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recensione di Alessio Cossu
8.5/10

Un giovane si sveglia e mormora alla sua amante: “Dicono che c'è un elefante a Manhzouli, sta lì tutto il giorno e ignora il mondo. O forse si diverte semplicemente a stare lì”. La bizzarra reputazione di questo sfuggente pachiderma diventa un simbolo di liberazione, evasione e sfida a tutto campo per una manciata di protagonisti che vivono, o sopravvivono, in un'anonima e inquinata città del nord-est della Cina. Il motivo per cui l'elefante immobile affascina i personaggi di questo film potrebbe essere perché è così misteriosamente insensibile al mondo del dolore che lo circonda. Forse tutti bramano di raggiungere questo stato mentale stoico, di affrontare i problemi insormontabili nelle loro vite, come l'Elefante-Buddha.

 

(fig.1)

"An Elephant Sitting Still" è costruito in questo modo, con quattro personaggi alienati che mancano della prospettiva di un estraneo per comprendere appieno la loro situazione ed essere capiti. Quattro percorsi intrecciati, quattro ritratti di solitudini e umiliazioni. Wei Bu, studente liceale, sarà coinvolto in un incidente con il bullo della scuola per difendere il suo migliore amico. Yu Cheng, il fratello maggiore del bullo e gangster mancato, spingerà seppur involontariamente il suo migliore amico al gesto estremo dopo che questi lo ha scoperto a letto con la propria moglie. Wang Jin, 60 anni, viene pregato dalla figlia e dal genero di trasferirsi in una casa di cura. Huang Ling, invaghitasi di Bu, teme le conseguenze di uno scandalo diffuso sulla rete grazie ai social. I quattro sono vittime, incompresi dai loro familiari e amici. Incrociandosi a un certo punto tra loro, inseguono tutti questo imperscrutabile elefante seduto, immobile, in Manciuria. Il lungometraggio di quasi 4 ore di durata ripercorre un'intera giornata gravida di una tragica svolta per le vite individuali di quattro persone appartenenti a tre generazioni e per quelle dei loro conoscenti. Forse il giorno peggiore della loro vita. Ogni protagonista viene presentato al mattino, separatamente, nel proprio letto. Uno dopo l'altro, essi trascorrono la loro giornata, discutendo con i loro simili senza addivenire a una conclusione costruttiva, fino a quando una tragedia rompe i loro preconcetti e altera la loro vita che finisce inesorabilmente in un vicolo cieco. “Ha picchiato un rifiuto umano: mio fratello”, dice Cheng Yang, rispondendo alle domande dell’anziano Jin Wang. E quando si trova di fronte Wei Bu, il responsabile del gesto, gli intima, con stupefacente disincanto: “Sta attento a non diventare un buono a nulla alla mia età!”. Siamo insomma in un territorio in cui la disillusione si respira  chiaramente quanto lo smog delle giornate senza sole che incupiscono i personaggi. E poi c'è il peregrinare dei protagonisti, un incedere che trasuda della precarietà dell’esistenza umana, fatto del solo rumore dei passi, quando non della gratuita ostilità dei passanti. La loro è un’odissea che attraversa le periferie degradate della Cina contemporanea, fatte di strade dissestate e fangose, sottopassi bui ed ingrigiti cantieri.

 

(fig.2)

Il senso di alienazione, di incomunicabilità e di disagio sono esacerbati dalle scelte di montaggio, di inquadratura e fotografia. Hu Bo non effettua mai gli stacchi tra le sequenze prima di cinque minuti. E i segmenti si allungano a mano a mano che i percorsi iniziano a intrecciarsi e i personaggi a interagire. Il giovane regista compone con cura i suoi fotogrammi, sempre con un potente primo piano, all’interno del quale una figura consuma quasi interamente lo schermo. La messa a fuoco poco profonda manda tutto il resto sullo sfondo, in una sfocatura. E il regista non tiene conto dell'attenzione sulla persona che parla. La sua regola, solitamente, è quella di mantenere l'enorme figura in primo piano ben a fuoco anche quando sta solo ascoltando o meditando (fig.1). I nostri occhi perlustrano lo schermo alla ricerca di dettagli in movimento o personaggi secondari, invano. A volte il viso in primo piano da vicino è nella sfocatura e il personaggio principale è nel mezzo o sullo sfondo (fig.2). Solo quando due o tre personaggi principali condividono la stessa inquadratura beneficiano di una ripresa in profondità di campo. Il piano di messa a fuoco fissa ci ricorda che prevale solo il punto di vista dei quattro protagonisti. Sono le uniche persone che dovremmo guardare (gli altri sono relegati in decadrage e li scorgiamo solo con la coda dell’occhio). I quattro protagonisti sono quelli che hanno voce in capitolo nel film, mentre il loro ambiente e le persone che li circondano sono eternamente sfocati, come a distanza: è un'insormontabile terra di nessuno che separa l'Io da Loro, dagli altri (fig.3). Queste persone - sembra dire Hu Bo col suo stile di regia - che non ci capiscono, che ci incolpano di tutto, che giudicano le nostre motivazioni, che invariabilmente comunicano male, che si rifiutano di ascoltare! Non esistono campi e controcampi: quando si vuole evidenziare alternativamente la reazione dei personaggi, la macchina da presa gira loro intorno e riprende il tutto da un’altra prospettiva. Anche l’insistenza sui personaggi che sono rivolti alle finestre (e senza che ci venga mostrato ciò che vedono) ne accresce il senso di alienazione. Hu Bo mantiene quest’atmosfera anche con la carrellata da dietro. Reso popolare da Jean-Pierre e Luc Dardenne in "Rosetta" (1999), questo tipo di inquadratura, seguendo le orme di un personaggio sempre con le spalle alla macchina da presa, è abbondantemente utilizzato da Hu Bo in questo film, ricorrendo spesso alla steadycam (fig.4). Si tratta di una sorta di pedinamento, funzionale al processo di identificazione, che sprofonda lo spettatore in una realtà di deprivazione sociale e culturale. Proprio come nel film citato, dove un singolo protagonista è stato seguito nella sua triste routine quotidiana, "An Elephant Sitting Still" segue alternativamente quattro protagonisti, per lo più nelle riprese di nuca mettendo tutto l'ambiente di fronte ai protagonisti, mentre le persone verso le quali si muovono baluginano in uno sfondo sfocato. Essi, in primo piano medio, occupano metà dello schermo, perfettamente a fuoco. Ciò, se da un lato nega allo spettatore la possibilità di leggere i sentimenti dei protagonisti direttamente nei loro occhi e sul loro viso, lo spinge a proiettare i propri pensieri. 

 

(fig.3)

 Anche Béla Tarr ama le carrellate alle spalle dei personaggi, soprattutto in "Satantango" (1994). I fratelli Dardenne potrebbero avere avuto un'influenza su Hu Bo, forse, ma quello che è certo è che Béla Tarr è stato il suo mentore in un workshop del festival Xining FIRST nel 2016, quando il regista cinese ha sviluppato la propria sceneggiatura sotto la supervisione del maestro del cinema contemplativo contemporaneo. In "An Elephant Sitting Still" c'è molto più del regista magiaro che non delle  influenze dei maestri cinesi, a causa delle luci più scure, della tavolozza della desaturata scala di grigi priva di colori accesi, della società cupa, dei personaggi depressi, del profondo esistenzialismo che permea i ritratti delle classi umili. Echeggiano a più riprese in questo film anche le lunghe carrellate e le premesse fatalistiche de "Le armonie di Werckmeister" (2000). Detto questo, maestri cinesi come Wang Bing ("Three Sisters") o Jia Zhangke ("Il tocco del peccato"), per aver sollevato il tema dell’avidità e del materialismo nella Cina moderna, hanno comunque direttamente influenzato Hu Bo. Il regista cinese, seppur con più profonda empatia e minore distacco dalla materia trattata, ricorda la denuncia sociale e il senso di sfacelo presenti anche in "Loveless" (2017), di Andrey Zvyagintsev, soprattutto per quanto attiene al topos del pessimo rapporto tra genitori e figli come fucina di inevitabili disgrazie. Sia per la dimensione corale, sia per l’uso del piano sequenza siamo lontani dal virtuosismo melenso e a tratti ostentato di un Alejandro Gonzalez Iñarritu (Revenant - Redivivo) o di un Alfonso Cuaròn (I figli degli uomini): nel film di Hu Bo emerge chiaramente la logica e l’interesse cogente a un determinato modus operandi in fatto di messa in scena. Lasciare ad esempio che un’azione sussidiaria si svolga sullo sfondo sfocato o non venga affatto mostrata (e ciò avviene non di rado) permette di estrinsecare l’implacabilità del destino, l’insostenibilità di un peso…come di un elefante, verrebbe da dire. Tanto che, al termine delle quasi 4 ore della pellicola, è piuttosto difficile mettere in dubbio la sincerità della visione del mondo di Hu Bo.

 

(fig.4)

Per concludere, non si può non accennare alla prematura scomparsa di Hu Bo, avvenuta per suicidio ancor prima che la postproduzione del suo primo e ultimo film venisse portata a termine. Lungi dallo scrivente addentrarsi nei meandri delle cause che hanno portato all’estremo gesto, resta solo il rammarico per la dipartita di un così giovane e promettente regista la cui opera ha ricevuto due riconoscimenti a Berlino nel 2018 e successivamente trionfato per sette volte in altrettante competizioni nazionali e internazionali. 


29/12/2021

Cast e credits

cast:
Yu Zhang, Zhenghui Ling, Danyi Li, Wei Kong, Ximan Huang, Zhao-Yan Guo-Zhang, Zi Xi, Uvin Wang, Yuchang Peng, Wang Ning


regia:
Hu Bo


titolo originale:
An Elephant Sitting Still


distribuzione:
RaiPlay


durata:
234'


produzione:
Dongchun Films


sceneggiatura:
Bo Hu


fotografia:
Chao Fan


scenografie:
Qiying Deng, Xiaoxue Kang


montaggio:
Bo Hu


costumi:
Lijian Xie


musiche:
Hua Lun


Trama
In un’anonima periferia cinese lo studente Wei Bu cerca di difendere il proprio compagno Kai Li dal bullo Shuai Yu, ma finisce per farlo rotolare dalle scale uccidendolo. Il fratello di quest’ultimo, Cheng Yang, più per ingiunzione della famiglia che per intima convinzione, è spinto alla vendetta. Nel frattempo, la reputazione di Liang Huag, la ragazza di cui Bu è innamorato, è macchiata da uno scandalo per via di un flirt con il vicepreside della scuola. L’anziano Jin Wang è sconfortato all’idea che la famiglia lo collochi in una casa di riposo.
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