing di Takeshis', che procede per associazioni di idee e accumulo di situazioni contrastanti, sottolinea ancora una volta la genialità dell'autore, capace di creare dalla materia informe sequenze di immagini di potenza inaudita.

Nel 2007 il Festival di Cannes celebra i suoi sessant'anni e Kitano è convocato da Gilles Jacob, insieme ad altri suoi illustri colleghi (32, per la precisione), per realizzare uno sperimentale film ad episodi, della lunghezza ognuno di circa tre minuti e mezzo. L'unico requisito è che ci sia il cinema di mezzo, inteso come sala cinematografica. In One Fine Day, l'episodio di Chacun son cinéma firmato da Kitano, il regista decide di ambientare la sua microstoria in una placida campagna. Il cinema è l'unico edificio dove potersi riposare. Lo fa un operaio che si accomoda al buio per vedere Kids Return, ma, per colpa di un imprudente responsabile della proiezione, interpretato proprio da Beat Takeshi, la pellicola verrà proiettata a singhiozzo. Forse troppo poco per godere della visione pienamente, ma, come direbbe proprio il regista, abbastanza per dimenticare il mondo là fuori e tornare al lavoro rinfrancati.

gloryfilmmakermonoSe Takeshis' rifletteva sul Kitano come uomo di spettacolo, figura imponente dello show-business giapponese, Glory to the Filmmaker! (2007) si focalizza su un altro aspetto del personaggio, l'essere regista. La seconda autoanalisi è forse quella che ci preme maggiormente, essendo uno spietato esame autoptico: nell'incipit Takeshi Kitano, nel ruolo di se stesso, dovrebbe fare dei controlli medici (tac, endoscopia, ecografia) ma li evita mandando al suo posto un pupazzo che gli farà da controfigura durante tutto il film. L'assunto di partenza, commentato da una voce narrante come se stessimo assistendo a un documentario, è che non può più esserci un cinema per Takeshi Kitano: infatti, l'autore di yakuza-eiga di successo, avendo affermato di non voler fare più film violenti, rinuncia all'unica certezza della sua carriera trovandosi a dover andare a avanti a tentoni in territori inesplorati. Esattamente come il calviniano "Se una notte d'inverno un viaggiatore", teorico romanzo postmoderno, cominciano ad affastellarsi sullo schermo una serie di lacerti filmici eterogenei che destrutturano non solo la filmografia kitaniana, ma l'intero cinema giapponese.
Il primo segmento è dedicato al gangster movie con un reshoot di una sequenza di Boiling Point, ma è ovvio che ora Kitano dovrà dedicarsi ad altri soggetti, come un'opera sulle traversie dell'umile gente alla maniera di Ozu: ed è così che il film passa in bianco e nero seguiamo per qualche minuto la triste storia di un impiegato in pensione, finché il narratore non si accorge che Beat Takeshi non ha il physique du rôle, pertanto il progetto viene abortito. Si passano in rassegna delle variazioni sulla commedia romantica, genere che in Giappone ha spesso un grande successo commerciale, chiodo fisso di Kitano che, almeno fino alle soglie del 2000, si lamentava dell'insuccesso economico delle sue opere: naturalmente anche queste sequenze sono sbilenchi abbozzi di film che non vanno da nessuna parte. Un'aura parzialmente autobiografica emana invece l'episodio che tratta dell'infanzia in un sobborgo periferico, con il personaggio del padre, imbianchino ubriacone e violento, chiaramente ispirato al genitore dell'autore.
La seconda parte di Glory to the Filmmaker! è occupata da un unico "possibile film", una parodia dei film catastrofici che vira immediatamente verso la comicità demenziale, perdendosi in una marea di gag nonsense attraverso l'intrecciarsi di più personaggi. Kitano interpreta il factotum/guardia del corpo di un potente uomo d'affari e filantropo, con il potere di trasformarsi in un pupazzo quando le situazioni diventano complicate o noiose. Ritorna essenzialmente allo stile di Getting Any?, con un risultato altrettanto folle ma più controllato. Inoltre, il delirio autodistruttivo del regista ha una direzione tanto precisa quanto qualunquista, scagliandosi e irridendo tutto e tutti, coinvolgendo ogni personaggio e ogni storia nell'apocalisse finale: dalle cui macerie si staccano imperiose le lettere che compongono il titolo del film.

achilletartarugamonoLa conclusione del trittico è lasciato ad Achille e la tartaruga (2008), impietosa analisi sulla figura dell'artista tout-court. Machisu, privilegiato figlio di un ricco imprenditore, dopo il fallimento e suicidio di questi, si ritrova orfano a fare i conti con una vita difficile e con la decisione, già fatale, di diventare artista. La prima parte del film, dedicata all'infanzia, ha i tempi e la leggerezza narrativa de L'estate di Kikujiro e Kitano conduce il racconto al pieno della sua forma: Machisu vede la pittura come forma di comunicazione immediata, primitiva e ingenua, che allevia le sue sofferenze e gli permette di estraniarsi dal mondo che lo circonda. La fase della giovinezza diventa uno snodo importante dato che il giovane pittore scopre le accademie e, spinto da un critico, comincia a dipingere in base agli studi di storia dell'arte; così Machisu da creatore retrocede allo status di imitatore: ce lo ritroviamo uomo di mezz'età che continua a sbattere la testa sul muro bianco dell'arte, che aspetta di essere stravolto. Nonostante il supporto della moglie, l'unica a credere veramente in lui, la sua è una corsa superflua verso la gloria dell'artista, come nel paradosso di Zenone, dove Achille, per quanto si impegni, non potrà mai riuscire a raggiungere e superare l'inesorabile tartaruga.
Se la parte centrale è forse quella più debole e scontata con la tesi sin troppo scoperta, dall'entrata in scena di Kitano si assiste a un ispessimento della vena grottesca e tragica. In questo ritratto di "mal d'arte" Machisu perde tutto e vive gli avvenimenti come attutiti e filtrati dal suo occhio d'artista: il regista, con la consueta espressività che è ormai un cortocircuito di tic, mette in scena senza timore il proprio pessimismo nei confronti della vanagloria e della cosiddetta Arte, che succhia la linfa vitale dei propri adepti, li costringe al sacrificio e procura immensi dolori finanche arrivare ad ucciderli. La riflessione di Kitano si conclude inquadrando Machisu ai lati della strada che tenta di vendere una lattina di Coca Cola usata come "oggetto d'arte"; per l'ennesima volta viene salvato dalla moglie (che in precedenza l'aveva abbandonato) e si accomiata da loro riprendendoli mentre si allontanano, come nel finale di un film chapliniano. Forse la sofferenza ha cambiato lo spirito di Machisu, oppure neanche il fallimento del suo harakiri artistico l'ha placato. Non è dato saperlo, sebbene sorga il dubbio che la fine della "trilogia della crisi" possa far calare definitivamente il sipario sulla fase creativa del regista giapponese: come se, attraverso il protagonista di Achille e la tartaruga, Kitano denunciasse che l'eccesso di consapevolezza del mezzo d'espressione, abbia provocato la perdita di quel nitore stilistico sconvolgente, quando creava dal niente nuove forme cinematografiche.

La maschera e l'oltraggio


outragemonoRivedendo il regista tornare alle consuetudini gangsteristiche ci si può chiedere se esso rappresenti l'inizio di un nuovo mood, oppure se si tratti di un divertito "run for cover": il sottotitolo inglese recitante "a survival game" (un gioco di sopravvivenza) fa intendere che l'anima ludica (e nichilista) del Kitano della trilogia del suicidio persiste ancora. Outrage (2010) è un film dalla durezza granitica che analizza le dinamiche della yakuza del nuovo millennio alle prese con il cambio generazionale, dove i "piccoli yakuza" soccombono di fronte ai piani orditi dai padrini, che scatenano una guerra per il dominio sul territorio. È quello che succede a Otomo (Beat Takeshi), il quale, agli ordini del suo padrino Ikegami, iniziando da piccoli contrasti, scatena una lotta intestina col boss Murase. In verità, sono tutti burattini nelle mani del presidente Mr. Chairman che vuole fare piazza pulita; senza rendersi conto, a sua volta, di chi alleva in casa sua. Lo sguardo di Kitano, come mai prima d'ora, si mostra algido, privo di empatia verso personaggi che studiano piani solo per fare le scarpe all'avversario: lo stesso Otomo pur essendo la cosa più kitaniana del film, ovvero la figura dello yakuza di seconda categoria che tiene fede a un codice ormai sepolto ("Questa cosa del mignolo tagliato è superata. Non vale niente", viene affermato nel corso della pellicola) è un personaggio a cui l'autore non lascia nemmeno una fine onorevole. È naturale, dunque, che un'opera basata essenzialmente sulle dinamiche e sulle strutture gerarchiche caratterizzi personaggi che si limitano a funzionare, per portare avanti quell'effetto domino che si concretizzerà nell'impennata finale: gli ultimi venti minuti sono un susseguirsi di omicidi, dai più cruenti ai più fantasiosi, uno spietato gioco al massacro.
La macchina da presa coi suoi movimenti fluidi s'insinua in questi meccanismi e ricorda non poco la lotta per la successione della Triade raccontata magnificamente nel dittico di "Election" dell'hongkonghese Johnnie To. Siamo molto lontani dalle estasi di violenza di Sonatine, visto che in Outrage ogni efferatezza è mostrata nella sua lucida cattiveria; e il colore dominante, persino nelle sequenze notturne dove solitamente dominava il blu, è il nero: carrozzerie, vestiti, atmosfere, tutto è lucidamente cupo. Anche la colonna sonora di Keiichi Suzuki con le sue composizioni sintetiche e pulsanti contribuisce a quest'effetto.

kitanooutragebeyondTra il pretesto per divertirsi con le storie di yakuza tanto care al cinema giapponese e la necessità economica di continuare a battere cassa con un filone dal facile successo commerciale (Outrage si era rivelato un fenomeno al botteghino), in conferenza stampa, alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012, Kitano raccontò più o meno con queste parole la genesi del sequel di Autoreiji: "Otomo non è morto: facciamoci un film".  All'inizio di Outrage Beyond capiamo che sono passati cinque anni dalle vicende narrate nella pellicola precedente: la famiglia Sanno guidata da Kato prospera ed è diventata egemone anche grazie al suo aggancio in polizia che, vedendo i suoi capi cominciare a organizzarsi per fermare l'escalation criminale, cerca di ordire un piano per far esplodere dall'interno la presidenza di Kato. Infatti, il boss ha sostituto coi suoi giovani protetti yakuza più anziani nelle posizioni migliori della società, e una mossa del genere gli ha creato molti nemici. Inoltre premono di Hanabishi di Osaka, segreti alleati di Kato ma interessati ad estendere il loro potere. Il detective Kataoka conosce le regole del gioco e tira fuori il suo asso nella manica: Otomo che, nel film precedente, si arrendeva alla lotta intestina e veniva poi accoltellato in carcere per vendetta.
A questo punto si impone un ripensamento su Beat Takeshi come corpo attoriale, centrale nel cinema di Kitano: se Otomo era coerente con la sua galleria di personaggi, quel finale appariva oltraggioso per chi si è sempre gettato nelle braccia della morte per mantenere salva la dignità e mondare la propria anima. Un ragionamento del genere ha quindi un certo peso nel bilanciere della solidità autoriale nell'impianto di questo dittico, poiché rilancia la continuità nell'attività autodistruttiva che il regista giapponese opera nei confronti di se stesso e del (suo) cinema: se la trilogia del suicidio destrutturava l'universo artistico di Kitano, in Outrage l'autore scompagina le coordinate della propria maschera. Di conseguenza, in Outrage Beyond Kitano compie un passo ulteriore ed esprime chiaramente la propria posizione nel mondo attraverso le gesta del suo consueto personaggio che si muove parallelamente all'autore transitando da pellicola a pellicola. Otomo, che all'inizio sembra ordire un piano machiavellico e segreto per vendicarsi, vuole solo sfruttare tutte le sue conoscenze al fine di raggiungere l'obiettivo finale di tirare a campare. Infatti, l'oltraggio ulteriore del film è quello che si consuma nelle ultime battute: Kataoka, il quale crede di essere riuscito a innescare una lotta tra le due famiglie più potenti, arma la mano di Otomo affinché vada a difendere il suo onore, ma lui ghignando gli spara a bruciapelo e volta le spalle a un possibile scontro. Sta qui lo scarto, la spiazzante rivoluzione: Kitano s'è fatto furbo, non si fa ammazzare.

Bibliografia

AA.VV., Radiografie: Ritratto di una crisi, in "Duellanti" n. 54, luglio-agosto 2009, pp. 5-12.
enrico ghezzi, Cose (mai) dette: Fuori orario di fuori orario, Bompiani, Milano, 1996.
Takeshi Kitano, Asakusa Kid, Mondadori, Milano, 2002.
Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma, 2010.
Biography, http://www.kitanotakeshi.com/.

NOTA
Giancarlo Usai ha scritto di "Sonatine", "Getting Any?", "Kids Return", "Dolls", "Zatoichi" e "Takeshis'". La restante parte della monografia è a cura di Giuseppe Gangi. I voti espressi nella filmografia sono il frutto di una media ponderata tra i due redattori.
Un ringraziamento particolare va ad Alessandro Biagioli, autore della prima scheda su Takeshi Kitano pubblicata da OndaCinema.





Takeshi Kitano