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recensione di Giuseppe Gangi
7.0/10
Un uomo sta attraversando il tornante di una strada di montagna quando viene bloccato da una gang di ragazzi intenzionati a derubarlo. Senza fare una piega, l'uomo alza le mani, fa per prendere il portafoglio ma in realtà estrae una pistola uccidendoli tutti. A raccontarlo, in maniera secca e senza fronzoli così come è girato, l'incipit di "A Touch of Sin" non sembra nemmeno appartenere alla mano di Jia Zhang-ke, eppure i titoli di testa non mentono.

Ci basterà approfondire un solo episodio (il primo) per definire meglio le intenzioni dell'autore. La prima suggestione impressa da Jia è di tipo spaziale: le aride e fredde montagne dello Shanxi sono descritte in brevi inquadrature, via via che il personaggio di Dahai si muove attraversando il villaggio. Dahai è un minatore che lotta contro i mulini a vento, è l'unico che si lamenta delle ingiuste divisioni sociali che affliggono il paese dove lavora. Da alcuni dialoghi capiamo che il padrone della miniera e il sindaco del villaggio si siano arricchiti nel giro di pochi anni, sfruttando il lavoro degli immigrati in quella regione. Dahai decide allora di ribellarsi, prima cercando il confronto col proprio datore di lavoro, poi minacciandolo di una denuncia, finendo picchiato da dei tirapiedi. Esausto e sfiduciato, torna dalla sorella che gli fa notare come fossero tutti compagni di scuola, ovvero hanno iniziato tutti sulla stessa linea di partenza, ma dopo tanti anni c'è chi si è arricchito in maniera smodata e chi si è invece persino impoverito. Questa considerazione non è banale come può sembrare, perché, secondo la politica del regime di Pechino, nessuno dovrebbe rimanere indietro. La competizione è, invece, spietata come in qualsiasi altra società capitalista.

La violenza che esplode è solo la punta dell'iceberg di un movimento lesivo che ha strozzato la base della popolazione cinese. In tal senso va letta l'idea di cambiare, di storia in storia, non solo il protagonista, ma anche il contesto geografico e socio-economico in cui essi vivono: la vendetta o la reazione violenta divengono così l'unica via percorribile, nella Cina di oggi, a qualsiasi coordinata ci si trovi. La violenza, come atto disperato, viene rivolta anche contro se stessi come accade a un altro giovane personaggio, che sembra il fratello minore dei protagonisti dell'indimenticato "Unknown pleasures" (pellicola di Jia del 2002).

Da un punto di vista strettamente stilistico, a una macchina da presa che si mimetizza in maniera documentaristica, si sovrappone una costruzione del quadro molto cesellata, sia come geometrie che come cura fotografica. Il regista fa dialogare i dettagli dei volti o dei gesti dei suoi attori con campi medi e lunghi carrelli che li inquadrano nel loro habitat sociale. La stilizzazione delle sequenze più cruente hanno un tocco grottesco che potrebbe ricordare Kitano, non a caso produttore di Jia con la sua Officee Kitano sin dai tempi di "Platform" (2000).
La scrittura si lancia nel tentativo di mappare la Cina contemporanea attraverso quattro parabole vagamente intrecciate tra loro. I protagonisti vengono utilizzati come casi esemplari di una corruzione che si è ormai insinuata entro i confini del Celeste Impero e si sta propagando inarrestabile, come un cancro in metastasi. Lo sguardo di Jia si sta evidentemente spostando verso altri immaginari stilistici, pur rimanendo ancorato a una solida visione della realtà: questa commistione, forse ancora acerba, rende evidente il dispositivo di rilevazione del peccato e la tesi che sostiene l'intera narrazione sovraesposta (errore non commesso da Garrone quando compose il suo "Gomorra"). Ad esempio, la scena in cui la receptionist interpretata dalla magnifica Zhao Thao viene presa a sberle da una mazzetta di banconote, al grido di "Posso comprare tutto quello che voglio" (profferito da un cliente molesto), la avvertiamo come una caduta di stile per un regista abile nel ricamare intorno alle storie senza alcuna pedanteria. 

Giunto all'ottavo lungometraggio di fiction con "A Touch of Sin", Jia ha vinto il premio come miglior sceneggiatura all'ultimo Festival di Cannes confermandosi come una delle voci più importanti del cinema contemporaneo. Jia Zhang-ke è sempre più il punto di riferimento della Cina indipendente e dissidente che, a cavallo tra i due secoli, si è presentata con una generazione di registi (la cosiddetta "sesta generazione") dall'indubbio talento.
Salvo disdette, sarà distribuito anche in Italia da Officine Ubu, il prossimo novembre.


19/06/2013

Cast e credits

cast:
Jiang Wu, Meng Li, Wang Baoqiang, Tao Zhao, Lanshan Luo


regia:
Jia Zhang-ke


titolo originale:
Tian zhu ding


distribuzione:
Officine Ubu


durata:
133'


produzione:
Office Kitano


sceneggiatura:
Jia Zhang-ke


fotografia:
Yu Likwai


scenografie:
Liu Weixin


montaggio:
Matthieu Laclau, Xudong Lin


musiche:
Giong Lim


Trama
Quattro storie ambientate in zone diverse della Cina di oggi si intrecciano. Si va dall'imponente metropoli del sud di Guangzhou alle cittadine rurali nella provincia di Shanxi
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