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Presentato in concorso durante la Semaine de la Critique di Cannes, "Piccolo Corpo" è un film un viaggio nell'elaborazione del lutto, ambientato nel Friuli di inizio Novecento. Abbiamo avuto il piacere di inervistare la regista Laura Samani, e di approfondire con lei alcuni dei temi del film.

Guardando "Piccolo Corpo", colpisce il ruolo significativo che in esso viene ad assumere il territorio: il Friuli rurale di inizio Novecento nel quale sono ambientate le vicende. Lungi dal rimanere un semplice sfondo, l'ambientazione diventa infatti protagonista vera e propria delle vicende. La dimensione del viaggio sottolinea l'eterogeneità di questa regione e viene da chiedersi se l'idea del film non nasca proprio dall'esigenza di raccontare questo luogo…

Credo che le storie siano uguali dappertutto, ma per me è spontaneo immaginarle nella regione in cui sono nata e cresciuta. Sono partita dall'idea di raccontare un luogo che non è il Friuli Venezia Giulia, ma il limbo. Non solo quello della dottrina cattolica, ma anche e soprattutto il limbo del parlare comune, quella zona di confine in cui si trovano, per motivi diversi, sia Agata che Lince.

Il film, in ogni caso, è recitato in dialetto. O meglio, in più dialetti: una lingua che muta a mano a mano che dal mare ci si avventura verso le montagne. Le tradizioni rurali emergono tramite piccoli riti, canzoni popolari e gesti di vita quotidiana. Qual è stato il lavoro di ricerca storica e folcloristica dietro alla realizzazione del film?

Un lavoro consistente che è iniziato come indagine ed è diventato reinterpretazione. Sono partita con un approccio filologico, c'è stata quindi una ricerca imponente di immagini di archivio e di documenti che parlavano dei pellegrinaggi ai santuari del respiro. Ma un po' alla volta mi sono distanziata da questo rigore e ha preso sempre più spazio l'aspetto immaginativo, simbolico e favolistico al tempo stesso. Questo pensiero era in atto fin dalla scrittura, in realtà: con Elisa Dondi e Marco Borromei, coautori di “Piccolo corpo”, abbiamo sempre parlato di favola cruda.
Discorso a parte è la lingua. Anche qui c'è una mancata fedeltà in atto, in favore di una scelta politica. La mia è una regione in cui l'italianizzazione in epoca fascista è stata particolarmente violenta: era vietato parlare dialetto.
Penso che la lingua sia la famiglia che ti porti appresso quando non sei fisicamente con essa, quindi quel divieto mina le tue radici, la tua identità. Ho chiesto alle persone coinvolte nel film, ove possibile, di parlare nell'idioma in cui pensano, in cui sognano. Quindi ci sono degli “errori” linguistici: sull'isola di Agata in teoria tutti dovrebbero parlare lo stesso dialetto, invece ad un orecchio attento è chiaro che sono dialetti diversi tra loro, dal maranese, al triestino, passando per il concordese e il graesan.

Ondina Quadri però (co-protagonista delle vicende) è un'attrice fiorentina, di adozione romana. Recitare in una lingua non sua dev'essere stata una bella sfida! Qualche aneddoto?

Infatti Ondina è una delle eccezioni a questo invito all'uso dell'idioma in cui si pensa. Ha dovuto imparare le battute in carnico! Ondina ha un ottimo orecchio ed è molto caparbia, ma il carnico ha sonorità lontanissime da quelle a cui era abituata. Abbiamo scelto un approccio immersivo: fin da subito ha passato del tempo nelle location del film, insieme alle persone del luogo. Ad aiutarla in questo processo è stata Giacomina Dereani, che nel film interpreta la brigantessa.

Al di là dei vari idiomi, la questione linguistica mi pare centrale anche da un punto di vista contenutistico. D'altra parte, il "viaggio nell'Ade" compiuto da Agata avviene proprio per questo motivo: per poter dare un nome alla sua bambina, nata morta, e sottrarla così al limbo.
I nomi, le parole, acquistano dunque un'importanza particolare nel film, come se soltanto dando un nome alle cose, fosse possibile portarle all'esistenza. Il linguaggio è dunque essenziale all'uomo per comprendere la realtà. È così?

Più che per comprendere la realtà, per me il linguaggio è legato all'esistenza delle cose e in seconda istanza alla possibilità di possederle. Il vangelo di Giovanni inizia con “In principio era il verbo”, che in buona sostanza significa che se le cose non hanno un nome, semplicemente non esistono. E poi c'è appunto la questione dell'appartenenza, della proprietà affettiva, se nomino o rinomino qualcuno, questa persona è un po' più mia. Se ci pensi, i soprannomi sono proprio questo: dei battesimi.

Passando invece a un altro linguaggio, quello cinematografico: "Piccolo Corpo" è un lungometraggio di fiction, ma in diverse inquadrature assume i toni del documentario. Che legame vedi tra questi due generi, apparentemente antitetici?

Volevo sentire la fatica, il freddo, la ripidità del terreno, la luce nel modo più simile a quello in cui li stanno vivendo Agata e Lince. Come dicevo prima: favola, ma cruda.

A mano a mano che la narrazione procede, inoltre, il realismo cede il passo ad alcuni elementi soprannaturali. In un film così ben inserito in un contesto storico, sociale e geografico, come spieghi questa scelta?

Il film è pensato come un chiasmo, in cui a livello fisico e quindi esterno Agata compie un viaggio ascensionale, dal mare alla montagna, mentre internamente, quindi a livello psicologico ed emotivo, discende. Sprofonda dentro di sé.

Forse anche un viaggio alla scoperta della propria femminilità? Il tuo in effetti è un film tutto al femminile. I due gesti radicali che Agata compie (all'inizio del film e nel finale) seguono entrambi ai commenti di due personaggi maschili, incapaci di comprendere il dolore della protagonista. Sbaglio?

Non sbagli, ma è un po' un caso. Il prete non è un uomo insensibile o cattivo, ma è emissario ed esecutore dell'istituzione ecclesiastica, che ha solo uomini nei ruoli apicali. Se esistessero le pretesse nella chiesa cattolica, forse quella scena sarebbe stata con una lei. Mentre il barcaiolo è ispirato alla figura mitologica di Caronte. Tra i personaggi che innescano qualcosa in Agata c'è anche Ignac, colui che dice ad Agata dell'esistenza del santuario e che quindi la vuole aiutare.
Per me la questione nel film è che Agata è una persona che sta male e non riesce a uscire da questo pozzo nero. Quando si soffre, si ha la presunzione che nessuno abbia mai sofferto così tanto come te e mai nessuno lo farà in futuro. C'è una forma di ulteriore solitudine auto inflitta, oltre al dolore che stai già provando.

E alla femminilità si collega direttamente la maternità. Qui una maternità mancata, ma comunque fortemente sentita, nonostante tutto. Agata è madre, nonostante la sua bambina sia nata morta. Come viene intesa la maternità?

Agata vive la maternità come fusione e infatti non riesce a interrompere questo legame, sposta metaforicamente la pancia sulla schiena, facendo diventare la bambina un peso che si porta sulle spalle. Questa maternità è un pretesto per parlare di una cosa universale, che è imparare a lasciar andare le cose.

Anche sul rapporto uomo/natura il tuo film sembra tracciare una distinzione tra il mare, capace di curare le ferite e di portare vita, e la montagna: antro oscuro che conduce alla fatica e allo smarrimento. Vuoi dirci due parole in più su questo aspetto?

Il mare è anche inefficace nel rito propiziatorio iniziale e la montagna è anche luminosa e accogliente nel momento del film in cui Agata e Lince iniziano ad avvicinarsi. Non ho mai pensato di significare il mare positivamente e la montagna negativamente. Piuttosto si tratta di cosa rappresentano questi due mondi per Agata: lei è un personaggio marino, l'acqua (salata) è il suo elemento, la montagna le è estranea, non ha mai visto la neve in vita sua prima di intraprendere il viaggio.

Grazie mille davvero. Un'ultima domanda soltanto: alla fine del viaggio la protagonista arriva finalmente al Santuario dei Miracoli: luogo di salvezza, ma anche di sacrificio. Cos'è per te il Santuario dei Miracoli?

Quel dove – o quando – non fa più male.





Intervista a Laura Samani, regista di