Ondacinema

recensione di Matteo De Simei
7.5/10

 

Sono stufo di dire "non faccio più film" e poi smentirmi
[Ermanno Olmi]


1914-2014. Un secolo dallo scoppio della Grande Guerra. Un secolo di ricordi tormentati, di memorie indelebili. Eppure lo scorrere inesorabile del tempo non fa altro che rendere il passato sempre più lontano. In qualche modo affievolisce, smorza e indebolisce quelli che furono gli anni di un ecatombe tanto grande quanto assurda. Il nuovo millennio è popolato da nuove generazioni, da nuovi martiri al cospetto dei fantasmi del proprio tempo, colpevolmente abbandonati al rispetto della Storia e del passato. Nessuno di coloro che ha combattuto a quei tempi può più testimoniare col proprio vissuto le urla nere della guerra ma fortunatamente le lettere e tutte le altre fonti scritte, quelle si, sono ancora vicine a noi. Il maestro Ermanno Olmi questo lo sa. E a conferma di una sconsolante e progressiva ottenebrazione dell'uomo contemporaneo, colpisce il fatto di come sia proprio la purezza e la saggezza di un regista giunto alla soglia delle ottantatre candeline a riuscire ancora a commuoversi dinnanzi alle telecamere nel tentativo di sottolineare il bisogno di rievocare il passato. "Perché la guerra? Perché succede ancora? Com'è possibile che l'umanità non abbia imparato a capirne la stupidità?".

Si, certo, "Torneranno i prati" è innanzitutto un film su commissione. Anzi, un evento senza precedenti visto che la pellicola sarà proiettata in contemporanea in un centinaio di paesi che hanno aderito all'iniziativa lanciata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un film che coinvolge il mondo intero si direbbe, proprio come a quel tempo fece la Grande Guerra. Il paradosso è che il film coinvolge anche il Ministero della Difesa e i nostri soldati ora in Afghanistan, Kosovo e Libano. Ed è proprio da qua che nasce l'esigenza autoriale. A Olmi queste bandiere ancora alzate, questa retorica patriottica non piace. Perché "Torneranno i prati" muove i suoi passi in ragione di una definitiva presa di coscienza: quella dell'alto tradimento nei confronti di tutti quei giovani caduti in guerra. Morti senza un perché, come bestie al macello che prima di soccombere, avvertendo l'odore del sangue, pisciano e cagano dal terrore.

Per questo il nuovo film di Olmi è elegiaco e al tempo stesso straniante. Perché la doverosa ricorrenza di un avvenimento bellico lascia spazio a una parabola universale sulla condizione dell'uomo, dall'impronta anacronistica, sorretta da una narrazione rarefatta, da personaggi senza nome (perché simboli di tutta l'umanità), messa in scena in modo ammaliante e incantevole, nonostante il tema trattato. In appena ottanta minuti il regista bergamasco si sofferma interamente sulla vita di trincea, in un tempo filmico che coinvolge una sola notte e senza che il nemico venga mai filmato. È il 1917, siamo ormai a un passo dalla disfatta di Caporetto, e l'altopiano di Asiago culla le vite di decine di soldati pronti a morire per nulla.

C'è il soldato che esclama con un "Dio infame!" la rabbia di chi non viene ascoltato, perché quello dall'altra parte, invece di accorrere in soccorso, si nasconde nel buio del silenzio, che sia esso Dio, la Madonna, il Papa o il Generale che impartisce gli ordini di morte ("ma se Dio non ha ascoltato il figlio sulla croce, può dunque ascoltare noi poveri cani?"). E proprio in un film volutamente spoglio della dignità e della ragione, la disobbedienza agli ordini di guerra rappresenta l'unico eroico atto morale (anche se porta al suicidio), perché "non ci sono ordini quando un ordine è un crimine".
C'è il soldato che canta per sentirsi ancora attaccato alla vita (la musica di Paolo Fresu ricopre una componente essenziale), c'è la sentinella che, nel silenzio della notte e nel chiarore magico del plenilunio, osserva incantato la neve e gli animali (una volpe, un topo, una lepre), come se fossero un qualcosa di mai visto. La pace della montagna diventa così il posto per apprezzare e assaporare gli ultimi squarci di vita prima che i bombardamenti del nemico cancelli dagli occhi e dalla vita tutto ciò (emblematica la sequenza del larice, dove l'edenica fotografia del figlio Fabio tinge l'albero d'oro prima che esso venga arso dalle fiamme contingenti a un'esplosione).
Le confessioni dei soldati davanti alla macchina da presa (espediente già utilizzato per il capolavoro "Il mestiere delle armi") veicolano il film verso un finale quanto mai illogico, allucinante. Chi è morto se ne è andato. Chi sopravviverà morirà due volte, come scrive nella lettera indirizzata alla madre il giovane studioso di scienze umanistiche divenuto "tenentino" in seguito all'abiura del suo superiore. E la parte più difficile è quella del perdono. Perché "se non sai perdonare, che uomo sei?".

Il realismo essenziale centellinato da Ermanno Olmi torna qua su livelli importanti dopo aver subito piccoli sbandamenti negli ultimi anni con "Centochiodi", "Terra madre" e "Il villaggio di cartone". Non a caso, "Torneranno i prati" segna un trait d'union con "Il mestiere delle armi" con il quale ha in comune non solo il genere ma anche l'elemento della neve. Quella neve che un giorno si scioglierà lasciando intravedere non più i corpi dei soldati ma immensi prati verdi.
06/11/2014

Cast e credits

cast:
Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti, Andrea Benetti


regia:
Ermanno Olmi


titolo originale:
Torneranno i prati


distribuzione:
01 Distribution


durata:
80'


produzione:
Cinemaundici, Ipotesi Cinema, Rai Cinema


sceneggiatura:
Ermanno Olmi


fotografia:
Fabio Olmi


scenografie:
Giuseppe Pirrotta


montaggio:
Paolo Cottignola


costumi:
Andrea Cavalletto


musiche:
Paolo Fresu


Trama
Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore