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Il cinema di Wenders è fatto di spazi, di viaggi e di tormenti interiori. Una carriera altalenante, che lo ha visto spaziare da grandi capolavori a improvvise cadute di tono

Nel periodo che andava dalla seconda metà degli anni 60 a quello successivo, uniformemente a quanto accadeva in Europa e negli Stati Uniti, anche nella Germania Occidentale esordirono dei registi destinati a far parte della storia del cinema, e realizzare film e opere degne di memorabile menzione.
Questi registi sono accomunati in maniera convenzionale (in quanto non vi fu un vero e proprio movimento) sotto la dicitura di esponenti del Neue Deutsche Kino (Nuovo Cinema Tedesco).
Di questa generazione di cineasti il volume della "Storia del Cinema" di Fofi-Morandini-Volpi edito da Garzanti nella parte dedicata alle Nouvelle Vagues, traccia un'interessante distinzione fra le loro peculiarità di alcuni di loro definendo Werner Herzog il mistico, Fassbinder il melodrammatico, Kluge il dialettico e Wim Wenders l'antropologo del gruppo.

Quest'ultima è senz'altro una denominazione sicuramente azzeccata e che rende bene l'idea di quello che è il viaggio (termine assolutamente calzante per celebrarne l'opera) intrapreso dal grande regista tedesco, nato a Dusseldorf nel 1945.
Il suo archetipo di cinema è perpetrato dentro un percorso interiore al cinema stesso e si manifesta attraverso le immagini, gli spazi infiniti, le caratteristiche profonde dei suoi personaggi, sempre alla ricerca, nel corso del tempo di quel falso movimento che è la libertà dentro lo stato delle cose della condizione umana.
E in questa mia ultima frase, con un gioco di parole ho voluto condensare tre tra i titoli più significativi della carriera di Ernst Wilhelm Wenders.

Dopo un esordio particolare e interessante come quello di Summer In The City (1970), dove si svela il suo raffinato gusto per il bianco e nero e il giallo d'autore, segue Prima Del Calcio Di Rigore (1971) - tratto da un noto romanzo di Peter Handke - nel quale il protagonista, portiere di una squadra di calcio, spinto dall'angoscia e dalla solitudine, fugge dalla sua squadra e da se stesso, cercando rifugio nell'alcol, provando persino l'omicidio e si circonda da una ronda di personaggi secondari che ne illustrano la personalità disillusa e annoiata.
Evidenti sono i richiami al cinema di Antonioni, così come il suo fulgido talento nel ritrarre paesaggi e spazi.

Quindi Wenders si cimentò con molta fatica alla trasposizione cinematografica del capolavoro di Hawthorne - La Lettera Scarlatta (1972) - che cercò di rappresentare in maniera atipica, facendo ricorso a un'estetica disincantata.
Ma si scontrò con problemi produttivi e con la propria difficoltà nel dirigere attori affermati come Lou Castel e Senta Berger che la produzione gli impose, eppure ebbe modo di conoscere e far apprezzare la piccola meravigliosa Yella Rottlander, che l'anno dopo fu la protagonista di Alice Nelle Città (1973).
La Lettera Scarlatta è un film sicuramente controverso, tuttavia in esso è possibile riscontrare aspetti interessanti, come la caratterizzazione di piccoli personaggi.
L'innocenza, il candore, l'espressività della Rottlander saranno al centro di Alice Nelle Città, costituendo il simbolo quella speranza che il fotografo Rudiger Vogler ha quasi perduto, e che cerca di ritrovare in quest'infinito, malinconico viaggio, scandito dalla fotografia superba del fido Robby Muller e che s'interroga e fa interrogare sul rapporto immagine-realtà, finzione-visione effettiva. Un'altra costante del lavoro di Wenders.
Con questo film ha inizio la nota "trilogia della strada", un percorso immaginario fatto attraverso il racconto di viaggi e anime in perenne ricerca, scandito da immagini indimenticabili e angosce esistenziali che non trovano soluzioni.

Così il 1975 è l'anno di Falso Movimento e Nel Corso Del Tempo, capitoli conclusivi della trilogia, con Philip Winter/Rudiger Vogler sempre protagonista principale, anche se in ruoli decisamente differenti tra loro.

In Falso Movimento (adattamento molto libero di Handke dal "Wilhelm Meister" di Goethe) fugge dall'ovile della casa materna quasi per inerzia e termina il suo viaggio dopo aver incontrato svariate persone che, come lui, non hanno ricavato (e forse nemmeno cercato) nulla dalle loro vite.
La sua ricerca passerà attraverso l'amore (una straniata Hanna Schygulla) e la morte (un suicidio di uno dei personaggi incontrati), ma alla fine si fermerà poco prima della cima di una montagna, capolinea della sua frustrazione.

Nell'opera successiva - Nel Corso Del Tempo - è ancora come in Alice Nelle Città un duo a essere protagonista, l'intellettuale Zichsler e il riparatore di vecchi proiettori Vogler, l'uno alle prese con problemi comunicativi ed esistenziali e l'altro attaccato alla vita con i suoi piccoli piaceri e tendente all'essenziale.
Un viaggio (l'ennesimo) formativo attraverso le rovine della vecchia Germania Federale, dove spicca un gusto mai sopito per il cinema degli albori (in particolare quello espressionista) e si configura il ritratto di una generazione che ha creduto in qualcosa che gli sta sfuggendo e che ha necessità di ritrovarsi, ricomponendo i vuoti dell'esistenza anche attraverso la musica. Personaggi scalfiti dentro la memoria di un indimenticabile capolavoro.

Conclusa la trilogia, Wenders torna nel 1977 con un altro film straordinario (forse il suo migliore in assoluto): L'Amico Americano.
Liberissimo adattamento del "Gioco di Ripley" di Patricia Highsmith, è un film sull'amicizia, la morte e l'amore.
Il personaggio principale, il corniciaio Bruno Ganz (semplicemente magnifico), malato di leucemia, per garantire un futuro alla sua famiglia e cure migliori per sé, viene assoldato da un gangster per commettere un omicidio, episodio che segnerà anche la nascita dell'amicizia con Ripley, un Dennis Hopper perfettamente calato nella parte.
Ma l'intreccio è soltanto un pretesto per fornire l'idea che Wenders ha del cinema, dove i registi (Ray, Fuller, Eustache e altri ancora) sono ritratti come fuorilegge perché sono i soli che giocano con la vita e la morte come i gangster e dove mito e caso appaiono come elementi decisivi, in un'Amburgo crepuscolare dipinta dalle prodezze di Robby Muller.
La sequenza nella quale Ganz si affaccia alla finestra, vede un aquilone, ed evoca la sua sofferenza è entrata di diritto nella storia del cinema.

È anche evidente, in questo lavoro, la dicotomia fra cinema europeo e americano, che sarà alla base del suo successivo film: il travagliato e complesso Nick's Movie - Lampi Nell'Acqua (1980), racconto degli ultimi giorni di vita di Nicholas Ray, motivo per tirare le somme sulla fine del cinema hollywoodiano, del suo rapporto con quello del Vecchio Continente, dell'attesa di una morte incombente, nonché il racconto di un'amicizia.
Apparentemente la carne al fuoco può essere troppa, ma, dopo un lunghissimo lavoro di montaggio, il film colpisce nel segno e - nonostante qualche lieve caduta - risale sino a un finale che ha quasi del mitologico, con le cenere di Ray gettate nell'oceano, da una giunca cinese dove tutti i suoi amici con la moglie, s'imbarcano e vagano con l'ideale spirito del regista americano e del suo cinema che li accompagna.

Nel percorso tracciato dai due film precedenti, Lo Stato Delle Cose (1982) è la sintesi perfetta.
Il film è diviso idealmente in due parti, la prima è ambientata e girata a Lisbona e si distingue per la lentezza e l'introspezione, una staticità che può persino impressionare, altamente evocativa e addirittura disturbante, mentre la seconda - ambientata e girata a Los Angeles - è un accavallarsi continuo e incredibile di situazioni, azioni e colpi di scena, un vero gangster movie, nel quale non è difficile riscontrare un forte spirito verso l'improvvisazione e il work in progress.
Probabilmente è il film che meglio rappresenta la carriera di Wenders, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

Inoltre è anche la risultante della stressante e difficoltosa lavorazione di Hammett (1983), girato per la Zoetrope di Coppola, un noir che nonostante tutto lascia intendere ancora una volta le capacità di Wenders nel cimentarsi e nel citare il cinema di genere da lui prediletto.

L'anno seguente è la volta della collaborazione con il drammaturgo-attore americano Sam Shepard, che è co-sceneggiatore in Paris, Texas.
L'ennesimo racconto di un viaggio che è anche l'occasione per riflettere sugli affetti, sul rapporto padre-madre-figlio, come pure sulla realtà sfuggente delle illusioni, del racconto narrato attraverso lo specchio di un peep-show (splendida Nastassja Kinski).
La ricerca dell'identità si compie (forse) attraverso la rinuncia e l'inizio di un'altra e il film - anche se probabilmente troppo lungo - risulta emozionante e coinvolgente.

Il passo successivo - dopo America ed Europa - non poteva che essere l'Estremo Oriente: il Giappone di Tokyo-Ga (1986).
Wenders si spinge a Tokyo per celebrare e onorare la memoria del grande regista giapponese Yasujiro Ozu, andare alla ricerca di quel paese che lui ha raccontato (è morto nel 1963) e analizzarne le differenze con quello contemporaneo.
Una narrazione toccante e intima, sincera e spontanea.

Quindi il ritorno in Germania è caratterizzato dalla realizzazione del suo film forse più noto, Il Cielo Sopra Berlino (1987).
Qui Wenders forse ha misurato eccessivamente il peso delle sue ambizioni, e la sceneggiatura di Handke è a volte un po' troppo macchinosa, ma è innegabile il fascino che emana questo film, con l'improvviso passaggio dal bianco e nero al colore e gli angeli che sovrastano una Berlino decadente e incantata al tempo stesso, con i pensieri della gente che fluttuano nelle loro teste e una fiducia disincantata, ma schietta, verso il futuro dell'umanità e il genere umano in generale.

Gli anni che seguono sono i più bui per la qualità delle opere di Wenders.

Dopo un documentario sul mondo della moda (Appunti Di Viaggio Su Moda E Città, 1989). Il cineasta tedesco realizza con non pochi sforzi il film-fiume Fino Alla Fine Del Mondo (1989), che dopo un inizio coinvolgente nella migliore tradizione dei viaggi wendersiani, si perde nei meandri delle sue supposizioni riguardo al potere delle immagini, la dipendenza da queste, e uno scenario futuristico che pare preludere all'apocalisse. Il risultato finale è un pasticcio dove le buone intenzioni rimangono tali e il pastrocchio non viene risolto, lasciando più volte sconcertati.

Segue uno sciatto corto (Arisha, 1993) e il suo film forse peggiore, Così Lontano, Così Vicino (1993) il quale ripete noiosamente il plot del Cielo Sopra Berlino del quale è l'ideale seguito, ma rimane aggrovigliato a poche idee fisse e lascia trapelare un certo fastidioso moralismo.

La rinascita avviene col ritorno nella capitale portoghese in Lisbon Story (1995), un omaggio al centenario del cinema, una riflessione finalmente lucida sul potere e la validità delle immagini un secolo dopo, accompagnate da uno splendido scenario lisbonese e dalle straordinarie canzoni dei Madredeus, che pure partecipano attivamente al film come protagonisti.

Nello stesso anno collabora con Antonioni alla realizzazione del suo "Al Di Là Delle Nuvole" e firma un'interessante nuova considerazione sulla nascita del cinema attraverso I Fratelli Skladamovski.

Il rientro negli Usa, però, non è dei più felici e la palese testimonianza ne è la confusione che regna sovrana in Crimini Invisibili (1997), dove Wenders insiste tediosamente nelle sue idee moralizzatrici e perde contatto con dimensione della sua poetica, che qui sembra appassita più che mai e scivola in un inghippo difficilmente spiegabile.

Con Buena Vista Social Club (1999), il regista tedesco si sposta a Cuba e narra di un gruppo di anziani musicisti e delle tradizioni di un'isola tormentata e perduta dentro se stessa. A volte un po' troppo stucchevole e ripetitivo, è un lavoro che merita in ogni modo una visione attenta.

Sconcertante sotto ogni punto di vista è invece The Million Dollar Hotel (2000), un film sconclusionato, diretto male e interpretato peggio, senza uno straccio di sceneggiatura decente, che, a parte qualche bella ripresa, non presenta nessun aspetto degno di nota.

La musica - il blues nello specifico - invece torna protagonista, con l'emozionante L'Anima Di Un Uomo (2002), che per mezzo di vecchi filmati (veri e falsi) racconta l'epopea mitica dei pionieri semisconosciuti del genere, trattando il tutto con uno stile sopraffino, che si sposa alla perfezione a un regista del suo livello.

Un regista che avuto un periodo illuminante e illuminato che lo ha fatto entrare per sempre nella galleria degli "immortali del cinema", ma che dalla seconda metà degli anni 80 ha perso in continuità e infilato una serie di opere mediocre e irrilevanti, pur restando capace di realizzare tuttora opere all'altezza della sua fama.

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Il ritorno di Wim Wenders in Europa è un orrore difficilmente descrivibile. Gli ultimi due lavori in terra americana avevano fatto pensare a una piccola resurrezione del maestro tedesco. E se "La terra dell'abbondanza" risentiva comunque della piega da santone retorico che imperava negli inguardabili film precedenti, "Non bussare alla mia porta" aveva rappresentato invece un ritorno in grande stile. Da lì si riprende per questo Palermo Shooting: il bilancio di una vita, l'assenza dei figli e della famiglia come sostegno nei momenti di crisi, il continuo domandarsi sull'utilità e il ruolo della morte. Ma la tendenza di Wenders a usare a piene mani il registro onirico è imbarazzante: a Cannes qualcuno ironizzò sul fatto che ormai il vecchio Wim sia il David Lynch dei poveri. E in effetti si dimostra totalmente incapace di mettere in scena con fascino le scene sognanti, di dar loro un senso comprensibile per lo spettatore. L'impressione generale è proprio di un'inconsapevolezza (che fa quasi tenerezza) dello stesso regista di condurre a termine la narrazione così come l'aveva concepita in fase di scrittura. Se si eccettuano alcuni scorci suggestivi della Sicilia e qualche primo piano della Mezzogiorno, non si ricordano scene da salvare. Dispiace per i fischi e gli schiamazzi che hanno accolto ovunque il film, ma è davvero difficile non bollare come totalmente pretenzioso lo stile usato da Wenders. Anche le apparizioni "da incubo" di Lou Reed e di Patti Smith (a proposito, la colonna sonora è davvero suggestiva) si risolvono con un effetto comico: inserti di fantastico nei momenti più improbabili della pellicola. E la tragedia trova il suo apice nell'incredibile dialogo finale: nemmeno il carisma di Dennis Hopper sembra riuscire a tradurre la stupidità delle frasi pronunciate dalla Morte.

Il talento visivo di Wenders si confronta con la potenza espressiva delle coreografie di Pina Bausch (già comparsa sul grande schermo per Fellini ed Almodovar), il risultato è il documentario musicale Pina. Il lavoro era nato da un'idea di collaborazione dei due, amici sin dagli anni '70, e concretizzatosi solo nel 2008 per subire un drastico arresto nell'anno successivo quando il 30 Giugno la Bausch morì all'età di 68 anni. A breve distanza il progetto ripartiva, ma ristrutturato sin alle fondamenta per diventare un ricordo del lavoro ed un omaggio alla coreografa del Tanztheater Wuppertal. Corpi che cercano di ricavare la loro dimensione negli spazii urbani con i quali si integrano o lottano, con cui si accordano o stridono in modo disturbante. Corpi che divengono ostacolo o mezzo di liberazione. Corpi che continuamente cercano il loro più autentico mondo d'appartenenza nell'incontro/scontro con gli elementi naturali o con gli artifici umani. Un corpo, è quello dell'uomo, che cerca instancabilmente la sintesi col mondo circostante. Gravità, leggerezza, costrizione, libertà. Pina è la coscienza del corpo, semplice bellezza. In questo accorato ricordo di un'amica perduta ricostruito attraverso le parole dette e impresse nella mente, memoriale di una grande artista, Wenders in un dono d'amore disintegra la forma-documentario per ricostruirla attorno al flusso delle danze che sembrano già dialogare tra loro e ci offre alcune delle più belle immagini del cinema dei nostri giorni, evocative icone in movimento che si fanno largo nell'inconscio. Tra tanti timidi sguardi che sfiorano a malapena la cinepresa si alza un inno alla vita, lirica struggente della bellezza stessa.

Il sale della terra fornisce a Wenders l'opportunità di porsi e di porre la domanda alla base della sua opera: qual è il ruolo del regista - e in assoluto dell'artista - quando crea, quando filma e quale quello di ciò che filma? Un discorso lucido e asciugato in alcuni delle sue opere risalenti al ventennio 70-80, ma che con l'avanzare degli anni è stato caricato e saturato da ulteriori elementi teorici, svolazzi di estetica New Age, facili schematismi. Ma nel tracciare un ritratto del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado il cineasta tedesco riafferma (almeno sul versante documentaristico) una seconda giovinezza. Più che invisibile la presenza di Wenders rimarca la distanza tra il regista-documentarista e il soggetto-fulcro. Il suo è un omaggio ma anche un atto d'amore verso l'altrui arte e come tale bagnato da una ammirevole umiltà che lo ha spinto a condividere la regia del film con il figlio di Salgado, Juliano Ribeiro. La pellicola è prevalentemente dominata da lunghe carrellate di fotografie scattate da Salgado, accompagnate, raccontate, ritmate dalla sua stessa voce. Nel suo linguaggio Salgado instaura una partecipazione spirituale con i soggetti ritratti, un filtro che materializza una dimensione di sacrale bellezza, un tentativo di comunicare l'indicibilità della tragedia che non sappiamo vedere, dove l'istinto dell'artista ha sempre la meglio sulla comunicazione pedagogica terzomondista. Il suo lavoro esplora le condizioni umane di coloro che l'autore chiama "il sale della terra": gli esseri umani. Persone immortalate in disparati angoli del mondo, prevalentemente vittime non solo di sistemi socio-economici poco equi ma assorbiti, vincitori e vinti, dalla terra e dalla natura che ci pervade. E talvolta sarà difficile per lo spettatore opporsi ad una dolorosa commozione che Wenders restituisce con adesione e intensità.

Per il ritorno al cinema di finzione, dopo i riconoscimenti di stima ricevuti per i documentari su Pina Bausch ("Pina") e Julio Ribeiro Salgado ("Il sale della terra") Wim Wenders sceglie di ripartire esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotto il suo cammino ("Palermo Shooting", girato in Italia nel 2008) , e cioè da un tipo di cinema che fa del tempo e del suo divenire la discriminante capace di creare la cifra estetica del suoi film, e, conseguentemente, di trasformare l'impianto narrativo delle storie in un flusso ininterrotto di immagini e parole; e ancora, passando sul piano dei contenuti il principale strumento di una ricerca che non si ferma sulla soglia dei comportamenti ma ne analizza le ragioni, arrivando a sondarle in quei territori dell'animo umano dove essi hanno origine. Nel caso poi di Ritorno alla vita, il suo nuovo lavoro presentato in anteprima mondiale all'ultimo festival di Berlino, dove il regista ha ricevuto il premio alla carriera, ci sembra che la metodologia del regista sia diventata ancora più radicale nel diradare tutti quegli appigli che normalmente danno modo allo spettatore di metabolizzare le asperità di certo cinema d'autore. Wenders al contrario rilancia le caratteristiche cinematografiche che hanno distinto le sue opere più famose, risultando monacale, tanto nell'utilizzo dell'immagine degli attori (da James Franco, in una parte che sembra fare il verso a quelle assegnate agli attori dei suoi lavori, a Charlotte Gainsbourg, e senza dimenticare Rachel McAdams), spogliati o quasi di ogni aspetto riconducibile al loro essere parte integrante dello star system europeo e hollywoodiano, quanto nel procedere del narrato, impostato su un serie continuata di "falsi movimenti" che, nel minimalismo motorio presente all'interno delle singole sequenze, impostate su una staticità che riguarda tanto le figure umane che il paesaggio circostante, sembrano rimandare contemporaneamente alle difficoltà dello scrittore Tomas Eldan, romanziere di successo alle prese con una prolungata mancanza d'ispirazione e alle conseguenze del senso di colpa scaturito dal fatto di aver provocato, seppur in circostanze che non dipendono da lui, la tragica morte di un bambino.


Contributi di Giancarlo Usai ("Palermo Shooting"), Simone Pecetta ("Pina"), Diego Capuano ("Il sale della terra") e Carlo Cerofolini ("Ritorno alla vita")





Wim Wenders