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Un volume scritto da un nostro redattore, che affronta speranze e delusioni di un'industria e un movimento capace di rinnovarsi perennemente. Mentre il mondo si è capovolto e le priorità sono cambiate, il cinema statunitense, in mezzo a innumerevoli contraddizioni, continua a giocare un ruolo fondamentale nell'universo della Settima arte

La miglior fotografia dello stato di salute del cinema americano degli ultimi dieci anni l'ha scattata il nostro Stefano Santoli, con il suo libro, edito da Mimesis, intitolato "Fabbrica di sogni, deposito di incubi". Leggerlo ha spinto chi scrive queste righe a riflettere su un'industria, solito punto di riferimento per discutere dei cambiamenti della Settima arte, ma anche su delle contraddizioni che essa nasconde più o meno bene e che contribuiscono, paradossalmente, a definirne meglio i contorni. Leggere il volume scritto da Stefano è stato come rimettere in discussione noi stessi ed è quello che succederà a chiunque, critico cinematografico o semplice appassionato, ami e frequenti assiduamente ciò che viene creato a Hollywood e dintorni. Va fatta anche una considerazione in negativo, a questo punto. Il cinema a stelle e strisce ha perso la sua centralità nel panorama mondiale: i sogni che insegue sono spesso influenzati da una quotidianità e un'attualità che si esauriscono appena subentra una nuova ossessione; e gli incubi di cui leggiamo nel libro sono mutati rispetto al passato, perché è il cinema stesso ad essere diventato una sorta di incubo, schiavo delle paure, delle convenzioni e delle fragilità di una società americana sempre più compromessa.

E tutto ciò è tanto vero allorché ragioniamo in termini cronologici. Le produzioni che dominavano la scena nel 2010 avevano una capacità di slegarsi dal contingente molto più sviluppata rispetto a quanto abbiamo verificato sul finire del decennio, tra il 2019 e il 2020. Era un cinema in grado di stupirsi ancora delle innovazioni tecnologiche e, più in generale, di una modernizzazione del sistema che poteva essere un'opportunità e non necessariamente uno spauracchio da allontanare. James Cameron su tutti, come sottolinea Stefano, ha avuto l'ardire di provarci, con "Avatar", certo, ma più in generale con un percorso intellettuale e artigianale partito da "Titanic" e ancora neanche giunto a destinazione. Il 3D, cui viene dedicato uno dei primi paragrafi, ha costituito una parabola che ha già concluso la sua traiettoria, è vero. Ma verrebbe da chiedersi: per quanto illusoria e vacua, quella parabola che pure ha portato un vento di novità, sarebbe possibile dieci anni dopo? Probabilmente no.

Più autonomo rispetto al binomio sogno-incubo è anche il cammino in questo decennio di Steven Spielberg. La sua è un'arte cinematografica che prescinde dal tempo. In lui passato, presente e futuro risultano essere semplicemente ingredienti di un unico impasto. Spielberg non è alla mercé delle consuetudini, lo è stato in passato forse, negli anni 90. Ma l'autore che è diventato in questo periodo analizzato, che firma opere che vanno da "Le avventure di Tintin" a "Ready Player One" e che in mezzo si concede il lusso di un viaggio nella Storia americana, dando vita a una trilogia di solidità impressionante ("Lincoln" - "Il ponte delle spie" - "The Post"), è un maestro assoluto, capace di smarcarsi dall'ambiente circostante e proseguire su un cammino originale e unico. E mentre alcuni grandi vecchi proseguono indisturbati il loro percorso autoriale, Hollywood e anche la periferia indipendente sono alle prese con una gestione confusa del presente: il manicheismo statunitense si fa sentire anche nella Settima arte. Forse è sempre stato così, ma con l'affievolirsi di correnti di pensiero forti all'interno del mondo del cinema, inseguire le notizie dell'ultim'ora diventa più semplice rispetto al tentativo di interpretarle, leggerle in controluce. Stefano ci conduce in una veloce panoramica di stili e approcci alla contemporaneità. Una visione d'insieme che ci restituisce una situazione articolata. Alcuni scelgono di stare nel presente, quanto a tecnica e stile di linguaggio, ma si rivolgono al passato per quanto concerne i temi da affrontare (pensiamo a Damien Chazelle e a David Fincher), altri invece provano a mettere i fatti dell'oggi al centro del loro racconto, non sempre, bisogna dirlo, riuscendo a imporre un punto di vista nuovo e personale sul pensiero dominante. Dalla questione razzismo all'epopea del #metoo, la società americana ha nuovamente diviso la realtà in buoni e cattivi. Il cinema, a dispetto di altre epoche, vi si è semplicemente adattato. Chi riesce in un'opera di riflessione e non solo di osservazione è relegato ai margini del circuito produttivo che conta (si pensi all'ultimo, straordinario Michael Mann con "Blackhat", rivoluzionario eppure già dimenticato).

Anche il cinema di genere, dallo sci-fi all'horror risente di questa ondata di puritanesimo: i confini del mostrabile vengono riconsiderati, il linguaggio e le sceneggiature devono adeguarsi. Chi prova strade diverse (e il pensiero potrebbe correre all'esperienza anglofona di Nicolas Winding Refn) viene aspramente criticato, quando non dileggiato: le accuse di omofobia, sessismo, razzismo sono ormai i veri incubi che si nascondono dietro il grande schermo Oltreoceano. Stefano conclude con due interessanti e acuti spunti di osservazione. In primo luogo, uno spazio apposito viene riservato ai grandi autori che, alla pari di Spielberg, hanno conservato una loro indipendenza creativa e realizzativa. Essi prescindono dalle tendenze del momento e anche dagli umori dell'opinione pubblica. Pezzi di New Hollywood (Martin Scorsese, Terrence Malick, Woody Allen), pezzi di New New Hollywood (David Lynch e Quentin Tarantino) e un unico regista dell'ultima generazione dei veri maestri, Paul Thomas Anderson. Insieme a loro Clint Eastwood, autore impossibile da inserire in un movimento collettivo vista la sua totale libertà di azione nel panorama cinematografico statunitense (e molto opportunamente il suo paragrafo si intitola "Solamente l'individuo"). E se i grandi registi che hanno già scritto la storia del cinema americano procedono in autonomia, un altro fenomeno che nel volume viene messo in evidenza in chiusura è quello dello scouting in giro per il mondo. A corto di nuovi talenti, l'industria californiana negli ultimi anni si è comportata come un club sportivo in grado di ingaggiare i migliori giocatori stranieri, scritturando cineasti messisi in luce nel loro Paese per una visione del mondo assolutamente personale nella speranza di innestare forme di espressione diverse nei canoni del cinema mainstream. Il pensiero corre ovviamente al movimento messicano che ha fornito alle grandi major il tris d'assi composto da Alfonso Cuarón, Guillermo del Toro e Alejandro González Iñárritu. Ma anche l'Italia ha dato il suo contributo (si pensi a Luca Guadagnino, Gabriele Muccino, Stefano Sollima). Si tratta, forse, della metamorfosi più impressionante, giustamente posizionata al termine di questo viaggio. Anche in altri periodi negli Stati Uniti erano sbarcati autori dal resto del mondo che erano riusciti a plasmare una nuova Hollywood (basti pensare al decennio degli anni 40). Ma lì erano stati loro ad adeguarsi, si erano americanizzati in poco tempo, assorbendo un'atmosfera e un modus operandi tipicamente a stelle e strisce. Stavolta è avvenuto il contrario: gli stranieri non hanno semplicemente ingrossato le file delle maestranze sotto contratto, bensì sono stati chiamati a una missione ben più impegnativa, ossia quella di ridare un'anima a un mondo che si stava smarrendo. Fotografia di un tempo che stiamo vivendo anche fuori dalla sala.