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recensione di Giuseppe Gangi
8.0/10

"Knight of cups" è il secondo ramoscello generato dall'albero della vita, quel "The Tree of Life" che nel 2011 ci folgorò segnando indubbiamente un landmark nell'estetica cinematografica contemporanea e un ulteriore passo in avanti nella meditazione malickiana per mezzo del linguaggio della Settima arte. Come molto spesso accade, un autore che procede verso una radicale ricerca esistenziale e spirituale che trova collocazione negli ingranaggi dell'arte industriale per eccellenza, non può che provocare giudizi contrastanti e assai divisivi. Infatti, da "The Tree of Life", i cui osanna erano nati solo dopo la Palma d'oro assegnata a Cannes (mentre è risaputo che la prima proiezione fu un mezzo disastro), a "To The Wonder" si denota una progressiva polarizzazione verso i riscontri negativi o, comunque, fortemente critici nei confronti dell'evoluzione della visionaria opera malickiana. La stessa sorte è toccata a "Knight of Cups" che, dopo essere passato quasi sotto silenzio in concorso alla Berlinale del 2015, rischiava di non vedere mai la luce della sala. 


Il settimo lungometraggio del regista nativo di Waco è una immersione nella mondanità, andando a perlustrare un nuovo angolo dello spazio terreno: attraverso il protagonista, il Rick interpretato con piena adesione da Christian Bale, Malick realizza l'opera che più di ogni altra riprende il "Pilgrim's progress" di John Bunyan citando il titolo in apertura ("Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello che verrà presentato in forma di sogno" dice la voce narrante). Non che la tradizione filosofica pertinente alla gnostica possa sfuggire a un fine conoscitore di Martin Heidegger quale è Malick, ma è indubbio che "Knight of Cups" metta in chiaro quali siano i riferimenti filosofici, teologici e letterari che sostengono i suoi ultimi lavori, fornendo una volta per tutte una chiave privilegiata d'interpretazione. Curioso notare come tra tutte le posizioni teosofiche, Malick scelga di assumerne una in cui la rivelazione e il misticismo siano preponderanti, pur restando un punto di partenza eretico, non allineato all'ortodossia. Se la carta dei tarocchi da cui prende il titolo, il cavaliere di coppe, si rifà a un'idea di dinamismo teso verso il cambiamento e la scoperta, non si può tacere su un'altra influenza esercitata su "Knight of Cups", ossia l'epica cavalleresca (sempre in riferimento a un immaginario gnostico): Rick è paragonabile a un altro cavaliere di coppe, quel Perceval in cui il classico tema della quête riguardava la leggenda del Sacro Graal, la coppa il cui mistico segreto è la conoscenza completa, la "pienezza del cuore". Pertanto, questa sua penultima pellicola (divenuta tale dopo "Voyage of Time", visto a Venezia 73) non è altro se non la storia di una caduta nel mondo e di un risveglio, di un lento passaggio dal torpore mondano alla ricerca della verità e dell'illuminazione. Rick è sia il pellegrino che il protagonista dell'apocrifo "Inno alla perla", la storia narrata dal padre che vede come protagonista un principe il quale, partito dall'Oriente, dopo essere arrivato in Egitto (che in opposizione alla terra promessa rappresenta le tenebre) in cerca della Perla, finisce per essere catturato dai piaceri della vita e, caduto in un sonno profondo, si risveglia dimentico della sua missione e del suo passato. E nell'incipit vediamo Rick scendere nel deserto, perdersi - allegoricamente - nel mondo: egli è sveglio fisicamente ma deve ridestarsi per trovare il suo io più profondo.

Per la prima volta con "Knight of Cups" il regista texano affronta, tramite il suo protagonista, uno sceneggiatore, il mondo di Hollywood: sarebbe suggestivo asserire che Malick ricambi l'attenzione nascostamente rivolta da Paolo Sorrentino ne "La grande bellezza" per la sua arte ma, a dire il vero, la Los Angeles di questo film diviene lo spazio che provoca o acuisce la disgregazione dell'io del protagonista, non la Città eternamente divisa tra antico splendore e contemporanea decadenza come la capitale italiana. La collocazione è non di meno essenziale: L.A. rappresenta il West che è la meta del principe dell'Inno che il padre raccontava a Rick da bambino e di cui il protagonista ricomincia ad avere memoria. Questo itinerario allegorico, scandito da capitoli che hanno i nomi delle carte dei tarocchi, rappresenta il contrappunto alla ricerca del protagonista che percepisce lo iato tra il suo vivere in un mondo materiale e l'anelito verso l'infinito. La malattia kierkegaardiana per eccellenza, l'angoscia, lo angustia in ogni momento, sia che sia solo ad aggirarsi sperduto per le vie deserte degli studi cinematografici, sia che si trovi in compagnia di splendide ragazze, sia che partecipi a feste di ogni tipo: Rick è quasi muto davanti agli enormi interrogativi del suo cuore, difficilmente sentiamo la sua voce se non fuori campo e, anche in quel caso, il regista ne fa un uso parsimonioso, perché sono soprattutto le voci degli altri ad affollare la mente del personaggio, quelle delle sue donne che cercano di indicargli una strada, quella del padre, del fratello ex-tossicodipendente che si redime a contatto con gli strati più poveri della società. Malick ha intrapreso un percorso di autoanalisi e il cinema, luogo di materializzazione inconscia per eccellenza, mette a disposizione il suo schermo dove potersi rivelare: il regista che non vuole parlare di sé se non mediante la sua opera, dopo aver abbandonato qualsiasi forma o categoria che avesse attinenza con un genere o una storia codificata, sta adesso filmando la propria biografia. Se "The Tree of Life" raccontava l'infanzia, era il libro dell'emersione mnesica dell'uomo e del cosmo, "To the Wonder" la reverie sentimentale, con le conseguenti difficoltà d'amare, "Knight of cups" è il capitolo che traccia il punto di non ritorno del cammino nel mondo e l'insopprimibile necessità della ricerca spirituale.

L'uomo aveva le ali, dice il narratore, ma gettato nel mondo ha dimenticato di averle possedute; eppure un giorno guardando il cielo avrà la sensazione di una mancanza, di uno spazio che era suo e che ha smarrito: così cercherà di riottenere la bellezza perduta, guardando negli occhi di ogni donna o uomo. Inconsapevole delle strade per giungere alla verità, Rick ha come guide terrene le donne-angelo di Malick: senza fare un elenco delle diverse figure femminili che si succedono (interpretate da altrettanti splendide attrici, tra cui si segnalano Freida Pinto, Cate Blanchett e Natalie Portman) esse sono collocate all'interno di un itinerario non lineare in cui il protagonista compie un andirivieni tra il sensuale torpore della carne e il possibile risveglio. L'uomo malickiano cerca disperatamente le ali per poter spiccare il volo e issarsi dalle bruttezze e le ingiustizie del mondo: la passeggiata che fa Rick insieme al fratello tra i reietti di L.A. somiglia stranamente a quella ripresa con un iPhone da Sean Baker in "Tangerine", perché, in fondo anche Los Angeles è divisa tra cielo e terra, dove la bellezza è nascosta dalla volgare opulenza dei ricchi e potenti uomini di Hollywood che mascherano il vuoto con ville sfacciate o enormi costruzioni di vetro e d'acciaio. L'uomo è solo l'ombra di ciò che può essere, costantemente terremotato come lo è Los Angeles in una delle sequenze iniziali, a simboleggiare la frattura nell'equilibrio psichico di Rick.
Il regista continua il dialogo intratestuale sul suo corpus filmografico e se il film precedente era terreno (Ben Affleck lavorava come geologo), in questo abbondano le scene girate in riva all'oceano: l'autore non fa nulla per nascondere il dualismo tra le strade losangeline e le spiagge bagnate dalla spuma oceanica, l'aridità del mondo e il liquido amniotico dal quale siamo nati e al quale dovremmo fare ritorno. E l'acqua sostituisce la figura della madre, praticamente assente, mentre il padre è sia il narratore di questa storia sia un vecchio farneticante: avevamo accennato al fondo eretico dello gnosticismo e se questo è il film della riconciliazione paterna (vi è un esplicito abbraccio nel prefinale), cosa che non accadeva in "The Tree of Life" in cui il padre di Brad Pitt spariva dalla scena, non pare un caso che il nome mancante della storia sia quello di Dio, che può trapelare dai concetti di fede, verità e amore ma di fronte al cui silenzio Malick assume una posizione di combattivo pessimismo, di chi ha intravisto la luce in fondo al tunnel e vuole rivelarla all'umanità. Il cimento è quello di novello Prometeo.
  
In quest'odissea interiore, veniamo cullati dallo sciabordio delle immagini fotografate dalla macchina da presa manovrata da Emmanuel Lubezki che, insieme al regista, sta scrivendo un vero e proprio manuale su come mettere in scena i diversi stati emotivi di un uomo smarritosi "nel cammin di mezza via" e sui modi di illuminare il suo mondo interiore ed esteriore. Che mai come in questo film sono fellinianamente confusi, senza nemmeno una divisione netta tra presente e passato; i ricordi si sostituiscono al tempo presente e le immagini della memoria svelano traumi, delusioni, sconfitte (l'ex-moglie interpretata dalla Blanchett) di Rick che, proprio attraverso il ricordo, si avvicina al risveglio. "Knight of Cups" non è opera che pretende alcuna istanza di realismo, se non quella di dipingere l'interiorità di un uomo in crisi: l'impiego dei diversi formati digitali scuce la compattezza visiva regalando ai contrasti cromatici di alcune scene la vivida forza della pittura impressionista di cui si era accorto in anticipo sui tempi anche Jean-Luc Godard (ci si ricordi di "Éloge de l'amour", 2001) e in altre suggerendo l'idea di essere lì a galleggiare a mezz'aria rubando attimi di intimità a due persone che si abbracciano in riva al mare. L'utilizzo di grandangoli, fish-eye, la camera spesso a mano che compie movimenti avanti-indietro rispetto ai personaggi insieme all'uso mesmerico di temi quali l'Exodus di Kilar e il Pilgrim's Journey to the pearl (collage dal "Peer Gynt" di Grieg) danno la sensazione di una visione liquida e ipnotica, in cui la mera contemplazione della bellezza delle immagini alterni sconcerto e meraviglia. Lubezki è il collaboratore che ha rilanciato le possibilità del cinema malickiano e che grazie allo sguardo dell'autore texano può esprimere e sperimentare il proprio genio; i due stanno componendo il mosaico di una ineffabile traiettoria spirituale, un'odissea il cui stesso contenuto resta, per molti altri cineasti, tuttora infilmabile. E Malick, a questo punto possiamo ipotizzarlo, pare aspiri a un percorso alternativo e personale allo stile trascendentale studiato con genio da Paul Schrader attraverso la sacra triade Dreyer-Bresson-Ozu ponendosi al di là dell'austerità e della stilizzazione della ieratica contemplazione, che presuppone la manifestazione del sacro o il rimando al piano divino; il regista ha fatto della macchina da presa uno strumento d'indagine in perenne movimento, un rilevatore dei mutevoli e contraddittori stati emotivi dell'animo e della psiche umana riuscendo nell'impresa di tradurli in immagine. In una scena, Rick, accompagnato da Elizabeth (Portman) fa la conoscenza di Peter Matthiessen, scrittore e monaco buddista, che vive in una dimora in stile giapponese con giardino zen, il quale spiega al giovane uomo la difficoltà di privarsi dei ben materiali, di condurre una vita semplice: la mistica ascesa verso le vette della conoscenza e dell'illuminazione non possono prescindere dall'epurazione dalle scorie terrene. Malick usa il "cinema di poesia" per rompere con la narrazione tradizionale, lavorando sulla retorica da lui coniata basata su sinestesie audiovisive, immagini metaforiche e simboliche incastrate in un arazzo allegorico: pertanto, la trascendentalità del suo stile si configura come il frazionamento dei pezzi che compongono ogni individuo la cui somma dipinge un affresco più ambizioso e universale. Il sentirsi "a pezzi" di cui parla la voice over del padre di Rick è dall'autore impaginato con perizia e, sfruttando una tecnica tanto cangiante e volubile quanto lo è l'uomo, ricerca con disperata fede la fiamma che arde dentro di noi, quel fuoco nominato da Elizabeth e acceso dall'ultima eterea guida di Rick. 

Rick, dopo tanto peregrinare, trova quindi una donna che nel deserto lo instrada verso la libertà (il capitolo conclusivo è l'unico a non avere un riferimento alle carte dei tarocchi); i suoi occhi ascendono sui pendii rocciosi per poi ricomparire fisicamente nel mare (probabilmente per trovare la perla). Rick si è finalmente risvegliato: "Inizia" gli dice la voce di suo padre, perché il viaggio, quello dell'anima, è appena cominciato.


12/11/2016

Cast e credits

cast:
Christian Bale, Brian Dennehy, Antonio Banderas, Imogen Poots, Freida Pinto, Teresa Palmer, Isabel Lucas, Natalie Portman, Cate Blanchett, Ben Kingsley


regia:
Terrence Malick


distribuzione:
Adler Entertainment


durata:
118'


produzione:
Dogwood Films; FilmNation Entertainment; Waypoint Entertainment


sceneggiatura:
Terrence Malick


fotografia:
Emmanuel Lubezki


scenografie:
Jack Fisk


montaggio:
A. J. Edwards, Keith Fraase, Geoffrey Richman, Mark Yoshikawa


costumi:
Jacqueline West


musiche:
Hanan Townshend


Trama
C’era una volta un giovane principe che fu inviato dal proprio padre, il re dell'Est, in Egitto per trovare una perla. Ma quando il principe arrivò, gli abitanti del luogo gli versarono una coppa. Bevendola, egli scordò di essere il figlio di un re, si dimenticò della perla e cadde in un sonno profondo
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