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Il volume racconta, con sette firme e altrettanti film in analisi, genesi ed evoluzione del predatore più brutale dell’universo multimediale conosciuto. E di quel machismo americano, sua preda preferita

Come nasce un mostro e con quale fine? Come chiamarlo?  E ancora: di quali armi dotarlo? Questo alieno nato negli anni ottanta ricorre, vivendo per cacciare, a un visore termico e a una tecnologia feroce, sospesa tra il fascino tribale di una lancia e la supremazia di un cannone al plasma. E il modo di predare è brutale e metodico, ma non per questo seriale: la caccia sembra piuttosto una beffa alla vanità militaresca degli uomini.

"Non sembra un predatore. Un predatore uccide le sue prede per sopravvivere. Sembra più un pescatore sportivo". A sentire un personaggio della saga, e gli autori di questa "Guida alla saga crossmediale" (Shatter, 134 pp.) potrebbero concordare, Predator non è un nome appropriato. "Hunter" era il titolo del primo soggetto, firmato dai fratelli Thomas, con protagonista un cacciatore venuto da un altro pianeta. Lo ricorda il curatore, Fabio Zanello, docente e pubblicista, autore di monografie su Robert Mulligan, Paul Verhoeven, Nicolas Winding Refn, Francis Ford Coppola e altri. Zanello ricostruisce la genesi della creatura e come se ne "impadronirono" la 20th Century Fox e il produttore Joel Silver, i quali coinvolsero Arnold Schwarzenegger, che divenne a sua volta parte propositiva nella realizzazione del progetto, e infine protagonista del "Predator" di John McTiernan (1987), primo film della saga.

Cos’è questo mostro che "trasforma gli uomini in trofei", e come si sviluppa nel corso di film, videogiochi e fumetti? Ciascun autore del libro ragiona su di un film differente, con Michele Raga che affronta, per esempio, lo scontro tra xenomorfo di Ridley Scott e yautja in "Avp. Alien vs. Predator", in un terreno di caccia allestito per più di dieci anni, a partire dall’acquisizione per 20th Century dei diritti di entrambe le creature; o Davide Di Giorgio, il quale scrive della gestazione di "Predators", definito, troppo generosamente, un "viaggio dal sapore quasi dantesco", la cui regia sarebbe stata in un primo momento di Robert Rodriguez, poi divenuto produttore, e con l’obiettivo, mancato, di riportare sullo schermo il maggiore Dutch/Schwarzenegger; con Giuseppe Cozzolino che riflette sulle goffaggini di "Avp2" e su corsi e ricorsi dei crossover di mostri e simili, nei film e nei fumetti; poi Paolo A. D’Andrea, il quale soppesa l’aderenza di "The Predator" al canone della saga e alla poetica del regista, e Anton Giulio Mancino che analizza la figura del killer-vigilante in "Predator 2". Ciascun lungometraggio, bello o brutto, è considerato in rapporto alla produzione del suo autore; e c’è un gran lavoro, nel complesso, di contestualizzazione di ogni opera, nel tempo e nella filmografia.

Scrittura e riscrittura. È un progetto, questo Predator, che negli anni ha teso a un ritorno embrionale; affinché poi rinascesse, il personaggio, identico e a caccia di nuove prede maschili. A questo sviluppo ciclico, e a questo maschiocentrismo, se si vuole, risponde Aurora Auteri, unica firma femminile, con il bel saggio su "Prey" (2022), ultimo film della saga. A pensarci, a partire dal primo Alien vs. Predator, la serie ha tentato di affrancarsi dalla predominanza maschile, quando la protagonista, sopravvissuta, ancor più che degna di sconfiggere il Predator, merita di combattere al suo fianco. Un superamento, forse, di quella invadenza del culturista austriaco in "Predator" (con quell’imbarazzante primo piano di qualche secondo del suo bicipite). Significativo, forse, che Jean-Claude Van Damme, il quale avrebbe dovuto indossare il costume della creatura, abbia abbandonato, secondo la ricostruzione del curatore, per le condizioni proibitive del set e "per la frustrazione di non poter mostrare al pubblico le sue fattezze". La giungla, equatoriale o urbana, cessa di essere lo spazio dove esibire la propria forza. Eppure, scrive Zanello, "Predator" del 1987 "non è solo un’apologia del machismo più fumettistico […], ma anche un film che racconta vulnerabilità e fragilità dell’eroismo […]. È insomma il crepuscolo dell’eroismo".

Se Zanello ha ragione, McTiernan critica il machismo. E questa abrasione del modello di maschio, guerriero e americano, se il libro è stato compreso, è lo spunto più interessante. Ma cosa accade nei film successivi, con Danny Glover armato di una pistola, non proprio di ordinanza, grande uno sproposito; e con la crescente presenza femminile, dalla dottoressa di "Avp" (Sanaa Lathandi) che tiene testa a una squadra di maschie teste calde, alla ricercatrice di "The Predator" (Olivia Munn), svenuta su di un letto e circondata da detenuti-gentiluomini appesa evasi? Un processo, goffo e casuale, di liberazione dal maschilismo hollywoodiano sembra avviato all’interno della saga. Poi in "Predators" compare la bella Alice Braga, unica donna, al fianco di Adrien Brody nei panni (improbabili, osserva a ragione Davide Di Giorgio) di un duro e cinico soldato. Fin qui i personaggi femminili oscillano tra il ruolo di protagonista e quello di coprotagonista. Solo in "Prey", ultimo film della saga, il passaggio di testimone è compiuto.

Di "Prey" scrive, per tornare al saggio, Aurora Auteri. Il film di Dan Trachtenberg è ambientato nel settecento pseudocomanche (e la consulenza e la composizione musicale del film, scrive l’autrice scrupolosa, si avvalgono di discendenti comanche; e la stessa produttrice ha origini nativoamericane). L’analisi è convincente e molto fine. Auteri percorre a ritroso l’evoluzione dell’alieno e dello sguardo su di esso, e scrive: "La creatura cinema, come spesso fa, torna comunque sui suoi passi e si guarda indietro". Parimenti, dall’altro lato, "l’anima storica, primitiva, dello spettatore […] vuole capire da cosa sia evoluto ciò che ha visto fino adesso, […] quale fosse la sua storia". Se Auteri ha ragione, e se queste erano le prerogative o le conclusioni alle quali giungere, "Prey" è, a riprova, il film migliore della saga. E il film con una protagonista finalmente autonoma, per quanto la sua dignità passi ancora dal riconoscimento maschile, e lontana dal cameratismo americano e dall’esibizione di un grosso calibro. Con "Prey", forse, finisce quel "divertissement testosteronico" che Paolo A. D’Andrea ha intravisto in "The Predator".

Scheda

Titolo: "Predator. Guida alla saga crossmediale"
Curatore: Fabio Zanello
Editore: Shatter
Anno edizione: 2023
Pagine: 134
Tipo: Brossura