drammatico, war movie | Giappone (2023)
A ormai dieci lustri dai suoi primi cortometraggi adolescenziali e a sette dal suo primo lungometraggio, il cult "Tetsuo", bisogna constatare che Tsukamoto Shinya è cambiato, come il suo cinema. Un tempo prolifico quasi quanto altri influenti cineasti giapponesi che si sono affermati fra anni 80 e 90, Tsukamoto ha progressivamente ridotto il numero delle sue regie, spesso autoprodotte, per dedicarsi piuttosto a vari ruoli attoriali, nei quali non sarebbe improprio trovare motivazioni alimentari, come all’interno dei recenti live action ad alto budget di Anno Hideaki. Sulla carta è cambiata anche la tipologia di film da lui diretti, inizialmente (body) horror sopra le righe che non era fuori luogo definire cyberpunk e ora cupi drammi che non di rado sono ambientati nel passato, come le tre pellicole dirette nel decennio 2014-2023: "Fires on the Plain", "Killing" e "Hokage". In mezzo a tutti questi cambiamenti però il cinema del regista nipponico è rimasto a dir poco coerente e la sua ultima (per ora) sortita dietro la macchina da presa lo testimonia egregiamente.
"Hokage", di cui il sottotitolo "Ombra di fuoco" è la traduzione letterale, esplicitando anche per il pubblico italiano la letteralità dell’operazione di Tsukamoto, si presenta difatti quasi come un seguito diretto di "Nobi" (da noi "Fires on the Plain"), raccontando le miserie della vita nel Giappone post-bellico, ben prima del miracolo economico giapponese. Il film del 2014 metteva invece in scena gli ultimi mesi della campagna militare nipponica nelle Filippine (senza però prestare molta attenzione alla contestualizzazione delle vicende), rappresentando un’umanità completamente allo sbando, perversa fino al midollo dagli orrori della guerra, esibiti senza alcun pudore nel film. La situazione non sembra mutata nello scenario post-bellico al centro di "Hokage", in cui le fiamme del conflitto sono apparentemente sopite ma capaci ancora di proiettare la propria ombra sui sopravvissuti. Nel giro di pochi minuti assistiamo difatti allo stupro della protagonista da parte del suo lenone, ai ripetuti furti del ragazzino coprotagonista e alla violenza di cui cade vittima di conseguenza, la cui onnipresenza viene ribadita dal rapidissimo tracollo della situazione di parvente normalità che la donna, il bambino e un misterioso reduce di guerra riescono a creare nel corso della prima metà del film (quasi una reinterpretazione grottesca dello shōshimin-eiga, il dramma sociale sulla vita della gente comune tipico della cinematografia nipponica del dopoguerra), destinata però a terminare in maniera a dir poco repentina, fra violenza, sangue e armi da fuoco.
La pistola, trattata come un feticcio dall’anonimo ragazzino, che infatti se ne separa su richiesta della donna solo quando questa si pone come convincente, seppur angosciata, figura materna, diviene più di un semplice oggetto di scena o di un esempio della proverbiale "pistola di Čechov", che una volta in scena dovrà sparare. L’arma infatti si fa allegoria del conflitto, allontanata quando le ombre della guerra paiono dissolversi e pronta a ricomparire quando la fiamma ricomincia ad ardere fra le braci apparentemente sopite. Non è un caso che la pistola finalmente sparerà solo quando la Seconda Guerra Mondiale emergerà come tema da dietro le linee (dalle rovine, fisiche e morali, che sono tutto ciò che si vede del Giappone post-bellico) e le atrocità compiute dalle truppe giapponesi, anche su loro stesse, saranno finalmente affrontate nella seconda parte del film, sorta di antitesi della tesi che è la prima metà, senza però la certezza che il subitaneo ritorno a casa della sezione finale della pellicola possa esserne considerato la sintesi.
Il carattere grottesco della violenza e delle ferite che provoca, in particolar modo se autoinflitte, ha d’altronde fatto parte dell’immaginario di Tsukamoto fin dall’esordio e non è sorprendente leggervi un esempio particolarmente suggestivo della tendenza del cinema (e non solo) giapponese a esasperare la mutilazione e, non a caso, l’automutilazione come immagine del danno compiuto dal paese, anche su sé stesso, durante la guerra in Cina e nel Pacifico[1]. L’ombra della guerra, che si fa titolo stesso della pellicola, è difatti onnipresente nel film di Tsukamoto e la violenza (fisica quella del reduce, verbale quella della donna) che ne è la concretizzazione in termini di azione filmica è ciò che fa muovere la narrazione, portando alla cacciata del soldato dalla casa della donna (a opera del bambino, va sottolineato) e poi all’abbandono da parte del piccolo ladro del precario idillio domestico che aveva costruito con lei. Sarà poi la massima concretizzazione della violenza, quella omicida dell’arma da fuoco, a portare alla terza e ultima svolta narrativa, in questo caso dotata però di un significato diverso perché causata non tanto dall’esplicitazione della violenza ma dal suo rifiuto, seppur a posteriori. Un evento che spinge ad affermare che, citando il film, "la guerra è finita".
Quest’ultimo evento sancisce inoltre l’identificazione del ragazzino come vero protagonista della pellicola, quasi incarnazione del nuovo Giappone sorto dalla guerra, senza madri e senza padri, se non putativi ed estremamente inaffidabili. Il tema del rapporto con le generazioni precedenti e l’impossibilità di comunicare con queste è d’altronde ricorrente nella produzione culturale nipponica, ma "Hokage" ne propone un’interpretazione perfettamente collocabile all’interno della produzione di Tsukamoto[2] e la cui radicalità viene allusa nelle sequenze finali della pellicola. La donna è parsa la protagonista della pellicola nella prima metà, non a caso un radicalissimo kammerspiel dai toni lividi in cui al mondo esterno vengono dedicati solo fugaci scorci, ma sparisce di scena dopo aver cacciato il bambino, il quale diviene quindi il personaggio principale del secondo blocco del film, una peregrinazione per il Giappone rurale in compagnia di un losco figuro[3] che si potrebbe definire picaresca se non fosse per il tono estremamente serio, cui gli sprazzi di sarcasmo del succitato personaggio non portano alcun cambiamento di tono. Ciò che cambia rispetto alla prima metà è però la palette dei colori, colmata del verde degli alberi e del blu del cielo o dell’acqua, mentre numerosi campi lunghi liberano apparentemente i personaggi (e sicuramente gli occhi di chi guarda) dai soffocanti campi medi e primi piani ocra e grigi dei claustrofobici interni della prima metà.
Il ritorno ai colori e alle inquadrature che avevano caratterizzato le due pellicole precedenti del regista, "Nobi" e "Killing/Zan", contribuisce a rinsaldare il loro legame con "Hokage", che può essere considerato una loro prosecuzione, nonché, forse, una risposta agli interrogativi sollevati nei due film. La moralità delle azioni estreme che si possono compiere in guerra è ancora una volta al centro di un film di Tsukamoto e il regista evita ogni risposta semplice. Se l’ufficiale colpevole di crimini di guerra può solo difendersi sostenendo, priebkianamente, che "ha solo eseguito gli ordini" e che "in guerra le cose erano diverse", anche chi sembra avere minori responsabilità non sa come venire a patti con ciò che ha fatto, finendo per ricadere in una trappola di violenza, non importa se spontanea come nella prima parte o premeditata come nella seconda. Diffusa come i jump cut che, alla maniera del regista giapponese, accompagnano fin dall’inizio la pellicola, elidendo ogni possibile tempo morto per traghettare chi guarda in questa rassegna di abiezione umana, la violenza non sparisce neanche alla fine, quando ci si è separati dall’arma e si ha accettato la possibilità di un approccio diverso alla vita[4].
Ma anche a questo punto, l’ombra della guerra continua a incombere, quanto meno su qualcuno. E quando, poco prima della fine, si scopre quale sia la probabile origine delle esplosioni che più volte squassano la banda sonora di "Hokage", risulta chiaro che quella presenza forse non si eclisserà mai. È l’ennesima ferita che squarcia l’ultimo film di Tsukamoto Shinya, non a caso colmo di ferite, graffi, abrasioni, pustole che sfregiano, ma anche individualizzano, i personaggi, a riprova di come non tutte le ferite sono destinate a rimarginarsi, ma anche di come esse possono essere costitutive della propria identità, tracciando una strada che, anche in un mondo post-apocalittico come quello del Giappone appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, può essere seguita, una volta che si son fatte le proprie scelte. Il fatto che dopo più di 35 anni Tsukamoto sia ancora qui a raccontarlo testimonia non solo la sua coerenza, ma anche quanto sia ostica la strada per realizzare questa determinazione.
[1] Kylan Mitchell, "Sifting Through Blood: Grotesquery as Culture in Post-WWII Japanese Cinema", Kino: The Western Undergraduate Journal of Film Studies, vol. 2, n. 1 (2011), p. 5
[2] Cfr. Maxime Boyer-Degoul, "Seeking for New Values: Failure and Crisis of Models in Tsukamoto's and Kurosawa's Tokyo Films", Proceedings of The Asian Conference on Arts & Humanities 2017, pp. 2-6
[3] Interpretato peraltro da Moriyama Mirai, già voce del personaggio di Tomona in "Inu-Oh" di Yuasa Masaaki, nonché antagonista finale di "Shin Kamen Rider" di Anno Hideaki (in cui, inoltre, Tsukamoto Shinya interpreta suo padre)
[4] Interessante è a questo proposito il confronto con un altro recente film nipponico sul dopoguerra e il superamento delle conseguenze del conflitto, ovvero il grande successo "Godzilla Minus One", in particolar modo per quanto riguarda la rappresentazione dei reduci e il finale
cast:
Shuri , Oga Tsukao, Hiroki Kono, Mirai Moriyama
regia:
Shinya Tsukamoto
titolo originale:
Hogake
distribuzione:
Cat People, Minerva Pictures, Raro Video
durata:
95'
produzione:
Kaijyu Theater
sceneggiatura:
Tsukamoto Shinya
fotografia:
Tsukamoto Shinya
scenografie:
Nakajima Yoshiaki
montaggio:
Tsukamoto Shinya
costumi:
Sasaki Sho
musiche:
Ishikawa Chi