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recensione di Alessio Cossu

Perchè banditi a Orgosolo

"Banditi a Orgosolo" è il lungometraggio d’esordio realizzato da Vittorio De Seta, fino a quel momento documentarista, in Barbagia, una regione impervia all'interno della Sardegna, isola già di per sè lontana dai consueti centri di produzione cinematografica. Non solo la troupe è ridotta all'essenziale, ma anche il cast è sui generis in quanto costituito da persone del luogo che lavorano per la prima volta davanti a una macchina da presa. La pellicola, tuttavia, suscita da subito molto interesse in Italia e ancor di più all'estero. Dopo aver infatti incassato il riconoscimento come miglior opera prima da parte della giuria della Mostra del cinema di Venezia del 1961, l'anno successivo, con la motivazione che si tratta di "un'opera creativa di eccezionale valore nel campo della cinematografia documentaria", è la giuria di New York ad accorgersi di questa singolare opera. Sempre nel 1962 i giurati di Boston affermano che il premio Flaherty per la miglior regia assegnato a Vittorio De Seta è legato alla "qualità del risultato nella ricerca creativa col mezzo cinematografico". Il film si impone immediatamente alla critica come un'opera straordinaria (ancora molti anni dopo Martin Scorsese parla di "un capolavoro indiscusso"[1]). Si tratta poi di un'opera che ha incontrato il favore della comunità locale per il tatto e l'assenza di pregiudizio con cui ha saputo affrontare una tematica scottante come quella del banditismo, così come ha ricevuto lodi nella Cuba di Fidel Castro e Che Guevara segnalandosi come un film che "dimostra che il cinema è un'arma importante nella lotta per il progresso dell'umanità"[2]. "Banditi a Orgosolo" ha incontrato il favore della critica ma anche il plauso del pubblico, tanto che a oltre mezzo secolo dalla sua realizzazione è in grado di suscitare il pathos che solo i classici senza tempo evocano, e la modernità del suo messaggio mantiene inalterata la sua freschezza. L'impronta poetica del film è ovviamente rimasta impressa nel modo di fare cinema fino agli autori sardi del terzo millennio. La virtuosa osmosi tra la comunità orgolese e Vittorio De Seta, giuntovi non da estraneo ma da ospite, è la chiave di una trasposizione cinematografica al cui centro vi è l'uomo, per cui il focus sul problema del banditismo viene sottratto alla semplicistica condanna di una malvagità atavica e imbevuta di lombrosianesimo (convinzione per altro piuttosto diffusa in ampi strati dell'opinione pubblica e per giunta avallata da più di un governo). La tematica viene riconsiderata in un'ottica storicista dal sapore marxista e che con la rivendicazione dello stringente rapporto tra causa ed effetto considera come determinanti i fattori socio-economici che condizionano la vita quotidiana di determinate comunità. Michele, il protagonista, diventa in sostanza un fuorilegge non perché ontologicamente criminale, ma perché l'ambiente del cui humus si è nutrito e le ristrettezze economiche gli offrono la razzia come unica via di scampo all'annientamento del proprio patrimonio, alla perdita della libertà e della vita. In altre parole egli è un agnello sacrificale, una vittima, un anello debole della catena sociale e paga unicamente per questo, come del resto può capitare a coloro che vivono in queste aree. Ma a fare di questo film un unicum difficile da imitare è quell'aura mitopoietica che è propria dei grandi capolavori, dal momento che una elementare causalità di fattori sociali trasfigurano la realtà in mito (la Moira incombe in modo immanente sul pastore ed egli non può sfuggirle) e, pur trascinando la fabula in una dimensione astorica, atemporale, le scelte registiche e produttive sono così legate al reale da mettere in scena ambienti e personaggi non solo credibili, ma veri, per quanto la vicenda non ricalchi avvenimenti realmente accaduti.

La trama


Conclusa una battuta di caccia al muflone in montagna, Michele Jossu, un pastore di Orgosolo, ritorna al proprio pascolo, dove il fratello minore Peppeddu, un bambino di una diecina d’anni, lo attende. Insieme prima cercano e poi curano una pecora che ritrovano poco distante pressochè immobilizzata a causa della frattura ad una zampa. Trascorsa la notte nell’ovile, conducono il gregge al pascolo. La giornata sembra svolgersi come tante altre, quando Michele vede che degli sconosciuti tentano di nascondere dei maiali in un anfratto nei pressi del suo ovile. Fattosi più vicino ne chiede conto e capisce che si tratta di ladri che con il pretesto che uno di loro è ammalato non ne vogliono sapere di allontanarsi riprendendosi il maltolto. Giungono i carabinieri che perquisiscono l’area e i ladri si danno alla fuga, mentre Michele non può fare altrettanto perché ora, scoperti i maiali nei pressi del suo ovile è lui ad essere interrogato. Nel frattempo i ladri, avvistati dai militari, fanno ricorso alle armi uccidendo un carabiniere. A sua volta, Michele fugge d’istinto cercando di portare dietro di sé il gregge con l’aiuto del fratello. I due, per mettersi in salvo visto che ora Michele è accusato di omicidio, devono guadagnare al più presto la pianura, ma sono costretti ad attraversare l’area montuosa sopra gli abitati di Orgosolo e Oliena. La traversata si trasforma in una carneficina: le pecore muoiono tutte stremate per la fatica e la sete. Michele, coperto di debiti oltre che braccato dalle forze dell’ordine, decide di rifarsi rubando il gregge di un altro pastore diventando in questo modo egli stesso un bandito.

I motivi ispiratori


De Seta aveva un passato da documentarista in Sicilia e la lettura di due opere, "Inchiesta su Orgosolo" (di Franco Cagnetta[3]) e "Diario di una maestrina" (di Maria Giacobbe[4]) gli svelano la Sardegna come un microcosmo interessante verso cui rivolgere la sua attenzione. La prima ha un taglio etno-antropologico e denuncia le dure condizioni di vita della popolazione a causa delle inappropriate iniziative dello stato, basate unicamente sulla repressione poliziesca. Il testo della Giacobbe è invece un diario dettagliato della sua attività di maestra elementare. L'inchiesta di Cagnetta aveva destato scandalo poiché non celava dietro paraventi o infingimenti le gravi responsabilità dell'amministrazione centrale di fronte alla crisi economico-sociale di un angolo di mezzogiorno cui pochi, in verità, si erano fino a quel momento veramente interessati. Il governo Scelba, per tutta risposta, aveva sequestrato il numero della rivista e denunciato i direttori (Alberto Moravia e Alberto Carocci) e l'autore, rei della pubblicazione. De Seta giungeva dunque in Sardegna deciso a mettere a fuoco due fattori caratterizzanti la vita agro-pastorale: l'esistenza della vita del pastore obbligato a trascorrere molto tempo in un isolamento pressoché totale per occuparsi del gregge e il conseguente carico di lavoro che si ripercuoteva sulle spalle delle donne rimaste in paese e costrette a sobbarcarsi tutti gli oneri della vita quotidiana. Nascono così "Pastori di Orgosolo" e "Un giorno in Barbagia".
De Seta non è tuttavia soddisfatto e gli pare che i due brevi documentari non rendano giustizia del complesso quadro della realtà orgolese. Per questo in un primo momento cerca la collaborazione di Moravia per elaborare un soggetto ed eventualmente una sceneggiatura, ma ben presto si rende conto che essendo lo scrittore digiuno della realtà sarda, un suo sostegno sarebbe potuto risultare controproducente. Pertanto il regista medita non tanto di concepire un'opera secondo i moduli canonici, quanto di coniugare l'occhiuta precisione del documentarista con il piglio creativo del regista-autore. Muovere cioè dalla realtà per superarla plasmando gli elementi fondamentali di un microcosmo in modo tale che diventino emblematici di un determinato universo. Sono anni in cui il cinema italiano percepisce, e riconosce, il peso specifico del neorealismo, ma in cui vi sono anche fermenti nuovi. Se infatti il neorealismo è un genere intimamente legato al fatto storico, alla realtà narrata nel suo estrinsecarsi su eventi della quotidianità, De Seta vuole prescindere in toto dalla storicità per portare la macchina da presa davanti a una condizione che astrae dall’evento specifico. "Banditi a Orgosolo", infatti, per quanto attinga all'armamentario dell'antropologo e alla ricerca sul campo, supera la rigida dimensione storica. In questo racconto storia e mito non sono alternativi o, peggio, antitetici, ma elementi che convivono corroborandosi. Che la chiave socio-antropologica non sia l'unica per intendere il film, d'altronde, lo dimostrano le valide e pregnanti esegesi dei critici soprattutto stranieri, ben più mature di quelle di chi cerca a tutti i costi di ritrovare nel film la fedeltà a una data realtà. Andrè Labarthe, ad esempio, nel segnalare "Banditi a Orgosolo" come la rivelazione del Festival di Venezia, sottolinea il fatto di non conoscere niente del lavoro di De Seta, ma di non potere non apprezzare i meriti del film[5]. "Banditi a Orgosolo" è dunque un'opera singolare perché racconta una storia inventata nella quale si innestano gli stilemi del western e della tragedia greca, e nel contempo è un trattato di antropologia realizzato attingendo a piene mani dalla realtà. Martin Scorsese, raccontando della prima visione a New York all'inizio degli anni ’60, dice che "il neorealismo era stato condotto su un altro livello, in cui il regista partecipava completamente alla narrazione, in cui la linea di demarcazione tra forma e contenuto era stata annullata e in cui erano gli eventi a dettare la forma"[6].
Tuttavia, per quanto da queste premesse la narrazione potesse indulgere a istanze puramente sociali e antropologiche, De Seta preferisce l'angolo visuale del mito. Una volta privati del riferimento temporale e della contestualizzazione sociale, i fatti perdono la loro ascendenza storica per acquisire quella del mito: a Michele non è imputabile la trasgressione di alcuna legge dello stato o della comunità, è il destino che lo spinge a scelte ineluttabili. Il fato interviene equiparando il pastore all’eroe da tragedia greca, quasi che vincolato a uno status atavico non abbia alcuna possibilità di sottrarsi al vortice del banditismo. De Seta si pone come primo obiettivo quello di raccontare da antropologo l'uomo concreto, osservando l’uomo orgolese, vivendoci a stretto contatto e calandosi nel suo universo. Conoscerlo in definitiva così bene da riplasmarlo in una dimensione astorica. Per dirla insomma come Deleuze quando parla di Jean Reuch "è necessario che il personaggio sia prima reale perché affermi la finzione come potenza e non come modello"[7]. De Seta parte dunque dalla realtà fattuale senza appiattirsi su di essa, ma tenendo ben stretta la bussola che conduce al non tempo del mito. Nella "Medea" di Pier Paolo Pasolini (1969) il centauro Chirone dice a Giasone che "solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico". Come in tutte le tragedie, il protagonista è contaminato da una colpa che nell'ottica desetiana diventa coazione prima e καταστροφή poi, visto che il banditismo è un ciclo che sottrae l'uomo alla linearità della storia. Michele non riconosce la giustizia poiché essa si concretizza in modalità incompatibili con la vita del pastore. Per questo fugge, perché è portatore di una colpa atavica, quella insita nell'essere pastore di Orgosolo la cui legge è diversa da quella del mondo moderno. Sandro Bernardi, a partire da "La terra trema" di Luchino Visconti, sostiene che "il presente genera il mito e il mito influisce sulla lettura del presente. La linearità del tempo storico, progresso o lotta di classe che sia, subisce deviazioni, ritorni"[8]. I pastori della Barbagia, allora, nota Vincenzo Consolo in un testo in cui il "metodo" De Seta viene assimilato a quello de "I Malavoglia" di Verga, "vengono sottratti alla contingenza storica, alla fenomenologia storica, e riportati al lungo tempo, immemorabile, in cui quei gesti, quei riti, quella cultura si sono formati, hanno assunto precisa identità: s'iscrivono nell’eventologia, nell’esistenza. De Seta […] fotografa il breve arco di un immenso cerchio, il tempo ricorrente di un rito; ci dà il simbolo di una condizione umana, il senso di un'epica dolorosa, la misura di una grande poesia"[9].
È interessante notare come De Seta ebbe il merito di ideare una nuova modalità di regia che sarebbe poi stata ereditata dalle generazioni successive di registi, quali Matteo Garrone, Claudio Giovannesi, Michele Vannucci, Giovanni Columbu, Michelangelo Frammartino. Alludo alla predilezione per la messa in situazione rispetto all'uso del copione. Che il regista siciliano sia approdato a tale metodo di lavoro empiricamente e per passaggi successivi, lo attestano una nutrita serie di materiali, costituiti da riflessioni appuntate a volte anche in modo estemporaneo, testi di interviste e un corposo numero di fotografie di scena e di set. Completano poi la documentazione in funzione delle riprese una serie di appunti vertenti su vari argomenti: episodi di vita di personaggi noti nella comunità le cui vicende possono sembrare emblematiche anche se solo indirettamente utili alla realizzazione del film, giacchè l’eccessiva attenzione sui fatti realmente accaduti avrebbe amplificato la componente cronachistica e snaturato lo sguardo d’insieme sull’ethos della comunità; annotazioni sulla vita dei pastori; spunti provenienti dalla lettura di "Caccia grossa" (di Giulio Bechi)[10]; annotazioni sul rapporto tra l'ambiente e chi vi abita e riflessioni sul paesaggio sonoro. De Seta sentiva di avere bisogno di un lavoro che partisse da una prospettiva molto ampia che gli permettesse di entrare in un preciso ambiente tenendo conto degli aspetti culturali, sociali, economici e politici in modo da sentirsene poi un demiurgo. De Seta sosteneva, un po' come Zavattini, che il lavoro creativo del regista dovesse procedere attraverso il pedinamento della realtà, sulla quale innestare la fantasia. La prova regina del metodo desetiano è però costituita da un'altra serie di appunti che, sviluppati in forma paratattica e scritti a penna, si caratterizzano per gli "oppure" e i "possibili sviluppi" che segnano il passaggio da un periodo all'altro. Sono cioè testi che ipotizzano situazioni generali o particolari e possibili sviluppi aperti in modo da permettere ai collaboratori del luogo di dare un parere sull'efficacia e credibilità della scena e agli attori di trasformarle in base alla propria sensibilità e alle capacità di esprimerle.

Un modello produttivo rivoluzionario


Ripercorrendo la genesi del film, quanto più ci si avvicina al periodo delle riprese, tanto più gli appunti prendono l’aspetto di una narrazione. Vittorio De Seta lavora rinunciando a una sceneggiatura o a un copione e avvalendosi invece di un canovaccio che contiene in modo abbozzato lo snodo della trama e le situazioni da trattare. Gli attori sono gli interpreti di una situazione che nasce dalla loro propria esperienza e sensibilità. Il regista ricorda: "Spiegavo agli attori la scena e il senso di quello che andava detto, esortandoli a trovare loro le parole per esprimere la situazione. Capitava che quando una scena doveva essere ripetuta il testo cambiava, venivano eliminate delle battute e aggiunte delle altre. Non avevamo un copione e in sede di montaggio, in alcuni casi, per trascrivere il testo abbiamo dovuto leggere il movimento delle labbra. Avevo intuito che lavorando con attori non professionisti non potevo chiedere loro di studiare la parte perché lo sforzo mnemonico creava imbarazzo e faceva perdere la spontaneità. […] All’inizio era tutto molto labile, ma poco a poco il metodo si è stabilizzato, tanto che è diventato un mio stile di lavoro che ho seguito anche nei lavori successivi"[11]. Questo metodo di ripresa ha imposto scelte anche sul parlato: non era possibile girare in sardo vista l’assenza di un fonico e quindi di una qualità accettabile di registrazione. Inoltre, nella ripetizione delle scene i pastori modificavano le battute che finivano per essere sconnesse rispetto al girato e questo rendeva ancora più complicato gestire il testo, già impegnativo per la difficoltà di comprensione del sardo barbaricino. È per questo che si dovette "scrivere i dialoghi a posteriori", adeguandoli al labiale[12]. Analogamente, il ridimensionamento della troupe rispetto alle prime riprese è legato al diverso feeling performativo degli attori. Sempre De Seta racconta: "Facemmo una prova con una piccola troupe, ma non funzionò. Perché, mi ricordo, i pastori si bloccavano. Facemmo la scena della caccia al muflone. Quando era pronto l'operatore si erano completamente congelati loro. Allora ho detto: 'Arrostite il muflone e mangiate. Fate come se noi non ci fossimo'. E allora nasceva questo nuovo contesto, per cui non era la scena al servizio della macchina da presa, ma la macchina da presa al servizio della scena"[13]. Pertanto è anche la verità di ciò che si vuole far emergere dalla pellicola che condiziona la realizzazione del film. Per garantire infatti la genuinità in un film di finzione si possono seguire diverse vie. È possibile ad esempio, come nelle produzioni canoniche, avvalersi di attori professionisti che siano in grado di ricreare una determinata atmosfera, oppure, secondo la lezione di certa scuola neorealista, affiancare professionisti a non professionisti (come in "Roma città aperta" di Roberto Rossellini), o anche portare i non professionisti a interpretare ruoli nuovi rispetto alla loro esperienza di vita muovendo da un progetto già definito (come nel caso di "Ladri di biciclette" di Vittorio De Sica). De Seta opta per una modalità ulteriore, che si discosta anche da quella percorsa da Luchino Visconti in "La terra trema", film con cui "Banditi a Orgosolo" ha pure non pochi elementi in comune. La modalità seguita è infatti quella di portare gli attori non professionisti a interpretare per lo schermo quanto loro sanno per esperienza diretta e su cui hanno delle conoscenze superiori a quelle del regista. In tal modo il loro ruolo sul set diventa quello di mediatori fra il proprio universo e quanto deve essere ricostruito nel film. Essi prescindono in altri termini da una parte da recitare e svolgono piuttosto una scena che è una situazione tipo in relazione al loro Erlebnis che espongono davanti alla macchina da presa. Non sono più attori, bensì coautori della storia in quanto, pur non controllando l’atto creativo nell’insieme, forniscono contributi decisivi allo sviluppo diegetico. E qui interviene ovviamente la capacità adattiva del regista, sempre pronto a variare il percorso ma lucidamente conscio della meta cui tendere. Nel film ci sono scene che nascono in modo del tutto estemporaneo da indicazioni degli attori. Il modo in cui le pecore muoiono, ad esempio, è legato alle informazioni fornite durante il trasferimento nella zona più arida del Supramonte, quando attori e collaboratori spiegavano al regista il rischio di attraversare quelle montagne nei periodi caldi senza avere il controllo del territorio. E durante il trasferimento delle pecore in altura per predisporre l’epilogo tragico, si è verificata una situazione simile a quella narrata, quando Michele cerca di abbeverare le pecore e il pastore che faceva altrettanto nella zona si oppone perché non sarebbe rimasta acqua a sufficienza per le proprie. Si tratta appunto di una scena inizialmente non prevista.

Lo stile


Il film ha un'articolazione narrativa lineare che si definisce a mano a mano che vengono effettuate le riprese. Data la presenza di attori non professionisti, ogni alterazione del naturale procedere degli eventi avrebbe creato difficoltà interpretative in figure disabituate alla recitazione e al linguaggio cinematografico. Il prima e il dopo diegetici coincidono dunque con quelli produttivi. Inoltre il fatto di girare principalmente in esterni e in ambienti reali imponeva il rispetto cronologico anche per conciliare l’andamento stagionale e climatico. La vicenda, pur nella sua semplicità, è aperta a diversi spunti critici. Senza dubbio uno degli aspetti più interessanti è il gioco su più livelli che permette di mantenere la componente realistica accanto a quella poetica senza che una domini sull’altra, ma anche senza fonderle come accade, per esempio, nel realismo magico.
Se la rivoluzione copernicana proposta da De Seta in riferimento al rapporto fra macchina da presa e interpreti stravolge i canoni consolidati della produzione del film, la composizione del quadro rimane complessivamente ancorata a forme classiche dove non vi è mai la ricerca di un punto di vista virtuosistico, o eccentrico, ma di inquadrature interessanti, caratterizzanti.
Nei piani stretti il soggetto principale occupa il fuoco centrale, con l'attenzione indirizzata all'espressione del volto o all'azione che si sta compiendo. I dettagli sono inquadrati con meticolosa concentrazione in modo da cogliere le sfumature con lo scrupolo da antropologo. Si veda a tal proposito, ad esempio, la preparazione del formaggio sviluppata in due scene, la prima nell’ovile, davanti ai ladri di maiali, e la seconda in montagna, durante la fuga, quando Peppeddu apprende la tecnica. La preparazione del formaggio era presente anche in "Pastori di Orgosolo", ma qui, articolata in due momenti, è ben più precisa, costruita con un montaggio che alterna piani ravvicinati e dettagli con inquadrature a figura intera e mezza figura e concentra l’attenzione sui vari passaggi, in particolare sul movimento delle mani, in modo molto simile a quanto avverrà nel documentario "In Calabria", girato nel 1993. In altri termini, sono sequenze in cui la tecnica agìta ha a che fare più con il poièin che con il pràssein: si mette in evidenza l’abilità dell’uomo più che il risultato finale in se.
I piani larghi, anche quando si tratta di campi lunghissimi, vedono generalmente la presenza di figure umane riconoscibili, mentre la prospettiva e la profondità di campo valorizzano i diversi elementi profilmici creando un rapporto costante fra individuo e habitat. La macchina da presa evidenzia la naturalezza con cui i personaggi si muovono nell’ambiente circostante e la sintonia di forme e caratteri rafforza il legame inscindibile, la simbiosi tra il pastore e la natura. Vittorio De Seta ha una straordinaria capacità di fondere nell’ambiente i personaggi che ne diventano così parte integrante. C’è un’assoluta sintonia visiva e caratteriale fra questi personaggi e l’ambiente scabro e pietroso ripreso con una fotografia tersa e descrittiva. Ma c’è dell’altro. Le inquadrature in campo lungo e lunghissimo, quelle nelle quali è la montagna a farla da padrone sottendono, come tutti i registi di pregio o gli scrittori di prim’ordine ben sanno, il concetto di eternità, di immutabilità, di ineluttabilità. Infatti, se il paragone letterario è lecito, come quando Alessandro Manzoni ne "I Promessi Sposi" si accinge a descrivere l’Innominato si attarda a rappresentare con puntigliosità l’imponenza delle formazioni montagnose sede della sua residenza, allo stesso modo De Seta indugia sull’orografia nella quale il pastore è immerso suggerendo l’esistenza di leggi che prescindono la misurazione del tempo.
La disposizione degli elementi profilmici nello spazio scenico è curata in base alla peculiarità della scena ed essi possono occupare il fuoco centrale per rendere chiare le gerarchie o essere decentrati in funzione delle esigenze compositive e del senso dell’azione. Si arriva in alcuni casi a una sorta di decadrage, senza per questo sbilanciare l’inquadratura, collocando gli elementi rilevanti ai margini in modo da evidenziare la distanza, anche simbolica, oltre che fisica, fra i soggetti presenti in scena come accade, per esempio, nella sequenza dopo la morte delle pecore. Qui i due fratelli sono ripresi sulle rocce calcaree del monte Corrasi in campo lungo distanti l’uno dall’altro: Michele dà tutto per finito e si avvia a passo rapido verso il paese; Peppeddu si ostina a tenere con sé la caldaia per fare il formaggio e non si rassegna all’idea che tutto sia perduto.
Talvolta gli elementi profilmici, personaggi e oggetti, sono collocati nello spazio scenico e inquadrati in modo da connotare la situazione e rafforzare il senso di ciò che accade. Esemplare a tale riguardo la scena nella parte finale del film, in cui le pecore ormai stremate arrivano dove ci sono delle pozze d’acqua. I due fratelli abbeverano gli animali e, mentre bevono loro stessi, si avvicina il pastore che pascola abitualmente in quel luogo invitandoli con fermezza ad allontanarsi per non consumare l’acqua. Dapprima si vede Peppeddu che passa al fratello un recipiente con l’acqua, questi lo prende, beve e riempie il pentolone. La macchina da presa è collocata in basso per tutta la scena e riprende in contreplongée i personaggi esaltando inizialmente la figura di Michele accovacciato sulle rocce col cielo limpido alle sue spalle. A mano a mano che l’azione si sviluppa, arriva da lontano l’altro pastore che, ben nitido grazie alla profondità di campo, ritto e con la doppietta in spalla, come si avvicina diventa sempre più grande cambiando la prospettiva e le gerarchie all’interno dello spazio scenico. Michele, costretto ad alzarsi e ad avvicinarsi all’altro pastore, perde la posizione dominante, ed è infatti l’altro, collocato in un punto più alto, a guardare da una posizione di superiorità i due fratelli.
È interessante notare che per quanto si giri in ambienti reali senza interventi di ricostruzione e rielaborazione delle location e la posizione della macchina da presa sia subordinata a quella degli attori, molte scene in campo stretto o in interni sono composte in modo tale da valorizzare la componente plastica degli elementi profilmici e dei corpi umani nell’ambiente. Questo modo di comporre la messa in scena permette di ottenere una fotografia molto curata e talvolta fortemente segnata da una matrice pittorica. Non si tratta, come in alcuni autori, di veri e propri rimandi (citazioni, allusioni) a pitture definite, la composizione richiama piuttosto stili e modelli identificabili a conferma di una particolare attenzione alla cura compositiva della fotografia. L’aspetto pittorico è anche funzionale all’evocazione di modi consolidati e riconoscibili di rappresentazione di un dato ambiente e in alcuni casi, nota Guido Kirsten, a richiamare la tradizione del naturalismo. Infatti alcune inquadrature di "Banditi a Orgosolo" si rifanno alla pittura di genere dal XVII al XIX secolo quasi a evidenziare un debito con le convenzioni di rappresentazione naturalistica[14]. È il caso, citato da Kirsten, della scena in interni quando si lavora alla preparazione del pane carasau, ma possiamo anche riferirci alle inquadrature della scena in cui Peppeddu soffre per la malattia, oppure alcuni esterni a Punta Solitta nelle pause della fuga. La scelta compositiva è, comunque, in generale sempre molto curata, tanto che i singoli fotogrammi potrebbero avere una vita autonoma giacchè la componente plastica dei corpi e degli ambienti emerge intensamente. Sono invece del tutto assenti i toni bozzettistici e oleografici che si era abituati a vedere in certo cinema di ambiente sardo, dove dominava l’idea dei bei paesaggi rurali e degli idilli pastorali. Immagini calligrafiche in cui il riferimento pittorico, quando presente, aveva una funzione meramente estetizzante.
Qui la fotografia del film risente dell’influenza del fotogiornalismo italiano, figlio del neorealismo, sviluppatosi a partire dai primi anni ’50 e appare in sintonia con quella di Pablo Volta e Franco Pinna che più o meno negli stessi anni avevano fotografato la Barbagia. Il ricorso al bianco e nero, a differenza del colore presente negli altri documentari sulla Barbagia, l’uso di mezzi agili tipici del reportage cinematografico più che del cinema vero e proprio, l’essenzialità e il rigore dei movimenti di macchina (anche se va evidenziato, unico in tutta la pellicola, il complesso carrello parzialmente simulato nella parte iniziale durante la scena della caccia al muflone[15]) danno quel carattere austero che ben esprime lo spirito del luogo. Anche il montaggio mantiene l’essenzialità necessaria al dispiegarsi della vicenda in uno sviluppo lineare senza arricchirlo con elementi connotativi o forzatamente narrativi, come suggerire un significato, lasciar trapelare uno sviluppo o assumere la funzione di produttore di senso. Le formule del decoupage classico sono molto presenti nel film in qunto le scene di dialogo si sviluppano attraverso la funzione campo/controcampo, la successione delle inquadrature all’interno della stessa scena rispetta il sistema dei raccordi, i rapporti tra i personaggi sono costruiti anche attraverso pacate relazioni di montaggio, eppure l’assenza di flashback, di sintagmi alternati o paralleli, ossia della manipolazione della articolazione spaziale e temporale, richiamano le riflessioni di Andrè Bazin sul montaggio moderno del neorealismo in cui vi è “totale assenza di effetti dovuti al montaggio” stesso, in cui la funzione è quella di “rendere sullo schermo la continuità vera della realtà”[16]. Infatti, spiega Bazin: “la vera rivoluzione è avvenuta molto più al livello dei soggetti che a quello dello stile, di ciò che il cinema ha da dire al mondo piuttosto che della maniera di dirlo. Non è forse il “neorealismo” un umanesimo prima di essere uno stile di regia? E questo suo stile non è definito essenzialmente dal suo cancellarsi di fronte alla realtà?”[17] In questo contesto, la ricorrente presenza di conflitti all’interno dell’universo diegetico – fra uomo e natura, fra natura e cultura, fra civiltà evoluta e cultura primordiale, fra individuo e istituzioni, fra legge della comunità e legge dello Stato – non si traduce in contrapposizioni visive, come sarebbe potuto essere se si fosse seguito un modello di montaggio attento alla produzione di senso, ma si manifesta nel susseguirsi delle situazioni, più che dalle azioni in quanto tali, andando a comporre un quadro ineluttabile in quanto non dialettico. I numerosi conflitti si esprimono dunque nel loro accadere senza possibilità di soluzione. Invece, nella prospettiva del materialismo dialettico – che al cinema viene ripreso dalla cinedialettica di Ejzenštein dove il montaggio connotativo è essenziale, gli oggetti materiali, le manifestazioni del mondo concreto, entrano continuamente in conflitto fra loro, ma questo conflitto viene risolto, secondo lo schema hegeliano, permettendo così il divenire storico. Aspetto che, come già sottolineato, evidentemente non interessa a De Seta, propenso più a destoricizzare che a evidenziare processi storici.
La componente sonora è ugualmente in linea con un approccio rispettoso del contesto di riferimento senza arricchimenti ed enfasi connotativa. I rumori del paesaggio, la musica tradizionale e d’accompagnamento composta da Valentino Bucchi si fondono in “soluzioni che instaurano un rapporto equilibrato tra le convenzioni della musica da film e il linguaggio audiovisivo sviluppato nella serie di documentari che hanno contrassegnato i suoi esordi”[18]. Superato il fastidioso jingle della Titanus, l’ingresso del film è segnato solo dai rumori d’ambiente e dal paesaggio sonoro della battuta di caccia: il vento, il latrare dei cani, gli spari, le urla dei battitori. Non una parola per tutto l’incipit, se non la voce del narratore che introduce le vicende sostituendo i testi in sovrimpressione impiegati nei cortometraggi precedenti. Come già nel documentario “Pastori a Orgosolo” non ci sono dialoghi e nessuna musica accompagna le immagini. E poi ancora dominano il vento e il belare delle pecore fino all’incontro con Peppeddu, in mezzo alla nebbia. Il ruolo costruttivo e non puramente decorativo del rumore è esplicitato dalla rinuncia alla musica sia nei titoli di testa che nelle inquadrature immediatamente successivi. Mentre durante la battuta di caccia proprio l’alternarsi di voci, latrati e vento produce quella tensione drammatica che solitamente si ottiene con la musica e che qui culmina in un climax audiovisivo quando Michele interrompe la sua corsa per prendere la mira e sparare al muflone. Per sentire la musica bisogna aspettare il nono minuto, quando arrivano all’ovile i ladri di maiali. La musica si interrompe viceversa all’arrivo dei carabinieri che subissano Michele di domande. Qui solo parole, monosillabi, e un concerto di mosche e insetti “registrato sul posto”[19] come Vittorio De Seta ci tiene a precisare. Con l’avanzare del film la musica si fa sempre più presente a sottolineare la tensione drammatica in modo sempre misurato ed essenziale. Intanto la musica assume un tono fortemente connotativo quando, al risveglio dopo una nottata di febbre, Peppeddu scopre le pecore moribonde o già morte. Essa accompagna gli spostamenti del bambino in un long take in cui Peppeddu corre da un animale all’altro e segna, con picchi sonori, la scoperta dolorosa dei capi in fin di vita. Lo stesso succede quando l’avvoltoio volteggia in alto nel cielo anticipando quello che accadrà irrimediabilmente di lì a poco. In questo caso la musica è rilevante da un punto di vista narrativo ed enfatizza con una certa retorica la drammaticità della sequenza. "Banditi a Orgosolo" è però dominato in gran parte dall’estetica del silenzio, che dà un senso di sospensione, di tempo assente. La sobrietà della componente musicale, per certi versi straniante, caratterizza anche la penultima macrosequenza, quando la musica tradizionale, il solo esempio in tutto il film, irrompe per la prima volta nella sfera diegetica durante la festa in casa di Gonario. Peppeddu osserva da lontano la danza espressa visivamente solo col particolare delle gambe dei ballerini, i gambali tirati a lucido e le gonne a mezza gamba, come se si volesse cogliere l’essenza del ballo sardo estrapolata da ogni fattore contingente. L'atmosfera del momento, pur trattandosi di un festeggiamento, è sobria e grave, domina un’allegria austera, quasi che anche il festoso ballu cantau, visto con gli occhi di Peppeddu quasi in soggettiva, non possa che risentire della situazione vissuta dai protagonisti. D’altronde in "Banditi a Orgosolo" non c’è spazio per la spensieratezza e la serenità, tutto è sconsolato e in ogni passaggio incombe un senso di tormento, anche nei due momenti che dovrebbero essere ludici, come la battuta di caccia col pasto consumato in compagnia e la festa nella parte finale. La battuta di caccia è sofferta e sembra quasi una battaglia, il pasto in compagnia, che sarebbe dovuto essere un momento conviviale è privo di dialoghi a sottolineare l’incomunicabilità.

L’epilogo


Dopo la morte delle pecore, trovate distese sulle bianche rocce del Supramonte, Michele prende atto che la fuga è finita e un ciclo si è concluso. Intima a Peppeddu, che si porta dietro gli strumenti di lavoro, di gettar via tutto. Peppeddu però non si rassegna. È forse l’unica scena del film in cui si compie un atto che contiene in se una qualche speranza. Il destino di Michele ha compiuto il suo corso. Il rientro in paese serve per affidare il piccolo fratello al cugino, ma soprattutto per trovare un’arma. Un’arma, in questo contesto, non è un semplice oggetto adatto a sparare e a uccidere. Michele il suo fucile lo ha portato sempre con sé. E lo usa per avere la meglio sul muflone nella scena di caccia dell’incipit. Il fucile, a differenza del mitra, non è un’arma, è un semplice oggetto di lavoro, uno strumento che accompagna il pastore nella sua quotidianità: lo porta con sé Michele, come anche il pastore che incontra durante la fuga e che gli nega l’acqua per abbeverare le pecore assetate. Mentre il mitra lo si vede nelle mani di personaggi negativi, i carabinieri, i ladri di maiali. Michele così, abbandonata la casa di Gonario e ritornato al Supramonte, compare mentre cammina sulle rocce con un mitra in mano, non con la vecchia doppietta. La scena è costruita con l’”effetto notte” che offusca i dettagli, ma non tanto da non mettere in bella evidenza il mitra. Peraltro, il passaggio dal primissimo piano di Michele nella casa di Gonario alla montagna avviene attraverso una dissolvenza incrociata che anche visivamente, oltre che narrativamente e simbolicamente, rimarca la metamorfosi in quanto mentre il volto va in dissolvenza si compone su di esso il dettaglio del mitra che solo dopo alcuni fotogrammi appare tenuto in mano dallo stesso Michele. Ora egli cammina veloce e sicuro sul calcare bianco, a tratti levigato e a tratti tagliente, lavorato per millenni dal vento e dall’acqua. Per camminarci sopra senza incidenti occorre perizia e agilità. Tanto più per correre accompagnati da un mitra. Michele Jossu lo sa fare. Era già comparso nell’incipit quando si muove nella boscaglia e sulle pietre armato, come all’inizio della scena finale: lo stesso sguardo duro, lo stesso portamento austero, la stessa espressione grave. Lì è un cacciatore che insegue la preda in una battuta di caccia grossa, ed è ancora “solo” un pastore, qui la condizione è cambiata: sta diventando bandito e protagonista di una tragedia a cui non si può sfuggire, destinato a essere braccato sui monti e le rocce del Supramonte in un implicito prima e dopo senza tempo.

 

Note

[1] Il testo di Scorsese è scritto in occasione della presentazione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia del 2005 dalla pellicola restaurata. Ora è pubblicato col titolo Martin Scorsese su Banditi a Orgosolo, in M. Capello (a cura di), La fatica delle mani. Scritti su Vittorio De Seta, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 13-15.
[2] E. Manet, Los bandidos de Orgosolo o el otro Vittorio, "Cine Cubano", anno III, n. 9, 1963.
[3] F. Cagnetta, Inchiesta su Orgosolo, numero monografico di "Nuovi Argomenti", n. 10 settembre-ottobre, 1954.
[4] M. Giacobbe, Diario di una maestrina, Roma-Bari, Laterza, 1957.
[5] A. S. Labarthe, Venice tient ses promesses, "France-observateur", 31 Août 1961.
[6] Martin Scorsese su Banditi a Orgosolo, cit. p.14.
[7] G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, p. 170.
[8] S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, p.77, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 76-78.
[9] V. Consolo, Il metodo verghiano di De Seta, in A. Rais, (a cura di), Il cinema di Vittorio De Seta/The films of Vittorio De Seta, Mimone, Catania, 1995, p. 28.
[10] G. Bechi, Caccia grossa: scene e figure del banditismo sardo, Treves, Milano, 1914, ora anche in Ilisso, Nuoro, 1997
[11] A. Floris, Diari da Orgosolo, "Cinemecum" (www.cinemecum.it), 5 Ottobre 2011.
[12] G. Fofi, G.Volpi (a cura di), Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Torino, Lindau, 1999, p. 18.
[13] D. Barone, A. Di Francisca, Ricordando Banditi a Orgosolo (seconda puntata di "Memorie. Cinque storie degli anni Sessanta", a cura di P. Mossa), Rai Sardegna, Italia, 1990.
[14] G. Kirsten, Mise en Scène, in M. Hagener, V. Pantenburg (Hrsg.), Handbuch Filmanalyse, Wiesbaden, Springer, 2017, pp. 7-9.
[15] "A Orgosolo abbiamo portato il carrello, e poi abbiamo fatto una sola carrellata su una corsa iniziale. Il carrello era troppo pesante, ingombrante, richiedeva troppo tempo. Per la scena in cui il pastore corre vorticosamente in discesa, abbiamo fatto con il gesso un segno circolare per terra e poi abbiamo usato un teleobiettivo. Così l'uomo che correva rimaneva sempre a fuoco. Sembra una carrellata: gli amici e i colleghi mi chiedevano come avevo fatto a fare una carrellata in una discesa ripida", V. De Seta in G. Fofi, G.Volpi (a cura di), Vittorio De Seta. Il mondo perduto, cit., p. 30.
[16] A. Bazin, L'evoluzione del linguaggio cinematografico, in Id., Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano, 1973, pp. 89-90.
[17] A. Bazin, L'evoluzione del linguaggio cinematografico, cit., p. 81.
[18] R. Calabretto, G. De Mezzo, Il paesaggio sonoro nel cinema sardo: Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta e Padre padrone dei fratelli Taviani, "L'avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes", 1/2018, p. 22.
[19] Cfr. G. Mazzocchi, Tra western e documentario, "Il Punto", 5 Novembre 1960.


22/10/2020

Cast e credits

cast:
Vittorina Pisano, Peppeddu Cuccu, Michele Cossu


regia:
Vittorio De Seta


distribuzione:
Titanus


durata:
98'


produzione:
Titanus


sceneggiatura:
Vittorio De Seta


fotografia:
Vittorio De Seta


montaggio:
Jolanda Benvenuti


costumi:
Marilù Carteny


musiche:
Valentino Bucchi


Trama
Michele, un pastore di Orgosolo, e il fratello minore Peppeddu, occupati ad accudire il loro gregge, vedono le loro esistenze sconvolte da tre banditi che, penetrati nel loro pascolo, nascondono il frutto di un furto e uccidono un carabiniere. Ingiustamente sospettato di furto e omicidio, Michele si dà alla macchia e, perduto l’intero gregge, diventa bandito a sua volta.