Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
9.0/10

Ciao mæ 'nin.
L'ereditæ l'è ascusa
'nte sta çittæ ch'a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a
*
(Fabrizio De André, Sidùn)

 
Samuele non riesce a remare. Gira su se stesso con la sua barchetta, nel porto di Lampedusa, e finisce per incastrarsi fra le imbarcazioni ormeggiate. Samuele non ama il mare, gli fa venire la nausea (anche se la pasta al sugo di calamari sembra gradirla). Samuele Pucillo è il bambino lampedusano scovato e prescelto da Gianfranco Rosi come principale "protagonista" isolano - assieme al dottor Pietro Bartolo - in questo film che, dopo l'exploit di "Sacro GRA" a Venezia 2013, si è aggiudicato il massimo riconoscimento al 66° festival di Berlino.

Riconquistare il mare

"Fuocoammare" sembra fatto dei quattro elementi primigeni. La terra: poco più che uno scoglio, al largo dell'Africa. L'aria: un cielo nuvoloso e invernale, foriero di pioggia. Il fuoco: quello del titolo ossimorico, quello delle guerre. E l'acqua del mare. Quel Mediterraneo che è stato sin dagli albori delle civiltà luogo di incontro e di scambi, via da percorrere carichi di merci. E che negli ultimi anni è diventato il cimitero di oltre quindicimila persone in fuga dalle loro terre.
A Samuele, naturalmente, tocca di rappresentare un po' anche noi, gli europei, e il nostro sguardo. Samuele, come tutti i bambini, spara con un fucile immaginario fra le braccia. Ma ha braccia e occhi allenati anche per altri gesti di guerra. Costruisce fionde per abbattere gli uccelli. Creature senza terra, libere, che appartengono all'aria. Esseri abituati a migrare. Samuele si esercita, con un amico: con fionde e micce devasta fichidindia trasformati in bersagli, intagliati come sagome umane. Il dottor Bartolo gli diagnostica un occhio pigro, il sinistro: quello che chiude per mirare con la fionda. Samuele deve adesso tenere coperto l'occhio destro, e la mira ne risente, non riesce più a colpire i bersagli.
Il fuoco a mare non è naturale. E' l'uomo ad avercelo portato. Tocca riconquistare il mare. Rifarne luogo di incontro e di pace. Pregano cantando, i migranti giunti a Lampedusa; rievocano la loro odissea. L'ecatombe ha avuto inizio ben prima che alcuni di loro finissero i propri giorni in fondo al Mediterraneo, o ammassati in una stiva senz'aria, pregna di nafta. Molti sono morti nella traversata del deserto del Sahara. Altri nelle prigioni libiche. Il deserto, luogo insidiosissimo da attraversare, è stato da sempre il limite delle civiltà mediterranee. Il mare, al contrario, è stato un ponte, una strada naturale, facile da navigare. Oggi questa differenza pare annullata. Il mare è diventato un confine, insidioso quanto il deserto. Un luogo fitto di oscurità, in cui, pur muniti di moderne tecnologie, non ci si riesce a trovare: le navi che cercano i barconi dei migranti chiedono coordinate nella notte, perlustrando la superficie del mare. Gettano luci nell'oscurità: la luce dell'efficace locandina, persa nell'immensa oscurità in cui ci troviamo.

Montaggio creativo

Non chiamiamo "documentario" un film come "Fuocoammare". Quello di Gianfranco Rosi è cinema meticcio, dove finzione e realtà si fondono, ibridandosi. Come in tanti altri autori contemporanei (molti gli italiani: da Pietro Marcello ad Alberto Fasulo, da Minervini a Gaglianone, passando anche per i Taviani di "Cesare deve morire", premiati proprio a Berlino con l'Orso d'oro nel 2012), in questo cinema non si documenta il reale. Piuttosto, la realtà viene adoperata dallo sguardo del regista, che orchestra intorno ad essa la sua visione, per restituircela con un'autenticità che appartiene prima di tutto al suo sguardo, e poi, anche, certamente, a ciò che quello sguardo cattura, compone in inquadratura. Mette in scena.
E' un cinema di montaggio. Un montaggio creativo, intessuto di rime interne, rimandi, allusioni, suggestioni. Un cinema in cui non è dato sapere quanto, di ciò che i personaggi dicono o fanno, sia spontaneo. Intravediamo sempre l'intervento dell'autore, a interagire con l'oggetto dello sguardo e confermare il principio di indeterminazione. Prendiamo, ad esempio, la sequenza in cui si spiega il titolo. La nonna di Samuele sta cucendo con il nipote a fianco, mentre fuori tuona. Gli spiega che il maltempo non è buono per chi sta in mare a pesca; dice che sembra tempo di guerra, quando c'era "come il fuoco a mare". Stacco. La signora chiede per telefono alla radio locale di mandare in onda la canzone "Fuocoammare". Stacco. Il dj soddisfa la richiesta e manda in onda la canzone. Stacco. Sentiamo la canzone mentre la mdp inquadra la radio nella cucina della signora. Stacco. Navi militari (quelle dell'operazione "Triton") incrociano a largo dell'isola, in balia dei marosi. Stacco. Samuele e il suo amico, sulla scogliera, giocano a sparare, con le braccia verso il mare. Come verso quelle navi. Sono frammenti: immagini - provocate, scovate, composte - cui il montaggio conferisce la struttura di un racconto.

I confini dello sguardo

Rosi nel suo cinema si è concentrato sempre su ciò che sta ai lati del nostro sguardo, rimosso. Ai margini magari anche per libera scelta ("Below Sea Level"), ma che in ogni caso passa inosservato. Realtà che magari ci circondano (come l'anello autostradale circonda Roma), ma di cui non ci accorgiamo pur passando al loro fianco tutti i giorni. E ciò che la nostra cultura sopra ogni cosa rimuove è la morte. Con timore, con disgusto.
Rosi porta da sempre in scena la morte. Sin dall'esordio, "Boatman" (1993), girato a Benares sul Gange, fiume sacro che funge da luogo di sepoltura (in cui vengono disperse le ceneri o lasciati andare i cadaveri di chi non può permettersi una cremazione). Gange e Mediterraneo come cimiteri: parallelo singolare. In "Sacro GRA" alcune delle scene più forti per lo spettatore erano ambientate in un cimitero: Rosi ci mostrava il disseppellimento che ha luogo per legge dopo un certo tempo dai decessi. La riesumazione delle salme e il loro "sversamento" in fosse comuni.
Sono state contestate a Rosi alcune inquadrature del finale di "Fuocoammare", accusandolo di superare il confine di ciò che è lecito mostrare su uno schermo. Accusandolo, in sostanza, di oscenità. Il regista, dopo essersi soffermato per tutto il film su corpi martoriati dalla sofferenza, inquadra alcuni cadaveri: prima riprende alcune salme già chiuse in sacchi, issate sul ponte di una nave militare, quindi entra nella stiva di un barcone alla deriva, dove, evacuati i superstiti, sono rimaste decine di cadaveri. Monta, in sequenza, tre brevi inquadrature fisse, che si scolpiscono nella mente. Poi torna all'esterno e indugia sul cielo velato, in contre-plongée. Inquadra un'eclissi parziale di sole (probabilmente quella del 20 marzo 2015): ancora montaggio creativo, l'allusione è chiara. Quindi torna sulla terra, di notte, regalandoci l'accostamento più bello di tutto il film (l'unico a concedersi una nota di lirismo): Samuele scova un uccello in un rovo, lo accosta fischiando, l'uccello risponde. Sembrano dialogare. Per una volta, gli istinti belluini cedono il posto all'incanto della comunicazione. Rosi potrebbe fermare qui il film, cedendo alla tentazione di una chiusa lirica, che incoraggi ottimismo a buon mercato. Invece il film prosegue. Si sofferma prima sui gesti della nonna, che riassetta metodicamente una stanza (la quotidianità dei gesti ignari), infine torna su Samuele, al crepuscolo, sul molo. Il ragazzo finge di sparare, nuovamente preda dei suoi istinti di aggressione.

Lo sguardo di Rosi è assolutamente neutro e asciutto (tutta la messa in scena di "Fuocoammare" è tra l'altro molto meno "ricercata" di quella di "Sacro GRA", dove abbondavano prospettive eccentriche e inusuali). Si tiene distante dalla retorica, anche (soprattutto) da quella dei buoni sentimenti. E riesce, ciononostante, a scuotere lo spettatore. Costringendoci a fare i conti con la realtà e con il nostro segreto impulso a rimuovere ciò che non vorremmo e non gradiremmo vedere, né conoscere. Che il Mediterraneo si sia trasformato in un cimitero ce lo dicono le fonti di informazione, ma i numeri restano numeri. Non viviamo a Lampedusa nei pochi minuti di un servizio televisivo come facciamo in questo film, che ci immerge nell'isola. E non vediamo, in televisione, quei morti di cui pure siamo a conoscenza. Ponendoceli sotto gli occhi, senza compiacimento autoriale, Rosi non fa che compiere allora la più necessaria, la più giusta delle scelte. Una scelta estetica che è una precisa scelta etica (e politica), in cui si racchiude il valore e l'enorme importanza di "Fuocoammare".


* Ciao bambino mio.
L'eredità è nascosta
in questa città che brucia
nella sera che scende
e in questo gran cielo di fuoco
per la tua morte piccina


17/02/2016

Cast e credits

cast:
Maria Costa, Francesco Mannino, Francesco Paterna, Maria Signorello, Giuseppe Frangapane, Pietro Bartolo, Samuele Caruana, Mattias Cucina, Samuele Pucillo


regia:
Gianfranco Rosi


distribuzione:
Istituto Luce - Cinecittà, 01 Distribution


durata:
108'


produzione:
21UNO FILM, Stemal Entertainment, Istituto Luce - Cinecittà, RaiCinema


fotografia:
Gianfranco Rosi


montaggio:
Jacopo Quadri


Trama
Samuele ha 12 anni e vive su una piccola isola in mezzo al mare. Gioca, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, si chiama Lampedusa, il confine più simbolico d’Europa, attraversato negli ultimi 20 anni da migliaia di migranti in cerca di libertà.