Ondacinema

recensione di Simone Loi
7.5/10

"I ragazzi della Nickel erano fottuti prima, durante e dopo il periodo che trascorrevano alla scuola, se si voleva descriverne la traiettoria generale"

(da "I ragazzi della Nickel" di Colson Whitehead)

Uno sguardo al cielo, disteso all'ombra di un albero di arance. La testa ruota di lato per osservare la mano che tasta una foglia ingiallita, nello spasmo muscolare della scoperta infantile del mondo. La placidità della contemplazione irrompe sullo schermo, con l'anomalia inattesa della visuale in prima persona, in una sequenza d'apertura che è al contempo dichiarazione d'intenti registici e preludio ingannevole di una quiete esistenziale.

Dopo aver conquistato pubblico e critica con il caleidoscopico documentario "Hale County This Morning, This Evening", RaMell Ross decide così di trasfondere la sua cifra lirica nell'adattamento di un pilastro della letteratura afroamericana più recente, simulacro di una pagina buia e tremendamente attuale della storia statunitense. "I ragazzi della Nickel" narra infatti le vicende di Elwood Curtis e Jack Turner, due giovani afroamericani condannati a scontare una pena rieducativa alla Nickel Academy, riformatorio nella Florida degli anni Sessanta che perpetra metodi razzisti e disumani alla stregua di un campo di concentramento. Un racconto fittizio, mimesi di violenze e abusi per troppo tempo ignorati, quelli avvenuti alla Arthur G. Dozier School for Boys di Marianna e venuti alla luce solo anni dopo la sua chiusura, grazie agli studi archeologici rivelatori del cimitero clandestino nascosto sotto i terreni dell'istituto.

La narrazione microcosmica del trattamento abusivo subito dai ragazzi neri detenuti alla Nickel rimane di fatto molto fedele al materiale di partenza, perseguendo l'evidente intento di aggiungersi alla fitta schiera di riflessioni sociopolitiche sulla condizione della società afroamericana, nel quadro di un percorso ormai avanzato di denuncia e riappropriazione culturale. Un discorso politicamente necessario, al contempo tenuto a fare i conti con il moltiplicarsi di opere cinematografiche dello stesso stampo e il conseguente rischio di una saturazione contenutistica, che obbliga alla ricerca di una freschezza di linguaggio per non perdere di efficacia. Ross dimostra in questo una massima presa di coscienza, a partire dalla sceneggiatura (scritta a quattro mani con Joslyn Barnes) che diluisce gli eventi del racconto in un amalgama viscerale di sensazioni. La dimensione angosciante e tormentata vissuta dai protagonisti è molto più pregnante degli eventi che la generano, dai quali il film riesce così ad astrarsi per restituire allo spettatore l'indignazione verso la condizione secolare di un'intera comunità, senza mai bisogno di forzare l'empatia tramite retorica ridondante o spettacolarizzazione della violenza. Ne deriva un'opera che contesta la crudeltà ingiustificata con estrema delicatezza, in una sorta di fusione filmica tra la poetica amareggiata di Barry Jenkins e la rabbia tensiva di Spike Lee. Certo, una volontà ambiziosa che accetta inevitabilmente il pericolo di appesantirsi e, considerando altresì la durata di due ore e venti, ottenere un effetto di affaticamento controproducente sul pubblico. Ma anche l'affanno diventa in questo caso parte integrante dell'esperienza visiva, nell'identificazione totale con i personaggi sospinta dalla peculiare scelta di linguaggio cinematografico.

L'aspetto più caratteristico e già accennato de "I ragazzi della Nickel" risiede infatti nella sua configurazione estetica. Il film è integralmente girato con una soggettiva alternata, dove la regia di Ross si nasconde completamente, sostituendo la macchina da presa agli occhi di Elwood e Turner. Un lavoro di estrema complessità, che radicalizza le sperimentazioni già tentate da Julian Schnabel ne "Lo scafandro e la farfalla" o da Gaspar Noé in "Enter the Void", fomentando un'immersione che incrocia lo stato fisico, mentale e soprattutto sociale dei personaggi, pur sacrificando parzialmente le interpretazioni dei giovani Ethan Herisse e Brandon Wilson. Se questa scelta, tanto affascinante quanto audace, ottiene un risultato perfettamente calzante, grande merito è dovuto al suo intersecarsi con la raffinata fotografia di Jomo Fray; quest'ultimo modella abilmente la luce per selezionare dettagliatamente gli oggetti e i volti su cui cade l'attenzione dei ragazzi, imprimendone la superficie sulla pellicola con una irrefrenabile potenza sinestetica. In questo modo, la soggettiva diventa uno strumento tattile al servizio dell'opera, esaltando materialmente il flusso emozionale che la storia si prefigge di trasmettere. Allo stesso tempo, l'intelligenza registica sta nel rifuggire da qualunque pietismo ipocrita, contrastando la tendenza fisiologica della stessa soggettiva all'identificazione in senso assoluto. L'alternanza tra i punti di vista di Elwood e Turner, frammentata e a tratti non immediatamente percepibile, preclude la possibilità di accomodarsi con stabilità nell'intreccio filmico, quasi a voler sottolineare come nel vivere questa storia dobbiamo soprattutto ricordarci che non ne facciamo realmente parte. È una sfida intellettuale allo spettatore, calato in un'identità ossimorica, quella di un voyeurista infiltrato però comunque costretto a condividere epidermicamente il dolore e la paura dei protagonisti. Una costruzione figurativa che impedisce di fermarsi al facile compatimento, per permettere di elaborare invece una profonda esperienza riflessiva.

Il tema dell'identità non è tuttavia soltanto un riflesso metacinematografico, ma pervade inevitabilmente la caratterizzazione dei personaggi, tenuti a fronteggiare un sistema che li condanna a priori per la loro esistenza. Elwood e Turner rappresentano in questo senso due facce della stessa medaglia, due modelli differenti di resistenza, paralleli ma fondamentalmente complementari. Il primo è un idealista trasognante e speranzoso, forgiato dal pensiero di Martin Luther King e incapace di tacere di fronte alle angherie dei seviziatori bianchi della Nickel, subendone le truci conseguenze. Il secondo appare più enigmatico, affranto dal disincanto verso la conquista dei diritti civili e principalmente preoccupato di sopravvivere con scaltrezza nella sottomissione apparente. Due anime solo superficialmente contrapposte, perché accomunate dal substrato emozionale della paura e dal bisogno di un conforto irraggiungibile, incarnato a sua volta dal volto malinconico e stoicamente rassicurante di Aunjanue Ellis, l'appiglio famigliare strappato a Elwood e che Turner non ha probabilmente mai avuto. Sull'unione di queste due prospettive, le trame del dramma sociopolitico si mescolano quindi a quelle di un coming of age in cui il processo di costruzione dell'identità è affidato al mutuale apprendimento, proiettando verso un finale travolgente e che dimostra come il coraggio di ribellarsi all'ingiustizia assuma ‒ per sé stessi e per l'Altro ‒ i connotati dell'esigenza, sebbene possa implicare la totale autodistruzione.

La potenza de "I ragazzi della Nickel" non rimane in ogni caso circoscritta ai confini spazio-temporali del suo racconto. Quando a schermo compare un presunto Elwood adulto (differenziato visivamente col passaggio dalla soggettiva pura al body rig), ben presto capiamo che gli effetti del razzismo istituzionalizzato travalicano l'istantaneità del momento storico, permeando un tessuto generazionale dove il trauma non sparisce, anzi fermenta. Il montaggio di Nicholas Monsour traduce il concetto manipolando il tempo, rifiutando la linearità cronologica tra presente e passato, per enfatizzare come ciò che è stato non possa essere banalmente archiviato. Allo stesso modo, l'inserimento di immagini di repertorio si palesa come un'irregolare rottura del flusso di coscienza introspettivo, generando collisioni che trascendono definitivamente la finzione e destano l'attenzione sul dialogo fondamentale da mantenere con la Storia. Un raffronto che lo spazio nel quale si inscrive l'inquadratura ci avvisa essere ancora troppo distante: l'aspect ratio in 4:3 permette da un lato il focus ravvicinato sull'interiorità del singolo, ma dall'altro identifica la strettoia nella quale la verità è rimasta – e nella sua interezza forse ancora rimane – insabbiata e dalla quale sembra costantemente lottare per provare a fuoriuscire.

"I ragazzi della Nickel" è un'opera stratificata e non facile da affrontare, che smuove lo spettatore dalla sua ordinaria posizione di distaccato osservatore. A pervaderci è il senso cementificato di predestinazione al dolore che continua a destabilizzare la vita afroamericana, bestialmente rappresentato dall'immagine onirica e preveggente dell'alligatore che compare improvvisamente davanti agli occhi di Elwood. Con questo film, RaMell Ross si consacra come una voce autoriale di grande spessore, capace di sfruttare il mezzo cinematografico per delineare il tassello più importante della comprensione: non solo conoscenza degli eventi, ma soprattutto consapevolezza del loro impatto psicologico ed emotivo. Dunque, alla fine, nuovamente distesi all'ombra di quello stesso albero di arance, non sarà più possibile abbandonarsi all'ingenua illusione di essere circondati da una serenità universale.


18/03/2025

Cast e credits

cast:
Ethan Herisse, Brandon Wilson, Aunjanue Ellis, Daveed Diggs, Hamish Linklater


regia:
RaMell Ross


titolo originale:
Nickel Boys


distribuzione:
Amazon Prime Video


durata:
140'


produzione:
Orion Pictures, Plan B Entertainment, Louverture Films, Anonymous Content


sceneggiatura:
RaMell Ross, Joslyn Barnes


fotografia:
Jomo Fray


scenografie:
Nora Mendis


montaggio:
Nicholas Monsour


costumi:
Brittany Loar


musiche:
Scott Alario, Alex Somers


Trama
Elwood Curtis è un brillante adolescente afroamericano nella Tallahassee degli anni ’60, che viene ingiustamente accusato di un furto e mandato in un brutale riformatorio della Florida, la Nickel Academy. Qui incontra il disilluso Jack Turner, con il quale stringe un’amicizia profonda all’insegna della speranza, della sopravvivenza e della lotta per la libertà.
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