drammatico, musicale, thriller | Francia (2024)
Il nome che dà il titolo al film di Jacques Audiard - "Emilia Pérez" -, l'attrice protagonista Karla Sofía Gascón lo pronuncia per la prima volta di spalle, seduta sul letto di una clinica privata, mentre indossa un reggiseno (foto sotto), quasi recitasse un monologo solipsista. L'operazione del dottor Wasserman (Mark Ivanir) non ha avuto complicazioni e il boss del cartello messicano Juan "Manitas" Del Monte può finalmente chiamarsi al femminile. Si tratta, cioè, della transizione di genere - la prima delle tante a dire il vero, biologiche, stilistiche, semiotiche – che la pellicola di Audiard porta a compimento poco prima della metà della storia. Questo lunghissimo prologo ribalta l'idea classica (dalla tragedia greca fino alla letteratura francese medievale) dell'agnizione: l'epifania – nome parlante di una delle vittime di Del Monte - non è più il punto d'arrivo ma di partenza, come insegna parte dell'esperienza joyciana.
L'equivoco di "Emilia Pérez", si fa per dire, è tutto qui, nella polimorfia e polifonia del ribaltamento, per "modificare anima, corpo e società" canta Rita Mora Castro (Zoe Saldana), l'avvocata che accetta di aiutare il boss a cambiare genere. Questa intercapedine, in cui domina il verbo del fraintendimento, il vero motore narrativo di ogni melò, è forse la responsabile del dibattito – al netto delle polemiche su Sofía Gascón – sul film di Audiard, che, infatti, sin dalla sua anteprima a Cannes ha spaccato la critica più di quanto la recente incetta di premi racconti, da chi per esempio l'ha definito "una roboante corsa verso il nulla", a chi ne ha esaltato il gusto "soap-fantasy". Ma l'enigma "Emilia Pérez" riproduce sé stesso proprio nei gangli dell'incomprensione, con effetti subalterni.
Pentole, lavatrici, microonde
La canzone originale che apre il film, assieme all'immagine della "trinità" di mariachi, i famosi gruppi musicali messicani con l'iconico sombrero, ha una funzione programmatica: in tono quasi messianico, elenca una lunga lista di oggetti (pentole, lavatrici, frigoriferi, microonde, piatti…), che in qualche modo rivela il pastiche stilistico che alimenta il film di Audiard. Si tratta però di un mosaico espressivo solo apparente, volutamente abbozzato, allusivo: "Emilia Peréz" è un quasi-musical, è una quasi-soap, è un quasi-thriller, immerso in una purea melodrammatica come detto, che risulta l'unico vero collante narrativo compiuto in senso anzitutto prostetico, come la transizione di Emilia.
Infatti, il registro da melò teatrale è il determinante di un mise-en-scène sistematicamente sbalorditiva, rivelatoria, che esacerba l'universalità delle "le passioni primarie"[1], quasi fuoriuscissero dal confine corporeo. Da questo punto di vista, in "Emilia Peréz", più che l'attitudine del musical contemporaneo, ritroviamo quella intimista del cinema cantato francese a là Jacques Demy, - evidente, per esempio, nella scena in cui Rita ed Emilia si incontrano a cena a Londra e d'improvviso attorno a loro si spengono le luci, come se gli altri commensali non esistessero più – con un ruolo duplice: da un lato ribadisce l'intenzione destabilizzatrice di Audiard, dall'altro cerca di accelerare la narrazione, di conferirgli un ritmo che poi regolerà la "recherche dei figli perduti" di Emilia e le sue mistificazioni.
Assistiamo, pertanto, a un sali-scendi vorticoso, irrisolto, in cui il meccanismo diegetico di Audiard gioca a invertire ruoli, forme e distanze. La transizione biologica, allora, prova a fiancheggiare quella stilistica, alimentata soprattutto dalla rappresentazione deliberata dei cliché sociali riguardo la società messicana. In quest'ottica, nella simbologia di Audiard, lo stereotipo più che un compito rappresentativo (comunque criticatissimo dal mondo sudamericano, e forse non poteva essere altrimenti), ha bensì anche una finalità se così vogliamo dire epistemologica: quanta verità corrisponde a ciò che non vediamo cambiare, a ciò di cui ripetiamo l'esperienza acriticamente?
Vaginoplastica
Se, dunque, è naturale che i cliché nutrano il topos dell'equivoco, è però altrettanto indubbio che in "Emilia Pérez" il motore dell'incomprensione molto spesso tenda all'inconsistenza. La rivoluzione apparente del film – che, almeno a livello tematico non è così innegabile, sicché Audiard ha più volte indagato nella sua filmografia i temi della redenzione e della rinascita o riscoperta, come in "Sulle mie labbra" – è forse approssimativa; Emilia, a differenza di altri personaggi del regista francese - come Stéphanie di "Un sapore di ruggine e ossa" che trascende la prigione corporea; come Malik di "Il profeta", che evade la prigionia fisica – resta prigioniera.
Per scomodare John Austin, il famoso filosofo del linguaggio, è come se Audiard avesse scommesso tutto sulla forza perlocutoria di "Emilia Pérez", sull'effetto (nello spettatore) e non sull'origine, cioè sulla locuzione. In più, al pathos dell'estraniamento, che in una certa misura uniforma i canoni del melò, il cineasta francese abbina una geografia filmica iper-didascalica, tant'è che in "Emilia Pérez" sappiamo sempre chi guardare, come guardare e cosa pensare. In questo senso, pensiamo alla sequenza (caricaturale) in cui Rita visita una delle cliniche candidate a ospitare l'intervento di vaginoplastica, oppure a quella girata nell'aula di tribunale in cui l'avvocata denuncia di non tollerare più il suo lavoro: i rapidissimi movimenti di camera, apparenti e non (foto sotto), informano uno sguardo tridimensionale sul personaggio che non ha solo una funzione extradiegetica, ma è altresì il sintomo di una messa in scena che vorrebbe vestire e contenere ogni punto di vista possibile.
Tuttavia, la visione "olistica" di Audiard cozza con l'impalcatura ibrida del film. Per esempio, al netto del fatto che il musical non sia il genere di riferimento di "Emilia Pérez", è innegabile che Audiard tenti in qualche modo di contemporaneizzare i dialoghi cantati della tradizione francese, proprio strizzando l'occhio al genere del musical-moderno (vedi le sequenze coreografate), con un risultato sì evasivo ma incontrollato: all'impianto musicale manca uno scheletro e una direzionalità, che fra l'altro neutralizza il compito che Audiard sembrava aver affidato proprio alla dimensione del musical, ossia una caratterizzazione sonoro-musicale dei personaggi.
"Archivi politici"
Più che per le tematiche, ciò che in "Emilia Pérez" è realmente innovativo, o quantomeno insolito, ambizioso, è il mélange stilistico – abbiamo detto thriller, melò, e aggiungiamo gangster movie (di "Tutti i battiti del mio cuore"), dramma famigliare - ossia le transizioni intertestuali. Però, come accennato, questa frammentazione stenta a coagularsi a causa soprattutto dall'ansia pedagogico-didattica che intesse il film e quel percorso che Audiard vuole realizzare a tutti i costi sulle orme dei suoi personaggi – proprio visivamente, tanto che gli inserti dei piedi non si contano -, fino alla lacrima (come ha dichiarato il regista stesso).
Parallelamente, la stessa frammentazione dei corpi e delle anime, che sono interpretati e interrogati in quanto "somateche" - un po' come accade (malamente) per il protagonista di "The Whale" di Aronofsky - ossia "archivi politici"[2], non è realmente incisiva, proprio perché i personaggi non bucano quella prigione di cui parla il filosofo Paul Preciado: "uomini e donne sono costruzioni metonimiche"[3]. Ebbene, Audiard, a livello analitico, confonde origine ed effetto, e così facendo spegne la propulsione della reazione a catena ingenerata dalla transizione archetipica del boss. Quindi, se al calderone di stereotipi c'è forse una ragione, come abbiamo visto, manca però una risposta al quesito epistemico che essi pongono - o, più in generale, alle domande sul potere del cinema che sicuramente "Emilia Pérez" porta con sé.
Insomma, come in "Dheepan – Una nuova vita", il tentativo di Emilia di riscrivere la propria storia, in cui la memoria plasma il ricordo, in cui Audiard appunto permette al cinema di trasformare la narrazione in meta-narrazione – il tema per esempio del bellissimo ultimo film di Paul Schrader "Oh, Canada – I tradimenti" – perde di intensità sotto i colpi di una messa in scena pirotecnica, inarrestabile, eccentrica, che però non riesce da sola a sostenere la rivoluzione (stilistica, umana) che il regista promette. Di conseguenza, il seducente gioco teatrale di specchi della pellicola, tra i riflessi di quadri cromaticamente futuristi, abbaglianti e le dissolvenze incrociate che mimano il sipario, i passaggi "da a", non amalgama con una corrente diegetica che sembra anzitutto focalizzata sul fluire libera. In altre parole, Audiard è così preoccupato che il suo lavoro sfugga a ogni etichetta (benché flirti con un genere codificatissimo come quello del musical), che dimentica la lezione marxista sull'inversione dei ruoli, sulla rivoluzione. Ecco, se essa è tale solo quando è perpetua, "Emilia Pérez", di questa rivoluzione, è solo un lampo, ammaliante, ma a tratti indefinito.
[1] Socci S., (2017) Il melodramma cinematografico. Campioni di fantasia tragica, Pisa University Press.
[2] Preciado P., (2021), Sono un mostro che vi parla, Fandango.
[3] Ibidem.
cast:
Zoe Saldana, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Edgar Ramirez, Adriana Paz, Mark Ivanir
regia:
Jacques Audiard
titolo originale:
Emilia Peréz
distribuzione:
Lucky Red
durata:
132'
produzione:
Why Not Productions, Page 114, Saint Laurent Productions, Pathé, France 2 Cinéma, Pimienta Films
sceneggiatura:
Jacques Audiard, Thomas Bidegain
fotografia:
Paul Guilhaume
scenografie:
Emmanuelle Duplay
montaggio:
Juliette Welfling
costumi:
Virginie Montel
musiche:
Clément Ducol