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recensione di Eugenio Radin
5.0/10

In una non meglio definita località della Spagna, si trova una struttura penitenziaria nota come “il buco”. La particolarità della prigione sta nella sua configurazione architettonica: essa è infatti sviluppata in verticale. Ogni cella, corrispondente a un piano dell’edificio, ospita due detenuti ed è collegata alle celle sovrastanti e sottostanti da un profondissimo buco rettangolare posto al centro, da cui appunto deriva l’appellativo con cui il carcere è noto ai suoi inquilini. Attraverso questo tunnel verticale, ogni giorno, dalle celle più alte scende fino agli ultimi piani una piattaforma ricolma delle più prelibate vivande che, in via teorica, sarebbero sufficienti a sfamare tutti gli abitanti della struttura. In pratica però, mentre i piani più alti si strafogano di cibo, nei piani più bassi i prigionieri muoiono di fame.

Questa, in linea generale, è l’idea che sta alla base di quest’ultima produzione Netflix: il lungometraggio d’esordio del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia. È evidente che, al di là del pretesto thriller-horror, l’obiettivo del film è quello di fare una critica nei confronti del consumismo capitalista e della disparità sociale che ne sta alla base. Se i piani più alti del buco corrispondo infatti metaforicamente ai paesi più avanzati, gli inquilini dei piani più bassi rappresenterebbero invece gli abitanti del terzo mondo, il cui grido e la cui richiesta di aiuto rimangono sovente inascoltati.        
Nonostante i pareri favorevoli del pubblico e di buona parte della critica e nonostante l’entusiasmo che ha accompagnato l’uscita del film su Netflix, a parere di chi scrive l’opera in questione è contestabile almeno sotto tre punti di vista.          

Anzitutto per quanto riguarda l’analisi sociale e la tematica trattata, la pellicola si fa testimone di una visione semplicistica e a tratti demagogica della realtà. Una realtà che risulta priva di sfumature, manichea e, infine, inevitabilmente falsa. La questione della disparità sociale non è nuova nel cinema: si pensi al recente “Parasite”. L’instant-cult di Bong Joon-Ho è però una pellicola costruita proprio sulle sfumature, sullo scontro tra classi sociali in cui nessuno, alla fine, ne esce pulito. La famiglia Park, lungi dall’essere colpevole della situazione dei Kim, è semplicemente un altro attore nella scena. Qui, al contrario, sembra proprio la cattiveria di chi sta più in alto a essere responsabile della morte per fame degli inquilini dei piani più bassi; qui si tratta di mangiare o di essere mangiati e non sembra esistere alcuna solidarietà spontanea, nessun atto caritatevole: l’unica giustizia è quella che si ottiene con la forza.

Non si può inoltre negare l’eccessivo didascalismo con cui il film mette in scena tale allegoria. Lo spettatore non è chiamato a ragionare, non ha il tempo di arrivare piano piano a svelare la metafora, non gioca alcun ruolo attivo all’interno dell’opera, la quale dice invece molto più di quanto dovrebbe; palesa, ribadisce e sottolinea un concetto che è già chiaro dopo la prima mezz’ora, con la triste conseguenza che, dopo questa prima mezz’ora, il film ha gran poco da aggiungere se non un po’ di atmosfera action.

Infine, anche da un punto di vista tecnico, questo “The Hole” finisce con il lasciare l’amaro in bocca: se la particolare location verticale e l’ambiente architettonico potevano offrire degli stimolanti spunti per la regia, essa non risulta invece capace di trasmettere adeguatamente né il senso di claustrofobia né tantomeno la sensazione di vertigine che ci si sarebbe potuti aspettare. La mdp rimane invece ancorata per lo più a un semplice campo-controcampo e a qualche scontato plongée, salvo ritrovare un po’ di vigore nelle sequenze oniriche più propriamente horror.
La pellicola inoltre lascia un sentore di già visto, ricorda un certo modo di fare horror che caratterizzava gli anni 90 e produzioni come “The Cube” o “Saw”, risultando però ora fuori tempo massimo.
Se ci si accontenta di un po’ di intrattenimento, “Il buco” può anche funzionare, ma sicuramente non sarà il caso si spendersi in eccessive esegesi e analisi.


29/03/2020

Cast e credits

cast:
Iván Massagué, Zorion Eguileor, Antonia San Juan, Emilio Buale Coka


regia:
Galder Gaztelu-Urrutia


titolo originale:
El Hoyo


distribuzione:
Netflix


durata:
94'


produzione:
Basque Films, Mr. Miyagi Films, Plataforma La Película A.I.E


sceneggiatura:
David Desola, Pedro Rivero


fotografia:
Jon D. Domínguez


scenografie:
Azegiñe Urigoitia


montaggio:
Haritz Zubillaga, Elena Ruiz


musiche:
Aranzazu Calleja


Trama
In una non meglio definita località della Spagna, si trova una struttura penitenziaria nota come "il buco". La particolarità della prigione sta nella sua configurazione architettonica: essa è infatti sviluppata in verticale. Ogni cella, corrispondente a un piano dell'edificio, ospita due detenuti ed è collegata alle altre celle da un profondissimo buco rettangolare posto al centro, da cui appunto l'appellativo con cui è noto il carcere. Attraverso questo tunnel, ogni giorno, dalle celle più alte scende una piattaforma ricolma delle più prelibate vivande che, in via teorica, sono sufficienti a sfamare tutti i prigionieri. Ma, in pratica, mentre i piani più alti si ingozzano di cibo, i prigionieri residenti più in basso muoiono di fame.