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66° Festival del film di Locarno: la versione di Carlo

La giuria presieduta da Lav Diaz fa una scelta precisa, premiando come miglior film Albert Serra e il suo stravagante "Historia de la meva mort". Per la regia la spunta il sudcoreano Hong Sang-soo e le schermaglie amorose di "Our Sunhi", mentre il pardo per la miglior interpretazione femminile viene consegnato a Brie Larson di "Short Term 12", uno dei film più applauditi del festival

Cartolina finale

albertserralocarno"Quando giro un film evito qualsiasi tipo di comunicazione. Non parlo con gli attori e ignoro i tecnici. Da quel momento in poi ogni cosa che faccio dipende da Dio, non da me". Basterebbero queste parole rilasciate da Albert Serra al termine della proiezione di "Historia de la meva mort" vincitore del 66° Festival del Film di Locarno per capire la consistenza di una scelta, che la giuria capitanata da Lav Diaz ha indirizzato dalle parti di un cinema stravagante e criptico. Individuate come nemici da sconfiggere, comprensibilità ed empatia sono state relegate in secondo piano con il premio alla regia assegnato al coreano Hong Sang-soo per le deliziose schermaglie di "U ri Sunhi", e quello speciale della giuria andato alla commovente confessione di "E Agora? Lembra-me" percorso autobiografico di malattia e amicizia realizzato dal portoghese Joaquim Pinto. Ancora più indietro, quasi a cancellarne il tripudio generale dimostrato con l'ovazione di dieci minuti ricevuti dalla platea del festival, "Short Term 12" dell'americano Destin Cretton, storia di gioventù bruciate omaggiata dal premio per la migliore attrice assegnato a Brie Larson, meritatamente affiancata al collega Fernando Bacilio e alla maschera di muta sofferenza da lui consegnata al protagonista di "El mudo" dei fratelli Vega, noir esistenziale di una falsa indagine ambientata nel Cile dei nostri giorni.

Ignorato dal palmares ufficiale il cinema italiano che, a parte la generosa presenza dello splendido sessantenne Sergio Castellitto (sua la Masterclass più bella), ha fatto parlare di sé più per le polemiche suscitate dai contenuti che per i meriti comunque presenti nel lavoro di Yanikian-Lucchi e di Pippo Delbono. Riportando a galla alcune delle pagine più violente della nostra storia (il regime fascista e gli anni di piombo) "Pays Barbare" e "Sangue" sono le tracce di un cinema costretto a ricercare altrove (rispettivamente in Svizzera e in Francia) i finanziamenti necessari a non lasciarsi imbavagliare da luoghi comuni ed ipocrisia, per mostrare le facce (Mussolini e Senzani) di una ferita che continua a sanguinare preamboli di morte. Ma quella di quest'anno è stata anche la prima volta di Carlo Chatrian, direttore minimalista e cinefilo subentrato in corso d'opera, capace di portare a casa il risultato con un'offerta rivelatasi mediamente buona, ma senza le punte di diamante che ci si poteva aspettare. In un concorso internazionale variegato di generi e formati la selezione ha segnalato il ritorno ad un cinema fatto di storie, pensiamo alle opere provenienti dall'oriente ("Tomogui" del giapponese Shinji Aoyama, una delle sorprese più belle), ma anche a film più tradizionali come "Tonnere" e "Gare du Nord" ed "Une Autre vie", alfieri del cinema francese che qui però non ha particolarmente brillato. Una restaurazione accompagnata dal trionfo dei sentimenti, accolti un po' ovunque - tanto dal pubblico generalista della Piazza Grande che da quello militante del concorso e delle varie sezioni - da un entusiasmo in qualche caso persino eccessivo. Pensiamo all'edulcorato ed inconsistente "Gabrielle" di Louise Archambault, premiato dal pubblico della Piazza, ma anche alle storie d'amore di "Mr. Morgan's Last Love" con Michael Caine, e di quella fantascientifica e distopica di "Real" dell'altro giapponese Kiyoshi Kurosawa, a riprova che il segno dei tempi per essere tale deve essere espressione di una variabile umana che il cinema farà bene a non dimenticare. 


Palmarès del 66° Festival di Locarno: 

Pardo d'oro:
Historia de la meva mort di Albert Serra

Premio speciale della giuria:
E agora? Lembra-me
 
di Joaquim Pinto

Pardo per la miglior regia:
Hong Sang-soo per Our Sunhi

Pardo per la migliore interpretazione femminile:
Brie Larson per Short Term 12 di Destin Cretton

Pardo per la migliore interpretazione maschile:
Fernando Bacilio
per El mudo di Daniel Vega e Diego Vega

Menzioni speciali:
Short Term 12 di Destin Cretton
Tableau Noir di Yves Yersin



Venerdì 16 agosto, nona giornata

In attesa dei premi arriva da Taiwan e dal regista Tso-chi Chang il film che chiude il concorso internazionale di Locarno caratterizzato dalla lezione di cinema di Werner Herzog salito sul palco della Piazza grande per ritirare il Pardo d'onore ad una carriera che non smette di sorprendere

Master Class: 
Werner Herzog

In piedi con il microfono in mano e rispondendo alle domande del pubblico Werner Herzog non perde di vista il computer nel quale sono contenute le sequenze da mostrare al pubblico. Quest'immagine, per le caratteristiche di individualismo e di controllo quasi maniacale dell'ambiente circostante, potrebbe essere il biglietto da visita e, al contempo, una delle chiavi di lettura per cercare di sintonizzarsi sulle frequenze del monumentale artista. Era stato lo stesso regista poco prima a sottolineare l'importanza dello spazio relativo alla macchina da presa e il suo rapporto coi mezzi di produzione. "Quando giro è necessario che attorno a me regni il silenzio assoluto, nulla deve muoversi nel raggio di almeno cento metri. Nei set americani in cui ho lavorato, per esempio quello di "Jack Reacher" con Tom Cruise, era un continuo trillare di cellulari e di persone che parlavano al telefono. Io ho bisogno di concentrarmi, di stare vicino alla macchina da presa e agli attori che stanno recitando. Nulla deve intromettersi tra me e loro, il rapporto deve essere simbiotico e allo stesso tempo misterioso. E' per questo motivo che non uso strumentazioni che permettano al resto della troupe di vedere in tempo reale il materiale che ho girato. E' una condivisione che produce false sicurezze, che annulla il coraggio di lanciarsi verso l'incognito e il mai sperimentato". Le parole di Herzog sono perentorie, i suoi modi affabili ma decisi, anche quando, rispondendo ad una precisa richiesta, confessa di detestare il cinema-verità, quello che si limita a registrare l'esistenza senza alcun punto di vista: "Se così fosse il nostro lavoro somiglierebbe a quello dell'impianto televisivo di una banca che si limita a registrare il passaggio dei clienti. Sono stato recentemente ad un meeting in cui la maggior parte dei registi continuava a celebrare le virtù di questo tipo di realismo. Ad una certo punto non ho più resistito e ho gridato che erano una banda di sfigati".

La conversazione tocca velocemente i suoi film più famosi, con Herzog che ricorda le imprese di "Fitzcarraldo" e gli incidenti occorsi durante le riprese - tra questi suscita molte risate quello del direttore della fotografia dimenticato per ore sulla pietra del fiume alla quale si era legato per filmare le peripezie della famigerata imbarcazione - per poi soffermarsi sui documentari più recenti. Apprendiamo che l'approccio è sempre lo stesso, e che a contare sono le cose che nessuna scuola ti potrebbe mai insegnare come quella di rivolgere la domanda giusta all'interlocutore di turno, evitando di spegnere la macchina da presa quando tutti vorrebbero che tu lo facessi per mantenere alto il ritmo. "Mi è capitato con Reinhold Messner quando gli ho chiesto di dirmi in che modo aveva pensato di comunicare alla madre la morte del fratello scomparso. In quel frangente a creare lo scarto fu il fatto di aver formulato la domanda utilizzando termini bibblici. In altri casi, come quella del cappellano di "Into the Abyss" (2011), ho preso in prestito l'immagine di uno scoiattolo per rompere l'atmosfera artificiale che aveva fin lì caratterizzato la sua intervista, facendo venire fuori quello che realmente provava di fronte ai condannati a morte. Dipende dall'intuito e da una profonda conoscenza dell'animo umano; per questo dico ai giovani: non frequentate le scuole ma viaggiate, leggere libri, allevate figli, sono queste le cose che vi apriranno a nuove prospettive, permettendovi di andare oltre l'apparenza e la superficialità".
Nel corso della discussione apprendiamo che tanto i film quanto i documentari partono sempre dall'ispirazione di un'immagine da cui poi derivano la storia e i suoi personaggi. Emergono dettagli tecnici come il fatto di non aver mai impiegato più di cinque giorni per scrivere una sceneggiatura e la capacità di montare velocemente i suoi film : "Li vedo già finiti davanti ai mie occhi, ecco perchè non perdo molto tempo e posso montare un film come "My Son, My Son What Have Ye Done?" in cinque giorni e "Bad Lieutenant" in tre settimane".

Fatalista anche per quanto riguarda i progetti di lavoro, Herzog non è in grado di fare pronostici sul futuro, dichiarando di aver sempre lasciato spazio al destino e ai progetti che per una serie di concidenze gli sono capitati tra le mani incuriosendolo, come il documentario appena girato sugli incidenti provocati per la distrazione della gente che invia sms mentre guida. Distribuito via internet, il film in poco più di una settimana è stato già visto da milioni di persone a dimostrazione delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Oggi, dice Herzog, nessuno può più lamentarsi perchè con diecimila dollari si può fare un film: "Il denaro è vigliacco e stupido, ciò che è basilare non è la tecnica ma l'originalità della visione, il timbro personale che un regista riesce ad imprimere e a comunicare". Gli applausi si sprecano, la scaletta delle domande non finirebbe mai al contrario del tempo a disposizione che, seppur nei limiti di una programmazione festivaliera fitta di appuntamenti, è bastato a stimolare la voglia di riprendere in mano la filmografia di questo grande regista. Magari iniziando dalla monografia che OndaCinema ha appena dedicato all'artista tedesco.

Concorso Internazionale
Shu jia zuo ye (A Time in Quichi) di Tso-chi Chang

timeinquichilocarnoIl concorso ufficiale del 66° Film Festival Locarno chiude all'insegna del cinema proveniente dall'estremo oriente, e così dopo averci frastornato con l'inferno disfunzionale di una famiglia giapponese ("Tomogui") tocca a Taiwan dire l'ultima parola con questo "Shu jia zuo ye" di Tso-chi Chang, racconto di formazione incentrato sui dolori del giovane Bao, ragazzino di Taipei costretto a trascorrere le vacanze estive dal nonno paterno per consentire ai genitori di mettere a punto le pratiche del loro divorzio. Lontano dalla città e alle prese con la scoperte di un ambiente sconosciuto, Bao sarà chiamato a confrontarsi con nuovi compagni di giochi che imparerà a conoscere frequentando la scuola elementare del villaggio. Partendo da un assunto pressochè identico a quello del film giapponese - anche qui ci troviamo di fronte ad un malessere provocato da incomprensioni familiari, condensate all'interno del medesimo arco temporale - "Shu jia zuo ye" se ne distacca quasi subito, quando nel delineare i contorni di una realtà particolare come quella della cittadina di provincia in cui Bao si trasferisce, e i costumi degli stravaganti che la abitano, evita la dimensione da "ritiro claustrale" che caratterizzava il lavoro di Shinji Aoyama, preferendo il confronto con una modernità che emerge dalle vecchie abitudini del piccolo protagonista, perennemente attaccato al tablet che non riesce a sfruttare per la mancanza di connessione, e a quei videogiochi che inizialmente lo salvano dalla mancanza delle abitudini casalinghe; oppure attraverso gli inserti che riguardano le vicende degli adulti (i genitori di Bao e la generazione a cui essi appartengono), alle prese con i problemi di una incomunicabilità tutta contemporanea, causata dallo stress di un'esistenza vissuta a ritmi infernali, a cui il film contrappone, con una valenza positiva, la beatitudine sonnolenta e pigra del paesaggio in cui la vicenda è collocata.
Assonanze ed idiosincrasie funzionano fino a quando il regista si preoccupa di raccontare la storia, e quindi nelle note introduttive trasposte con rapidi schizzi che segnalano i cambiamenti geografici ed emotivi della vicenda; poi nelle fasi che riguardano l'ambientamento di Bao, con le difficoltà e i problemi tipici della "prima volta" simpaticamente ribaltati dalle pagine del diario che il bambino scrive al termine di ogni giornata, e in cui le vicende alle quali abbiamo appena assistito vengono passate in rassegna con termini caricaturali e falsamente ottimistici. Nella parte centrale, invece, quella che occupa la maggior parte del minutaggio, a prevalere sono i toni elegiaci di una malinconia da "paradiso perduto" riferiti all'esperienza a termine - quella dell'intervallo vacanziero e poi di una condizione infantile che sta per essere superata dalla grandezza della vita - che il regista traspone con quadretti amicali e solitudini esistenziali che abbandonano il romanzo per trasferirsi su un piano prettamente sociologico. Abbondano i campi lunghi e le visioni di una natura materna ed insieme matrigna su cui il film sembra quasi fermarsi, dimenticandosi di andare avanti. La fine è in parte nota ma non per questo meno amara, così come la delusione nei confronti di un'opera che aveva promesso bel altri risultati.

Voto: 6


Giovedì 15 agosto, ottava giornata

Piazza Grande
Mr. Morgan's Last Love di Sandra Nettelbeck

mrmorganlastlovelocarnoRegista tedesca con ambizioni internazionali, Sandra Nettelbeck aveva messo in evidenza il suo talento imbrigliando le guasconerie latine del nostro Sergio Castellitto con la sensualità teutonica di Martina Gedeck ("Le vite degli altri", 2006) con una commedia, "Ricette d'amore" (2001), omaggiata addirittura da un remake americano interpretato da Catherine Zeta-Jones. Annotazioni che ci danno lo spunto per inquadrate il lavoro della Nettelbeck all'interno di un cinema in cui recitazione e direzione attoriale sono le caratteristiche fondamentali. "Mr. Morgan's Last Love" ripercorre questa linea annoverando un cast di interpreti guidato dal carisma e dalla classe di Michael Caine ma anche dalla grazia di Clémence Poésy, attrice francese che le offre il destro in un ruolo che per la prima volta la proietta sotto la luce dei riflettori del cinema internazionali. L'innamoramento fuori tempo massimo dell'inconsolabile vedovo intepretato da Caine per la giovane maestra di ballo incontrata per caso sul bus che lo conduce a casa, potrebbe far pensare al cosidetto filone cinematografico dedicato alla terza età che in ogni stagione non manca di aggiungere nuovi esemplari alla sua collezione. E invece, pur restando nei territori dell'amore platonico e annoverando un certo numero di sequenze - qui ci sono quelle in cui Mr. Morgan si trasforma in un ballerino di cha-cha-cha - in cui la vecchiaia prende in giro se stessa, regalandosi il profumo di un nuova giovinezza, "Mr. Morgan's Last Love" si avvicina maggiormente ad un classico come "Nelly e Mr. Arnaud" (1995). A ricordare il capolavoro di Claude Sautet, il fatto di svolgersi a Parigi, e soprattutto la consapevolezza di due temperamenti che neanche per un attimo perdono il contatto con quello che gli sta accadendo. A loro e agli attori che li impersonano la Nettelbeck offre l'equilibrio di una sceneggiatura che sa dosare romanticismo ed emozioni, e che è in grado di offrire una gestione dei personaggi, da Morgan a Pauline passando per Miles, il figlio del protagonista, che finisce per ritagliarsi una parte importante nell'economia della storia, armonizzando le psicologie alla loro funzionalità. Tra occasioni mancate ed improvvvise riabilitazioni, parole non dette e drammatiche confessioni, "Mr. Morgan Last Love" è capace di ricreare quella "dimensione parallela" di cui parlava Herzog nella sua lezione, all'interno della quale la storia del film viene ricostruita ein qualche modo anticipata dalle speranze e dai sentimenti di chi la guarda. Al film della Nettelbeck si rimane attaccati riformulando se stessi attraverso i personaggi. Un risultato non da poco per un film che non mancherà di trovare i suoi estimatori.

Voto: 7

Piazza Grande
Blue Ruin di Jeremy Saulnier

A chiudere le proiezioni della giornata ci pensa "Blue Ruin" film indipendente americano del regista americano Jeremy Saulnier che si ispira ad un must come "Cane di paglia" di Sam Peckinpah (1971) per descrivere la vendetta di un uomo qualunque nei confronti di colui che ha assassinato i genitori. Uscito di prigione l'assassino e la sua famiglia sarà oggetto di una persecuzione che il protagonista metterà in atto con gli strumenti di un quotidiano appartenenti ad un America impaurita e dilaniata dai propri fantasmi. Realizzato con possibilità economiche pari allo zero e poggiato sulle spalle di Devin Ratray, l'attore che impersona il personaggio principale, "Blue Ruin" è sicuramente un film ben fatto, con una ruvidità e una verosimiglianza che le scene di violenza,  quasi sempre costruite sulla tensione della loro preparazione, riescono a testimoniare. Il lavoro di Ratray, però, nel mettere in scena le sue ossessioni vi rimane imbrigliato e non riesce ad uscire da meccanismi di causa-effetto che finiscono per essere scontati e persino prevedibili.

Voto: 5.5

Concorso Internazionale
Tomogui (The Backwaterdi Shinji Aoyama

aoyamalocarnoAncora cinema giapponese per questa ottava giornata caratterizzata dalla Master Class di Werner Herzog di cui riferiremo con dovizia di particolare in altra sede. Per il momento continuiamo con il concorso internazionale ed occupiamoci di questo "Tomogui", un film che seguendo la tendenza di molto cinema contemporaneo rifiuta etichette omnicomprensive, stratificando all'interno della sua struttura narrava molteplici possibilità di lettura e significati. "Tomogui" inizia con la voce fuori campo del giovane protagonista e con la visione di un paesaggio riscaldato da una luce velata e malinconica. Il tono delle parole e i suoi contenuti ci  accompagnano dolcemente all'interno di un piccolo mondo antico dove la civiltà - siamo nel 1988 in una cittadina senza nome - sembra essere rimasta a guardare gli ultimi scampoli di un Giappone primitivo e ancestrale, in cui il tempo e le persone hanno ancora la possibilità di organizzare l'esistenza. In questo spazio sospeso si agitano i ricordi di Tooma, diciasettenne costretto a barcamenarsi con le disfunzionalità di una famiglia lacerata dal divorzio dei genitori, e disturbata dalle violenze del padre, abituato a picchiare le proprie compagne durante furiosi amplessi. Convinto di averne ereditato gli aspetti più negativi, Tooma cerca di esorcizzare le sue paure attraverso il conforto della madre Jinko, proprietaria di un negozio di pesce, e negli incontri amorosi con Kotoko, la sua fidanzata. Ma quando Tooma, in uno scatto d'ira, colpisce la ragazza, i presagi di un destino funesto ed angosciante prendono il sopravvento, precipitando lui e il suo mondo in una vertigine di dolore e d'abiezione.
Se il tessuto del film è realizzato con immagini di una compostezza delicata e immota, "Tomogui" tradisce in parte quel biglietto da visita facendosi attraversare da deliri di onnipotenza, fisica ed emotiva, che scuotono le viscere della storia portando a galla passioni proibite (quella di Tooma per la compagna del padre) desideri incestuosi, e sensi di colpa da melò alla Tennessee Williams. Sono inserti di breve durata e di nudità appena accennate, ma sufficienti ad imprimere al film una carnalità che Shinji Aoyama affida all'espressione dei volti e alla teatralità delle scene. Intervalli che contrastano con l'altra anima del film, quella che si riallaccia a certi romanzi di formazione, e ad opere come "Stand By Me" (1986) capaci di raggrumare le linee d'ombra di una giovinezza colta sul punto di scomparire per sempre. Già premiato qui a Locarno con un curioso Pardo d'oro speciale alla carriera (2011), Ayoama si presenta di nuovo in concorso con un film che conferma la vitalità della cinematografia giapponese, mai come quest'anno sulla cresta dell'onda (ricordiamo "Like Father, Like Son" di Kore-Eda Hirokazu). Per lui ci potrebbe essere la considerazione dalla giuria presieduta da Lav Diaz.

Voto: 7.5 


Mercoledì 14 agosto, settima giornata

Concorso Internazionale
Real di Kiyoshi Kurosawa

kurosawalocarnoDi tutt'altro tenore il secondo film del concorso internazionale, posizionato nella terra di mezzo che divide il sogno dalla realtà, e dentro i confini di un cinema di genere che il regista Kiyoshi Kurosawa conosce molto bene avendolo esplorato nelle sue molteplici varianti. Evocativo fin dal titolo, "Real" gioca su diversi piani narrativi e temporali, immaginando l'esistenza di una terapia neurochirurgica, il "sensing", che permette di entrare nella coscienza delle persone col tentativo di risvegliarle dal coma. Una tecnica in via di sperimentazione a cui Koichi decide di ricorrere per cercare di capire le ragioni che hanno indotto Atsumi, la compagna di sempre, al tentato suicidio che l'ha ridotta in stato vegetativo. Non priva d'effetti collaterali che non tardano a manifestarsi sottoforma di sconvolgenti allucinazioni, l'esperienza di Koichi nell'inconscio dell'amata metterà a dura prova le facoltà mentali e fisiche del protagonista restringendo pericolosamente l'intervallo che divide il visibile dal metafisico e dall'imponderabile.
Se a prima vista non si farebbe fatica a catalogare "Real" come un film di fantascienza con venature thriller rappresentate dal mistero che si racchiude dentro l'inconscio della vittima, con il trascorrere dei minuti l'etichetta si alleggerisce dei suoi significati per la stratificazioni di una sceneggiatura che, pur mantenendo l'imprinting originale, con la procedura del "sensing" sempre in primo piano a ricordarci il genere alla quale appartiene, assume le forme di un vero e proprio melò, quando con un capovolgimento di prospettive un po' telefonato entrambi i personaggi si troveranno coinvolti in eventi in cui non esiteranno ad offrire la propria vita per la salvezza dell'altro. Certamente non mancano i riferimenti alla cultura giapponese, e in special modo quella fantasiosa e pop rappresentata dalla tradizione dei Manga (uno di questi albi e il suo disegnatore risulteranno determinanti ai fini della storia), così come ad episodi della cronaca recente, presenti nelle scene in cui il film ritorna nei luoghi d'infanzia dei protagonisti disegnandoli nel segno di una devastazione e di un abbandono che riporta in mente le sciagure sopportate dal paese del Sol Levante. Detto questo, "Real" è completamente riuscito sul piano della fantasia e in una qualità visionaria collegata alla raffigurazione del paesaggio e degli ambienti, futuribili ma al tempo stesso perfettamente contemporanei. Perde colpi dal punto di vista narrativo, con ripetizioni e lungaggini che ad un certo punto arrivano ad allineare almeno tre finali. Una maggiore sobrietà ne avrebbe fatto un'opera degna di nota.

Voto: 6.5

Concorso Internazionale
Mary Queen of Scots di Thomas Imbach

Piazza Grande 
Gloria di Sebastian Lelio

imbachlocarnoDue ritratti femminili hanno caratterizzato la settima giornata del Festival di Locarno. Apparentemente distanti per motivi storici e culturali, quello di Maria Stuarda regina di Scozia ai tempi della cugina Elisabetta ha più di un punto in comune con la figura matura ed emancipata descritta dal collega cileno Sebastian Lelio nel film ("Gloria") che prende il nome della sua protagonista. Nel primo, quello più evidente è l'affermazione di un'identità femminile, che non rinuncia ad affermare i suoi diritti - all'amore inteso come totale adesione alla vita, ma anche alla riappropriazione di una componente fisica che il protocollo del lignaggio da una parte, il ruolo imposto dall'età e dai codici borghesi dall'altra sembrerebbero negargli - ma anche le sue responsabilità: Maria Stuarda nei confronti del popolo, Gloria verso i propri figli. Per farlo i registi prendono direzioni necessariamente diverse, dettate dal contrasto degli scenari in cui si svolgono le singole vicende. Nel caso di "Mary Queen of Scots" infatti ci troviamo nella metà del XVI secolo, nell'Europa delle monarchie e delle guerre di religione che lacerarono e divisero la vita di quei regni. In questo senso la figura di Maria è l'emblema stesso del suo tempo: costretta a scappare in tenerà età per salvarsi la vita, Maria fu allevata alla corte francese di Caterina de' Medici e dopo alterne vicende si ritrovò nel paese natale, in veste di regina di Scozia, a rappresentare il baluardo del cattolicesimo messo a dura prova dall'avanzata della religione protestante, rappresentata dalla cugina Elisabetta seduta sul trono della corona inglese. All'opposto, "Gloria" ci consegna il ritratto di un paese, il Cile, che ha fatto i conti col proprio passato, e nel quale ad emergere non sono più i fantasmi del regime fascista ma le vicissitudini di un'umanità alla conquista del tempo perduto, e alle prese con i problemi di un quotidiano finalmente normalizzato.  
I due film registrano questo scarto temporale e ne danno conto attraverso la forma del loro cinema. Inevitabilmente condizionato dall'iconografia del teatro shakesperiano e dalle versioni sullo stesso tema che l'hanno preceduto, "Mary Queen of Scots" si propone, attraverso la sua drammaturgia febbrile, un racconto che vuole essere un viaggio nei meandri di un'anima divisa tra sentimento e ragion di Stato e, allo stesso tempo, è il ritratto di un'intera epoca. Thomas Imbach la traduce secondo il copione classico che prevede dialoghi pronunciati sulla scia dell'enfasi e di una precisione che sfiora la declamazione teatrale, ma se ne distacca parzialmente con una scenografia scarna, fatta d'ambienti poco ricostruiti, palesemente corrotti dai segni del tempo presente e con una serie d'interpretazioni, ci riferiamo alla corte personale della regina ed alle sue damigelle in particolare, costruite - come a suo tempo aveva fatto Sofia Coppola in "Marie Antoinette" (2005) su un linguaggio del corpo assolutamente contemporaneo.
"Gloria" invece con un intimismo "sociale" che non perde mai di vista il suo pubblico sembra riallacciarsi ad una tradizione di figure femmili che, negli anni 70, opere come "Conoscenza Carnale" (1971) e "In cerca di Mr. Goodbar" (1977) avevano rilanciato all'insegna dell'emancipazione e della mancanza d'ipocrisia. Certamente i tempi sono cambiati e, per quanto la figura di una donna in cerca d'affetto ed anche di piacere non rappresenti più una rivoluzione culturale, rimane comunque evidente la presa di coscienza di una solitudine condivisa con i modelli da cui "Gloria" prende spunto, e di un'incomunicabilità con il resto del mondo - gli uomini, inetti e poco interessanti, ma anche i figli incapaci di superare le barriere generazionali - che la scena finale, con il ballo liberatorio di Gloria, eseguito sulle note dell'omonima hit di Umberto Tozzi, restituiscono con una rassegnazione che non assume mai i toni della sconfitta. Filmato con una regia mimetica, sottratta a qualsiasi espediente che non sia quello di mettere in primo piano il proprio personaggio, "Gloria" è un film costruito sull'emozione e sull'atmosfera di sentimenti a stento trattenuti.
Senza far gridare al capolavoro, e pur in presenza di qualche ripetitività, "Mary Queen of Scots" e "Gloria" sono due film riusciti, che ci offrono l'occasione di vedere le performance straordinarie di due attrici fino ad ora sconosciute: Camille Rutherford (Mary) e Paulina Garca, premiata a Berlino per l'interpretazione di Gloria, sono valori aggiunti che, nel caso dell'attrice britannica potrebbero valerle un riconoscimento personale.

"Mary Queen of Scots" voto: 7
"Gloria" voto: 7


Martedi 13 agosto, sesta giornata

Master Class: Faye Dunaway
Appare desiderosa di condividere i ricordi della propria carriera cinematografica Faye Dunaway, presente a Locarno per ricevere uno dei tanti premi ad personam che il festival attribuisce ai grandi della settima arte. Faye Dunaway appartiene certamente a questa categoria per aver interpretato almeno due film entrati nella storia del cinema: "Bonnie & Clyde" (1967) di Arthur Penn, opera di riferimento della cosiddetta "Nuova Hollywood", e poi "Chinatown" (1974) di Roman Polanski, secondo molti modello pressochè perfetto di cinema noir. E proprio su questi due film si sofferma l'interesse della Master Class moderata da Carlo Chatrian, il quale conduce l'attrice attraverso i ricordi di due personaggi femminili, Bonnie Parker e Evelyn Mulwray, che a loro modo raccolgono e sintetizzano due facce della stessa personalità: personale e privata derivata dal fatto che, come l'eroina del film di Arthur Penn, anche la Dunaway proveniva dalla provincia americana, e come lei esprimeva il sogno di uscire da una situazione di isolamento sociale e di difficoltà economiche; lavorativo, avendo Hollywood trasformato la sua figura in un'icona di eleganza aristocratica e sensuale, simile a quella imposta da Polanski e dallo sceneggiatore Robert Towne alla protagonista di quel film. "Entrambe le opere sono espressione di un cinema che non si fa più", dichiara la Dunaway, "Oggi la violenza è un modo per fare spettacolo, mentre basterebbe guadare il film di Penn per accorgersi con quanta arte il regista l'abbia rappresentata". A chi le chiede di raccontare qualcosa sui colleghi di lavoro con cui ha avuto occasione di dividere il set, l'attrice non si risparmia in complimenti. Ce ne sono un po' per tutti: da Warren Beatty a Steve McQueen e, soprattutto, per Marlon Brando, incontrato durante le riprese di "Don Juan De Marco - Maestro d'amore" (1995) e ricordato come un compagno d'avventura dolce e disponibile. "Lo vedevi scendere dalla limousine coperto da un accapatoio, noi applaudivamo divertiti e tutto poteva incominciare, il suo modello di recitazione è stato il punto di riferimento imprescindibile per la mia generazione".
Temporaneamente lontana dal cinema ma per nulla rinunciataria, Faye Dunaway afferma di esservi costretta per mancanza di copioni adatti alla sua età, ma spera di rifarsi riuscendo a completare "Master Class" il film su Maria Callas - tratto dalla piece teatrale di Terrence McNally da lei portata sulle scene - che segnerà anche il suo esordio alla regia. "Ho deciso di acquisirne i diritti e di girarlo a modo mio perchè con gli studios non sarebbe possibile mantenere il controllo del progetto" e ancora "Per questa sfida ho ripreso a studiare attraverso la visione delle opere dei grandi maestri, cercando di rubare qualcosa alla loro bravura". Tra questi a sorpresa c'è anche David Fincher: "Ho visto Zodiac una trentina di volte, è di una bellezza strepitosa, tutto giocato sul ritmo della parola". Il pubblico applaude e si accalca per un autografo. Lei si concede ai fotografi felice di ricevere l'abbraccio adorante dei presenti.

Piazza Grande
We're the Miller di Rawson Marshall Thurber

were_the_millerslocarno"We're the Miller" potrebbe essere il tormentone destinato a diventare il marchio di fabbrica di una serie dedicata alla sgangherata "famiglia" inventata da Rawson Marshall Thurber nell'omonimo film. Uno squillo di tromba che preannuncia la cagnara, sul tipo di quello introduceva le avventure di serie come i Flistones, la famiglia Addams e gli stessi Simpson. A pronunciarlo è David Clark, spacciatore caduto in disgrazia che tenta di risalire la china offrendosi come corriere di un grosso quantitativo di droga che gli sarà consegnato da un potente cartello messicano, e che dovrà far passare attraverso la dogana che separa gli Stati Uniti da quel paese. Una missione quasi impossibile che però David affronta insieme al suo surrogato familiare messo in piedi in fretta e furia allineando nei ruoli di moglie e figli una stripper in cerca di soldi (Jennifer Aniston in un ruolo che riprende quello da lei interpretato ne "Come ammazzare il capo e...vivere felici!", 2011) e due ragazzini bordeline. Nelle intenzioni dell'uomo, la famiglia dovrebbe aiutarlo a depistare i sospetti dei poliziotti, assicurando a lui ed i suoi accompagnatori una lauta ricompensa. Trattandosi di una commedia costruita per sbancare il botteghino ne succederanno di tutti i colori e il paradiso perduto non sarà facile da riconquistare.
Rawson prende di mira la famiglia americana e lo fa disegnando un modello esattamente opposto a quello sbandierato dalla propaganda prezzolata. Se infatti la morale dominante è monopolizzata dall'uso ad oltranza di un galateo delle buone maniere falso e stucchevole, quello di "We're the Miller" è fatto apposta per metterne il risalto l'ipocrisia, con mamme sboccate che baciano i figli per iniziarli ai preliminari amorosi e ragazzine che potrebbero insegnare la stessa cosa ai propri genitori. Insomma una vera e propria rivoluzione, ammicante e divertente, che mette insieme quanto basta per organizzare una commedia degli equivoci sviluppata su un impianto da road movie che metterà a dura prova l'equilibrio di un contraltare conservatore e puritano rappresentato dalla famiglia Fitzgerald, incontrata dai Miller durante il loro viaggio. Reso divertente da situazioni esilaranti tanto nelle parti più dinamiche, quelle in cui David ed il resto del gruppo si dovranno sottrarre alle cattive intenzioni del boss e dei suoi scagnozzi, quanto nelle schermaglie che permetteranno al neo-nucle familiare di liberarsi dallo stress della forzata convivenza, "We're the Miller" oltre ad avere in dote una "mostruosità" storicamente necessaria per sperare di passare ai posteri, si avvale di un cast eterogeneo che esalta l'empatia di Jason Sudeikis, conferma la versatilità di Jennifer Aniston e ribadisce la forza dei casting americani, anche in questo caso capaci di allineare tra le sue fila un attore come Nick Offerman nei panni di Don Fitzgerald, azzeccatissimo nel proporre una versione rinnovata e corretta del redneck americano, pronto a sparare quando ce n'è bisogno ma convinto di doversi adeguare al proprio tempo e ai suoi cambiamento culturali, con risultati che il film di Thurber ci farà scoprire con più di una sorpresa. Presentato a Locarno come proiezione fuori concorso, nella cornice della Piazza Grande, e in concomitanza con l'uscita americana, "Come ti spaccio la famiglia" - traduzione italiana del titolo originale all'insegna del cinepanettone - potrebbe rappresentare la sorpresa dell'estate americana risollevando le sorti di un'annata in cui le artiglierie degli studios hanno sparato parecchi colpi a salve. Staremo a vedere. Nel frattempo nella cittadina svizzera la pellicola ha fatto ridere cinefili e spettatori occasionali: il tempo ci dirà se abbiamo avuto ragione.

Voto 7.5

Concorso Internazionale
Historia de la meva mort di Albert Serra

historiadelamevamortlocaSe uno non conosce il cinema di Albert Serra potrebbe rimanere interdetto dalla visione di "Historia de la meva mort", secondo film in concorso firmato da un regista abbonato alle vetrine festivaliere. Eppure, pur nel privilegio di conoscerlo da tempo, i dubbi sull'urgenza e sui significati dell'opera restano intatti perché la storia degli ultimi giorni di Casanova, dongiovanni libertino e colto destinato a soccombere per mano del conte Dracula, personificazione di un secolo, quello romantico, che si appresta a succedere al razionalismo trionfante incarnato dal nobiluomo veneziano fatica a stare in piedi. Abituato a girare con attori non professionisti e senza far precedere le riprese da un minimo di prove, Albert Serra ce la mette tutta per sconcertare gli spettatori. A pesare è innanzitutto la lunghezza del film, 146 minuti dilatati dall'assoluta mancanza di azione e dominati da una serie di dialoghi che, seppur pensati all'interno di una dialettica organizzata sul botta e risposta di più personaggi, prendono quasi sempre la direzione di un soliloquio filosofeggiante ed evanescente, lontano da qualsiasi logica narrativa. E anche quando fanno capolino alcuni aspetti iconografici dei due famosi personaggi, con Casanova impegnato a sedurre provocanti fanciulle e Dracula ad alleggerirle da ettolitri di sangue, a prevalere è un cupio dissolvi privo di pathos e di quel pizzico di malattia che solitamente si accompagnano a simili rappresentazioni. Vacuamente teatrale, caratterizzato da un'assoluta mancanza di vitalità, anche quando le sequenze più mondane dovrebbero essere in grado di tirarla fuori, "Historia de la meva mort" riesce comunque a far convivere il naturalismo delle riprese a lume di candela (per molte scene è questa l'unica fonte di luce disponibile) e la spontaneità degli attori con la complessità degli argomenti trattati: dall'importanza della conoscenza e dell'apprendimento testimoniato dalle citazione di alcune delle opere di Montaigne e Voltaire, alla crudeltà della bellezza e alla voluttuosità del desiderio espresso dal temperamento ondivago dei personaggi femminili.
Incontrando il pubblico al termine della proiezione, Albert Serra, in modo pittoresco e con understatement personale ma sincero, ha dichiarato scarso interesse per rigore e tecnicismi. Abituato a montare il film selezionandolo da montagne di girato, infischiandosene dei dettagli e con dialoghi completamente stravolti - il film è inizialmente ambientato in Svizzera per la necessità di attribuire una solidità al personaggio di Casanova e allo stesso tempo per allontanarlo dal paesaggio in cui storia e letteratura normalmente lo hanno sempre collocato - Serra assomiglia a una versione sofisticata di Ed Wood, regista immortalato dall'omonimo film di Tim Burton. Assecondandone gli estri ci si può anche divertire.

Voto: 5


Lunedì 12 agosto, quinta giornata

Piazza Grande
Gabrielle di Louise Archambault

gabriellelocarnoAncora un film di lingua francese ma questa volta proveniente dall'altra parte del mondo e, in particolare, dalla città di Quebec dove è ambientata la storia di Gabrielle, giovane diversamente abile innamorata di Martin, un suo coetaneo incontrato nel centro ricreativo dove insieme stanno preparando le prove di un importante concerto ai quali parteciperanno con il coro di cui fanno parte. Osteggiato dai rispettivi familiari, preoccupati di proteggere i figli dalle conseguenze della loro diversità, Gabrielle dovrà lottare non poco per imporre la sua incontenibile voglia di vivere. Intepretato senza finzione da attori che condividono con i personaggi un handicap reale e quotidiano, "Gabrielle" realizza la nobiltà dei suoi contenuti con una serie di situazioni edificanti, e con un eccesso di politicamente corretto che si riversa soprattutto sui personaggi di contorno, ognuno dei quali chiamato ad impersonare una fetta di bontà di cui "Gabrielle" è infarcito . In questo modo la presunta dialettica tra pro e contro instauratasi nella premessa del film viene sostituita da un compiacimento che si esprime nella continua ricerca dei primi piani dell'attrice, e in una proposizione snervante della canzone che sarà oggetto del recital finale, inserita più volte e fino in fondo, come commento alla grazia e all'innocenza dei due innamorati. Prodotto dalla micro_scope di "Monsieur Lazhar" (2011), "Gabrielle" si è concluso nell'ovazione del pubblico che ha lungamente applaudito Gabrielle Marion-Rivard, la protagonista del film presente qui a Locarno con identica e coinvolgente felicità.

Voto: 5

Concorso Internazionale
L'etrange couleur des larmes de ton corps di Hélèn Cattet e Bruno Forzani

etrangecatttetforzanilocarnoDi opposta fattura il film che conclude questa quinta giornata del concorso. Siamo infatti dalle parti di un cinema che rifiuta qualsiasi istanza narrativa per abbracciare un accumulo di sensazioni, deragliamenti, immagini e citazioni. Insomma la quintessenza del postmoderno se non fosse che il duo registico formato da Helen Cattet e Bruno Forzani,  all'interno di un simile collage, pretende di inserire una sorta di giallo alla Dario Argento, con arredamenti vintage, sintetizzatori e guanti pronti a sferrare l'ennesima coltellata a ricordarne le atmosfere. La storia è presto detta: un uomo d'affari è alle prese con la scomparsa della moglie, impegnato a cercarla all'interno di una casa labirinto. C'è di mezzo un oscuro passato ed una serie di inquietanti personaggi.
Strutturato su diversi piani temporali e di coscienza,  "L'etrange couler des larmes de ton corps" è un'opera che tenta di sfuggire ad ogni catalogazione, rifugiandosi in una metamorfosi di situazioni soprattutto visive all'insegna della fantasia e del sorprendente, in cui la ricerca della perfezione stilistica, realizzata con una manipolazione delle immagini che riguarda tanto il formato - il film è attraversato da inserti di diversa natura con fotografie, digitale e pellicola a passarsi continuamente il testimone - che l'estetica (realizzata con giochi di colore ed invenzioni scenografiche) diventa il motivo dominante dell'intera opera. Ammaliati dal cinema lynchiano, ma anche dal Polanski di "Repulsion" (1965), ripreso nella corrispondenza tra l'incoscio del protagonista e "l'animismo" attributo alla casa e ai suoi oggetti, Cattet e Forzani riescono a riprodurlo solo in superficie con sistematica proposizione di deragliamenti sensoriali realizzati utilizzando il buio dell'ambiente ed alcune parti del corpo umano - gli occhi e la bocca - come portali di dimensioni parallele in cui l'uomo è destinato a perdersi. Associato a una colonna sonora di rumori laceranti ed ossessivi che vorrebbero rendere giustizia al detour psicologico del contorto protagonista, il film finisce per assomigliare più ad una tesi di laurea che ad un'opera compiuta. Il virtuosimo tecnico e la voglia di mostrarlo in tutte le sue possibili accezioni consegnano "L'etrange couleur des larmes de ton corps" ad uno sperimentalismo privo di sostanza.

Voto: 5

Concorso Internazionale
Tableau Noir di Yves Yersin

tableau_noirlocarnoDa "Diario di un maestro" di Vittorio De Seta (1972) a "Etre et Avoir" (2002) di Nicolas Philibert, il cinema ci ha abutuato ad incontrare l'infanzia e la sua formazione all'interno di un'aula scolastica, regalandoci spesso capolavori carichi di verità ed emozione. Sulla scia di questi esempi si pone "Tableau noir" di Yves Yersin, primo film di un concorso di una giornata monopolizzata da opere in lingua francofona. Si tratta del resoconto filmato dell'anno scolastico di una classe mista di bambini dai sei agli undici anni e del maestro che si prende cura della loro educazione. Situata sulla cresta del Giura nel cantone svizzero di Neauchatel, la scuola intercomunale di Derriere-Pertuis è l'avamposto di una cultura in cui si sono formati gli abitanti delle valle, e che un decreto governativo rischia di chiudere per sempre. Yves Yersin, tornato al cinema dopo anni di silenzio, decide di filmare questo miracolo aggregativo prestando la sua telecamera all'improvvisazione e alla naturalità dei piccoli studenti: tutti, nessuno escluso, alle prese con le vittorie e le sconfitte che sempre contraddistinguono ogni forma d'iniziazione alla vita. In questo modo a prendere vita davanti allo schermo è un libro dei sogni diviso per capitoli e secondo i colori che contraddistinguono il paesaggio emotivo dei piccoli protagonisti. Al suo interno un carnevale di volti e d'impressioni che rappresentano insieme la gioia e la fatica dell'apprendimento, ma anche la dedizione paziente ed amorevole di chi - il loro maestro - è consapevole dell'importanza di quella missione. Impossibile non affezionarsene, a non considerarli, con il passare dei minuti, lo specchio di quello che eravamo e di quello che siamo diventati. Nel farlo si sorride molto, qualche volta anche in maniera smaccata di fronte alle trovate di questi buffi "personaggi", pronti a litigare per un nonnulla e, subito dopo, di nuovo insieme come se nulla fosse accaduto nell'impresa di aiutarsi a completare un disegno e a far di conto.
Ambientato all'interno delle aule della scuola ma aperto alla natura incontaminata e talvolta ostile (gli inverni pieni di nevi mettono a rischio lo svolgersi delle lezioni) che sembra scandire il ritmo delle sue giornate "Tableau Noir" oltre ad essere un concentrato pulsante di vita si assume la responsabilità di testimoniare il segno dei tempi quando nel malinconico addio del maestro ai suoi alunni, con la chiusura della scuola diventata oramai certezza, riassume il prevalere della ragion di Stato sui bisogni primari dei suoi cittadini. La sensazione di déjà vu che che ci accompagna durante l'uscita dalla sala non rende il film di Yersin meno necessario ed evocativo.

Voto: 7

Concorso Internazionale
Tonnerre di Guillaume Brac

La provincia francese uggiosa e grigia, di quelle che sarebbero piaciute a Georges Simenon, oppure, per restare al cinema, ad un regista "limitrofo" come Bruno Dumont, fa da scenario all'opera in concorso "Tonnerre" di Guillame Brac, storia d'amour fou tra un musicista rock in crisi creativa ed esistenziale e una ragazza in cerca d'identità. Lui è fuggito da Parigi lasciandosi dietro l'irripetibilità di una fama ormai scemata e, forse, i rimasugli di un amore, lei invece si ritrova a convivere con le conseguenze di una natura irrequieta che l'ha portata a interrompere senza un perché una relazione di lunga data. A unirli, nonostante la differenza d'età, il bisogno di trovare nell'altro il coraggio di non mollare. Il destino però è in agguato e assume le forme di un passato che per entrambi tornerà a chiedere il conto.
Partendo da un soggetto non molto originale Guillaume Brac decide di puntare le sue fiches sul realismo psicologico dei personaggi e sulla precisione della rappresentazione ambientale. In tal senso, "Tonnerre", dal nome della cittadina della Borgogna in cui si svolge la vicenda, riesce a dare vita ad uno spaccato esistenziale totalmente verosimile, restituendo attraverso gli scorci di un agglomerato urbano angusto ed immerso nel grigiore della bruma invernale, l'afflizione emotiva e materiale di un quotidiano senza orizzonti, che appartiene tanto ai due protagonisti, avvinghiati in una morsa di pulsioni autodistruttive, quanto all'anziano padre del musicista, filosoficamente rassegnato alla quiete immota di una parabola esistenziale, su cui pesa il trascorso di un abbandono familiare, coinciso con la malattia e la morte della moglie. In più la qualità di una tensione che riesce a montare in modo silenzioso e senza virtuosismi, attraverso il reiterarsi di gesti minuti e prosaici che entrano dentro la storia grazie ad una regia pragmatica, e alla totale adesione degli attori ai rispettivi ruoli. Ed è proprio nella scelta di volti come quelli di Solène Rigot e di Bernard Menez che il film prende quota e si mantiene per tutta la durata, arrivando persino a spiazzarci con un finale a sorpresa che non smentisce le premesse ma nemmeno ci regala un sorriso.

Voto: 7


Domenica 11 agosto, quarta giornata

Concorso Internazionale
Wetlands di David Wnendt

wetlandslocarnoOgni festival ha il suo scandalo. Locarno si adegua e presenta questo "Wetlands" (zone umide), che il regista tedesco David Wnendt ha tratto dal bestseller di Charlotte Roche, interpretato nel ruolo della disinibita protagonista da Carla Juri, attrice ticinese per cui ieri è stato organizzato un gran tifo. La trama segue le "vicissitudini" di Helen, adolescente anticonformista e ribelle, immersa fino in fondo in un turbine d'esperienze disgustose e al limite del lecito che hanno per oggetto il corpo e i suoi orifizi, indagati, fotografati e profanati con metodica applicazione dalla ragazza in un crescendo d'assuefazione dolorosa e, al contempo, necessaria. Finita in ospedale e in attesa di sottoporsi ad un'operazione all'emorroidi, Helen avrà modo di passare in rassegna le fasi salienti e squilibrate della sua giovane esistenza.
Pensato come una versione al femminile di un cult come "Trainspotting" (1996), del quale riprende non solo il clima psichedelico e la dimensione tragicomica, ma anche la voglia di stupire, con riprese audaci e sorprendenti, come quella iniziale che cita in modo esplicito il film di Danny Boyle quando, in un bagno-tugurio decide di esaminare in modo microscopico e dettagliato rimasugli di umori e peli pubici, "Wetland" più che raccontare un personaggio e le sue vicende è un elenco di aberrazioni edulcorate da uno stile da videoclip, peraltro irrimediabilmente datato, più attento alla cornice e al ritmo che al senso dei suoi contenuti. In questo modo, accumulando un esibizionismo che rasenta la coprofagia, con dita nel naso e tamponi mestruali odorati, masticati ed esibiti in maniera compiaciuta davanti alla telecamera, "Wetlands" finisce per azzerare la sorpresa ed anestetizzare ciò che poteva rimanere in termini di disgusto e repulsione. Un minestrone allungato e senza ingredienti, pronto a ritornare sui suoi passi con un lieto fine, inserito ad arte per far tornare i conti del pubblico ed adatto alle caratteristiche di un prodotto che fa di tutto per essere all'interno del sistema. Diversità e trasgressione abitano da un'altra parte.

Voto: 4

Concorso Internazionale
Une autre vie di Emmanuel Mouret

autrevielocarnoLa quarta giornata oltre alla sorpresa di "Short Term 12" è stata contrassegnata dalle scelte coraggiose di Carlo Chatrian, capace di mettere in concorso due film per certi versi anomali rispetto al contesto di una selezione rigorosa e solitamente poco incline ad assecondare i fondamentali del cinema genere. È quindi una sorpresa ritrovarsi di fronte ad un regista di spartiti amorosi e sentimentali come Emannuel Moret, autore di una commedia capolavoro come "Cambio di indirizzo" (2006), velocemente passato nelle sale italiane e poi dimenticato, e successivamente andato in ambasce con una serie di varianti di quel prototipo, macchinose e un po' artificiali, che quasi nulla hanno mantenuto della purezza e del divertimento genuino che avevano contraddistinto il suo cinema iniziale. 
Per riprovarci Mouret non cambia soggetto. Protagonista è sempre l'amore con le sue ondivaghe contraddizioni, ma questa volta invece del sorriso e della leggerezza i toni si fanno decisamente più seri e la storia assume le forme di un melodramma che sembra volersi rifare al modello reso celebre da Raffaele Matarazzo e da Yvonne Sanson. Ad interpretarlo la nostra Jasmine Trinca, dopo la vetrina cannense, ancora una volta protagonista festivaliera (e presto anche di quella hollywoodiana, con un film blockbuster, affiancata da Sean Penn e Javier Bardem) nei panni di una pianista in crisi esistenziale che si innamora di Jean, elettricista che si occupa di manutenere la villa sul mare in cui la donna si è rifugiata dopo essersi allontanata dalle scene. Jean è sposato con Dolores, compagna di vita dai tempi della scuola ma la passione è travolgente e, purtroppo, non accetta via di mezzo. Ambientato nel sud della Francia e riscaldato dalla natura mediterranea di quella terra, "Une autre vie" dà vita al suo triangolo amoroso facendo entrare in gioco tutti i codici del melò. Dall'inquietudine dei personaggi tormentati da una passione che fa sognare e insieme uccide, al delirio di onnipotenza che squarcia la natura dell'amore, trasformandolo in uno strumento di possesso e manipolazione che il personaggio di Dolores (Virginie Ledoyen), compagna tradita ed abbandonata, attraverso lo spirito di rivalsa che la pervade, riesce ad incarnare alla perfezione. Ingredienti che la sceneggiatura mette insieme con buon mestiere ma anche con una leziosità, soprattutto nell'uso degli ambienti fotografati in maniera didascalica, e in certi passaggi, dove cambiamenti d'umore e scelte sembrano affidate esclusivamente all'estetica dei personaggi ed all'enfasi di affermazioni del tipo "il modo di separare due amanti è quello di metterli insieme" che, da sole, si assumono la responsabilità di giustificare le loro decisioni. Ben recitato sul versante femminile, con la Trinca perfettamente a suo agio in un ruolo tutto francese, ed un po' monocorde su quello maschile, monopolizzato dalla faccia sempre uguale di Joey Starr (Jean) misteriosamente conteso dalla due donne, "Une autre vie" avrebbe trovato qualche giovamento da una maggiore sobrietà del minutaggio per evitare la sensazione di una storia che ritorna spesso sui suoi passi, senza aggiungere molto di più di quello che era stato già detto.

Voto: 6 

Concorso Internazionale
Short Term 12 di Destin Cretton

shortterm12locarnoQuasi 10 minuti di applausi e pubblico tutto in piedi per celebrare l'impresa di Destin Cretton, giovane regista americano che ha provocato l'emozione più grande in un concorso iniziato un po' in sordina. Per farlo Cretton si è affidato a un cast di attori pressoché sconosciuti e a una storia di disagio giovanile; un po' dalle parti di Gus Van Sant e dei suoi "ragazzi perduti", un po' in quelle di certo cinema indipendente che utilizza la macchina da presa per sondare i lati oscuri del paesaggio americano. Per non lasciarsi confondere e per meglio tratteggiare i caratteri universali della sua vicenda "Short Terms 12" si colloca lontano dalla metropoli, in un luogo imprecisato e definito più che altro dalla casa famiglia da cui il film prende il titolo, in cui Grace e il fidanzato si prendono cura degli adolescenti che entrano nell'istituto per cercare di sconfiggere il malessere che li divora, nel tentativo di rimetterli sulle frequenze del mondo dal quale voglio scappare. Una vita quotidiana senza un attimo di tregua, espressa attraverso un flusso emotivo che non prevede vie di mezzo: la gioia così come il dolore sono facce della stessa medaglia che Grace (Brie Larson) affronta facendo i conti con un passato non dissimile da quello dei suoi giovani pazienti. L'arrivo di Jayden, quattordicenne scontrosa ma piena di talento lo farà riemergere in maniera drammatica e con sviluppi sconvolgenti.
Il soggetto che Cretton porta sullo schermo è di per sé incandescente e difficile da raccontare, perché il dolore di un'adolescenza maltrattata e ferita, pur nella sua bruciante attualità, continua ad essere oggetto di facile retorica e di una condivisione che sfocia spesso in un paternalismo che non lascia traccia. Qui, invece, a discapito di un intreccio convenzionale, incentrato sull'interazione di un gruppo di persone che cerca di convivere in un'armonia delegittimata da una serie di non detti che pesano come macigni (abusi, abbandono, indifferenza, senso di colpa, inadeguatezza) riesce ad emergere con sorprendente verità il crogiolo di opposte pulsioni che squarcia l'esistenza di un'umanità "interrotta". Cretton con sorprendente finezza psicologica e senza mai calcare la mano nella resa di situazioni che altrove, pensiamo al cinema di Larry Clark ("Marfa Girl", 2012) ma non solo, diventerebbero oggetto di ossessione voyeuristica, riesce a farci sentire la violenza e l'afflizione dei protagonisti in una continua alternanza di stati d'animo e di tensione che i volti degli attori sono capaci di esprimere senza proferir parola. Immerso in una luce delicata e a tratti crepuscolare, girato con stile controllato ma in grado di lasciare spazio ad un'improvvisazione evidente nei continui aggiustamenti della macchina da presa sulla natura recalcitrante e sfuggente dei personaggi, "Short Term 12" compie il suo capolavoro quando dimentica di essere cinema ed inizia a respirare con i battiti dell'esistenza. Un processo non facile che Cretton riesce a realizzare guardando il mondo con gli occhi dei suoi personaggi, evitanto di scadere nell'accondiscendenza o peggio ancora nella facile sociologia. Un mix di equilibrio e spontaneità che deve molto all'immedesimazione di Brie Larson, da questo momento favorita per il premio come migliore attrice e perfetta nel delineare la lotta interiore di Grace, eroina di un quotidiano faticoso e logorante, in un'altalena di felicità e disperazione. Sviluppato dall'omonimo corto realizzato nel 2009 e vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival, "Short Term 12" è fortemente candidato alla vittoria finale. Al di là di ciò, speriamo lo si possa vedere presto anche in Italia.

Voto: 8


Sabato 10 agosto, terza giornata

Concorso Internazionale 
Our Sunhi di Hong Sang-soo

oursunhilocarnoArriva dalla Corea del Sud la prima sorpresa del festival e il merito appartiene al regista Hong San-soo e al suo "U ri Sunhi" collocatosi in questa terza giornata del concorso ufficiale con una leggerezza che fa da contraltare alla drammaticità e alla cupezza degli altri concorrenti. Il film racconta la storia d'amore e d'amicizia tra quattro personaggi: al centro dell'attenzione c'è Sunhi, laureata in cinema e in procinto di partire per l'America per dare seguito agli studi. Accanto a lei un trio di uomini che rappresenta il passato e il presente del suo vissuto: Choi il professore alla quale Sunhi si rivolge per ottenere una lettera di raccomandazione, Munsu l'ex ragazzo che non ha smesso mai d'amarla e, ancora Jaehak, il regista con cui si è diplomata. Il destino li porrà uno sulla strada dell'altro facendo tornare in gioco situazioni irrisolte e speranze di futuro che la ragazza mette in circolo all'insaputa dei tre uomini, ognuno dei quali convinto di conoscerne i sentimenti e di esserne il fulcro dei pensieri.
Partendo da un'esperienza personale - il regista è stato un insegnante di cinema e come Choi si è imbattuto in una studentessa che, come ad un certo punto accade a Sunhi, gli contestò i contenuti della referenza che lui le aveva scritto - Hong trascolora la realtà trasformandola in una sorta di favola morale in cui situazioni e personaggi più che vivere di vita propria sembrano il condensato di uno stato d'animo e di una visione del mondo incomprensibile e sfuggente, che il regista però riesce a sdrammatizzare anche nei momenti più drammatici con ironia sottile e sarcastica, depotenziando ansie e dolori attraverso un mix di comicità dai tratti surreali e persino slapstick; gli attori sono guidati in una recitazione sul filo del rasoio, sempre sul punto di esplodere in una fisicità buffa e fuori controllo. Immergendo il cast in un mondo colorato e sospeso, con la natura edenica e rumori quasi assenti, Hong Sang-soo sviluppa il film attraverso una serie di quadri organizzati con un gusto della rappresentazione fortemente teatrale e nella costante ricerca di equilibrio tra ambienti e figure umane. Ed è proprio il contrasto tra la compostezza dell'insieme con il tumulto e le incertezze dell'animo umano a favorire quella sensazione di stralunamento che i personaggi riescono a far percepire a chi li guarda. Costruito su una sceneggiatura circolare che ruota continuamente attorno al tentativo maschile di definire ed imbrigliare senza successo il mistero femmineo - credendo di interpretare i tratti salienti della ragazza i tre uomini non faranno altro che prestarsi definizioni frettolose e poco calzanti - "U ri Sunhi", attraverso il rapporto tra la protagonista e i suoi pretendenti, sembra volerci dire che la realtà più che interpretata va presa così com'è, e che a volte il cinema ed i suoi autori farebbero meglio a tornare alla semplicità delle origini, per ritornare a guardare realmente l'oggetto del proprio desiderio.

Voto: 7.5

Concorso Internazionale
Gare du Nord di Claire Simon

Uno dei rischi dello scrivere di cinema è quello di scadere nella banalità, parlando in maniera scontata di cose risapute. Responsabilità del recensore, certamente, ma non solo, perchè a volte il peccato è il frutto di un concorso di colpe in cui c'entra molto la materia del contendere. Prendiamo per esempio un'opera come "Gare du Nord", di Claire Simon, primo film francese in concorso alla mostra, atteso da una sala gremita e trepidante. Le luci si spengono, lo spettacolo incomincia. Sullo schermo la stazione francese, persone che s'incrociano e i binari del treno ad annunciare la prossima partenza. Il film però prende una direzione opposta, invece di partire resta ad osservare quello che succede. Si mischia al flusso umano per guardarlo in faccia alla ricerca di possibili risposte sul malessere sociale che attraversa la Francia e il resto del mondo. Entra nei negozi, ne osserva i clienti occasionali, parla con la polizia impegnata ad impedire l'ennesima violenza, e poi entra in confidenza con il popolo di emarginati, immigrati soprattutto, che ogni giorno frequentano quel luogo con la speranza di non tornarci più. Un microcosmo emozionale a cui si sovrappone il vissuto di Mathilde, professoressa della Sorbona in attesa di un complicata operazione, e di Ismail, studente impegnato a raccogliere dati per una ricerca universitaria, ma anche la disperazione di Sacha affranto per la scomparsa della figlia e la stanchezza di Joan, costretta a viaggiare da Parigi a Lille per motivi di lavoro. "Gare du Nord" organizza per loro una ronda in cui tra incontri e qualche scambio di battute troveranno il modo di condividere le propria esistenza con il mondo che la circonda.
Strutturato come un film ad episodi, con gli inserti relativi ai singoli personaggi destinati ad incrociarsi sulla scia di un'onda emotiva che farà cadere chiusure e diffidenze, "Gare du Nord" appare indeciso sul registro narrativo, puntando inizialmente sul cinema d'inchiesta, con le interviste di Ismail ai giovani diseredati e gli squarci di realismo offerti dai pedinamenti della telecamera realizzati in stile documentaristico (camera a mano, movimenti sincopati, andamento frammentario) per poi diventare quasi classico quando a prendere il sopravvento saranno motivi più intimi e personali come quelli che faranno innamorare Mathilde e Ismail. Pesa soprattutto l'evidenza di una denuncia programmatica, che forza la sceneggiatura a scelte artificiose come quella di costringere tutti i personaggi ad acquisire una natura militante e indignata nei confronti del sistema, diluendo il pathos scaturito dalla visione della crisi con un accumulo di storie "esemplari" che dovrebbero legittimare la morale della storia ed invece la riducono a semplice stereotipo.

Voto: 5


Venerdi 9 agosto, seconda giornata

Concorso Internazionale
When Evening Falls on Bucharest or Metabolism di Corneliu Porumboiu
Exhibition di Susan Hogg

exhibitionlocarnoIn una giornata monopolizzata dall'elegante e fascinosa presenza di Faye Dunaway, icona della New Hollywood ed attrice di film spartiacque come "Bonnie & Clyde" (1967) e "Chinatown" (1974), la seconda giornata del concorso internazionale ha proposto due film che pur seguendo percorsi differenti interrogano e si interrogano sul rapporto tra l'arte e la vita. Il primo "When the Night Falls on Bucharest or Metabolism" è diretto da Corneliu Porumboiu, punta di diamante insieme a Chistian Mungiu e Calin Netzer ("Il caso Kenerenes", 2013) del nuovo cinema rumeno, il secondo,"Exhibition" è firmato dalla regista londinese Joanna Hogg, rivelatasi grazie al buon successo di critica ricevuto dal sua opera seconda "Archipelago" del 2010.
Porumboiu  racconta il rapporto tra un regista e la sua attrice: i due stanno girando un film e, nell'intervallo delle riprese, discutono sul modo di realizzare le singole scene. Lui è attaccato alla realtà, la vorrebbe "metabolizzare" portandola davanti alla macchina da presa così com'è, senza escludere niente, comprese le pause e i tempi morti. Lei si offre come interlocutrice paziente ed attenta, "umile ma non servile" come avrebbe detto Sergio Castellitto, appena ascoltato nella sua Masterclass. Discutono, approfondiscono, ripetono i gesti all'infinito, e nel frattempo fanno i conti con le rispettive emozioni, con gli amplessi rubati al rigore del loro impegno. Susan Hogg al contrario ci porta dentro l'abitazione di H. e D. una coppia d'artisti alle prese con le conseguenze emotive scaturite dalla decisione di vendere l'abitazione che ha visto crescere e poi affievolirsi la loro ventennale relazione. Alla ricerca di un nuovo inizio e di nuove idee analizzate ed approfondite nei rispettivi atelier, i due condividono un'esistenza fatta di lontananze ed improvvisi riavvicinamenti. Il primo è razionale, sicuro di sé e voglioso di mostrare il proprio talento al resto del mondo, la seconda è chiusa, istintiva, continuamente attraversata da dubbi ed esitazioni. La casa, dislocata su più livelli ed articolata su diversi spazi, finisce per essere una rappresentazione della loro dimensione mentale. L'unico modo per poterla abbandonare passerà attraverso la presa di coscienza di quello che è stato e di quello che sarà. Divisi nello stile, con Porumboiu abbonato a una regia che predilige interminabili piani sequenza, e un montaggio sporcato da raccordi volutamente sincopati, al contrario della Hogg, formalmente ineccepibile e tecnicamente asettica nella messa in scena di sequenze dalla pulizia visiva cristallina, le due opere si assomigliano non poco. Entrambi, infatti, concepiscono lo spazio scenico come rappresentazione di ciò che normalmente rimane fuori campo. Nel caso di Porumboiu quello che precede il ciak cinematografico: non solo le prove di cui il film ci da conto in maniera a dir poco ossessiva, con il regista chiuso in una camera d'albergo che fa mimare all'attrice le movenze di una doccia virtuale, ma anche le discussioni sul cinema, con teorie e dettagli tecnici prelevati direttamente dall'esperienza personale; come accade nella scena iniziale in cui il protagonista per conto del regista mette in luce i limiti di un mezzo cinematografico che lo obbliga a tagliare la lunghezza delle singole sequenze, con vicissitudini di ordine amministrativo a far da corollario all'empasse lavorativo che affligge il tormentato protagonista. In "Exhibition" a far la parte del leone è il luogo della creazione rappresentato dalle stanze della splendida abitazione dove D e H in una sorta di empatia con la perfezione architettonica della struttura alloggiativi che li ospita mettono in luce i primi germogli di un ispirazione che troverà successivamente asilo nelle gallerie d'arte e nelle esposizioni, e che soprattutto per la donna ha molto a che fare con l'estetica del corpo, utilizzato come catalizzatore di pulsioni e di nevrosi. Liberi da motivi di ordine commerciali e girati secondo un estro personale che nel caso della regista inglese ha molto a che fare con l'improvvisazione attoriale, e con la mancanza di un vero e proprio copione (Viv Alberatine chitarrista e cantautrice e Liliam Gillik, artista concettuale si sono prestati per la prima volta alla recitazione e sono stati ingaggiati 10 giorni prima delle riprese) le due opere sfidano lo spettatore da un punto di vista fisico (Porombiu) ed intellettuale (Hogg) costringendolo a confrontarsi con un cinema che difficilmente incontrerà nelle sale cittadine. Esclusivi e distanti "When the Night Falls on Bucharest or Metabolism" ed "Exhibition" confermano pregi e difetti dei film festivalieri, collocandosi in una terra di mezzo che rischia di escluderli da altri tipi di visibilità.

"When Evening Falls on Bucharest or Metabolism" voto: 6
"Exhibition" voto: 6 


Giovedi 8 Agosto, prima giornata

Piazza Grande
Vijay and I di Sam Garbarski

vijaylocarnoQualche anno fa Sam Garbarski era stato oggetto di improvvisa attenzione grazie a "Irina Palm", film da lui diretto e presentato al festival di Berlino nel 2007. La storia di una Marianne Faithfull matura e costretta a lavorare in un locale a luci rosse della capitale inglese per far fronte alla mancanza di soldi aveva commosso ed insieme imbarazzato pubblico e critica. A sei anni di distanza il quotidiano periferico dei sobborghi londinesi cede il testimone al cosmopolitismo di una New York benestante e borghese per raccontare con i toni da commedia le vicissitudini di un talentuoso attore (Moritz Bleibtreu), incompreso nel lavoro ed ignorato dai propri familiari che un bel giorno si ritrova ad assistere al proprio necrologio, celebrato da giornali e televisione che lo credono vittima di un pauroso incidente stradale. Ovviamente si tratta di uno scambio di persona ma Will ne approfitta per cambiare identità, cogliendo l'occasione del proprio funerale per presentarsi a moglie ed amici con il nome di Vijay, amico indiano del defunto. Il pretesto di ascoltare i commenti sulla propria persona diventa l'opportunità per disfarsi dei vecchi schemi nel tentativo di alzare il livello di autostima e riconquistare la propria famiglia.
Strizzando l'occhio al Peter Sellers di "Hollywood Party" ricordato nella mise ed anche nei modi dal travestimento del protagonista, "Vijay and I" parte inizialmente come una commedia degli equivoci incentrata sul tema del doppio, con Will/Vijay saltimbanco esistenziale chiamato a tenere insieme i diversi aspetti della nuova personalità. Successivamente si trasforma in una sorta di apologo sui problemi della vita coniugale e sul recupero della passione e della sensualità che per Will e la moglie Julia (Patricia Arquette) avverrà attraverso l'inedito "triangolo", con Will e Vijay a contendersi il talamo della presunta vedova. Se i due momenti del film si completano a vicenda, con la prima parte sicuramente più efficace per la malinconica simpatia che Bleibtreu riesce a trasmettere al suo personaggio, il problema di "Vijay and I" risiede nella poca originalità e nella mancanza di brillantezza con cui il regista e gli sceneggiatori mettono in scena questo ritorno alla vita, affidato a situazioni già viste, tanto nelle dinamiche tra il protagonista e il resto dei personaggi (il rapporto tormentato con la figlia adolescente, la saggezza dell'amico strambo ma dal cervello fino, la crudeltà del mondo dello spettacolo rappresentato da un manager distratto interpretato dal Michael Imperioli de "I Soprano") quanto nella costruizione - superficiale - delle ragioni che dovrebbero leggittimare il riscatto di Will, legati quasi esclusivamente all'esotismo del suo mascheramento che ad una sostanziale presenza di nuovi contenuti. In questo modo il lavoro di Garbarski procede senza alcuna sorpresa, inanellando una serie di sequenze aneddotiche e autoconclusive. Valga come esempio quella dell'incontro tra Vijay e i genitori (ebrei) di Julia, risolta all'insegna del luogo comune, con l'ossessione per le speculazioni finanziarie e l'ostracismo nei confronti del marito della figlia prelevate direttamente dai tormentoni di Woody Allen. Per Sam Garbarski dopo la gloria di "Irina Palm" il rischio è quello di un ritorno all'anonimato.

Voto: 5

Concorso Internazionale

El mudo di Daniel e Diego Vega

elmudolocarnoNon capita tutti i giorni di imbattersi in un'opera proveniente dal Perù. L'occasione ce la dà il primo film del concorso ufficiale, "El mudo" dei fratelli Daniel e Diego Vega. Il titolo (il muto) allude alla condizione del giudice Constantino Zegarra, colpito al collo da una pallottola vagante, e per questo privato dell'uso della parola. Convinto che l'episodio non sia stato un semplice infortunio ma che qualcuno abbia tentato di toglierlo di mezzo, il giudice inizia un'indagine personale alla ricerca di una plausibile ragione.
Frutto di una coproduzione tra Cile, Messico e Francia, "El mudo" è un film incentrato sulla faccia dell'attore protagonista, e su un'impassibilità che ricorda per certi versi quella enigmantica dei personaggi a cui Takeshi Kitano ha prestato il volto. Qui, però, c'è di mezzo la critica sociale, ed in particolare la messa a fuoco delle contraddizioni di un paese in fermento per il momento magico della sua economia (sentiamo più di una volta resoconti radiofonici sull'andamento della borsa) ma tutt'ora penalizzato dalla mancanza di un'equità che il sistema giudiziario, con le sue disfunzioni, non riesce ad assicurare. Ed è proprio la scelta di presentarci una maschera più che un personaggio, combinata a una trama in cui elementi del reale si mescolano ad episodi immaginati (su tutti la scena finale con il giudice che balla accogliendo tra le proprie braccia la madre assassinata vent'anni prima) che permette alla storia di assurgere a parabola esistenziale della vita umana. Uno scenario esaltato dalla decostruzione delle certezze che la storia ci pone nelle sue premesse, con Constantino dapprima presentato con caratteristiche di solidità ed equilibrio, e poi dopo l'infortunio, progressivamente precipitato in una realtà che per primo contribuisce a deteriorare, tradendo la moglie con una collega d'ufficio e poi abusando del suo potere per farsi giustizia nei confronti del presunto nemico. Visivamente curato, con inquadrature che enfatizzano la solitudine del personaggio, incorniciandolo all'interno di elementi archittetonici desunti dall'ambiente, "El Mudo" si racconta sotto forma di aneddoto, trasmettendo un disagio fisico che arriva allo spettatore attraverso la mancanza d'informazioni che i due registi volutamente gli sottraggono. Dopo "Octuber" vincitore del premio della giuria nella sezione Un Certain Regard nell'edizione del Festival di Cannes del 2010, i fratelli Vega realizzano un'opera seconda sin troppo diligente ma capace di mantenersi lontano da facili retoriche.

Voto: 6.5

chatrianlocarno2

Sensazioni festivaliere scaturite dal piacevole spaesamento che immancabilmente accompagna il primo impatto con il programma di una manifestazione cinematografico. Titoli di film e nomi di registi si susseguono davanti agli occhi come le tappe di una corsa disegnata su una carta topografica; da approfondire quel che basta per poterle riconoscere quando il fischio d'inizio darà il via alla gara. L'impulso è quello di affidarsi a ciò che è conosciuto, punti di riferimento utilizzati per non smarrirsi e da cui partire alla scoperta del nuovo. Una dimensione abitudinaria, ed al tempo stesso eccezionale, che il nuovo direttore della manifestazione Carlo Chatrian contiene e sintetizza. Perchè se è vero che il critico piemontese è una scelta all'insegna della continuità, avendo già fatto parte della squadra del dimissionario Olivier Père, è pur vero che esserlo in veste di primo responsabile rappresenta un inedito nel segno della scommessa e del rinnovamento. Per cercare di esserne all'altezza, Chatrian ha sposato la tradizione, continuando sulla scia di una tendenza che da sempre si esprime senza pregiudizi, e con un'attenzione che mette insieme e fa convivere cinematografie poco conosciute - parliamo per esempio della rassegna "Open Doors" che ogni hanno sponsorizza e aiuta film dell'Est e dal Sud del mondo e che in questa edizione presenta registi e opere realizzate nel Caucaso del Sud, con opere provenienti da Armenia, Azerbaigian e Georgia - e realtà consolidate: dal mainstream più commerciale che quest'anno vedrà in prima fila "Cani sciolti" di Baltasar Kormákur ("Contraband", 2012), con Denzel Washington e Mark Wahlberg a contendersi la copertina della star più in voga del momento, ma anche il nuovo "About Time" di Richard Curtis con Rachel McAdams, e poi Jennifer Aniston in versione stripper ne "We're the Millers" di Rawson Marshall Thurber, ad art house movie del calibro di "Fitzcarraldo" firmato Werner Herzog, quest'anno premiato con il Pardo d'onore, e "Ricche e famose" del grande George Cuckor, a cui è dedicata una ricca retrospettiva.

Coordinate di segno opposto destinate a dialogare anche nel concorso internazionale (20 opere di cui 18 presentate in prima mondiale), quello da cui verrà fuori il vincitore, cesellato a misura di cinefilo con film incaricati di tenere alta la tensione per la presenza di personaggi discutibili come l'ex brigatista Giovanni Senzani, sodale di Pippo Delbono in "Sangue", opera seconda dell'artista ligure ancora una volta realizzata utilizzando uno smartphone, e di fantasmi mai sopiti come quelli che agitano la rilettura e le immagini di un'Italia fascista e coloniale ne "Pays Barbare"di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, finalmente promossi ai livelli che gli competono. C'è poi la voglia di sperimentare e di aprirsi a nuove strade che appartiene di diritto a Julio Bressane, uno dei maggiori esponenti del cinema "Marginal" brasiliano ed al suo "Educacao Sentimental", ma anche all'Albert Serra di "Historia de la meva mort", con registi come Corneliu Porumboiu, i fratelli Daniel e Diego Vega, Kiyoshi Kurosawa e Tso-chi Chang a contendersi il primato di uno sguardo fuori dagli schemi. Visuale che appartiene sicuramente a "Wrong Cops" dell'americano Quentin Duplex con Marylin Manson in veste d'attore, così come a "Une autre vie" di Emmanuel Mouret, commedia sentimentale interpretata dalla nostra Jasmine Trinca, ormai habituè del cinema d'oltralpe.

Per chi ama il divismo non mancano i nomi di grido, che a parte quello di Herzog, nume tutelare della rassegna di cui abbiamo già detto, vedranno sotto i riflettori un attore popolare come Sergio Castellitto, premiato alla carriera, e poi ancora Jaqueline Bisset (Lifetime Achievement Award) ed Anna Karina ad omaggiare una femminilità affascinante e ricercata, il principe dell'horror Sir Christopher Lee, e per finire Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali che abbiamo conosciuto ed ammirato nell'odissea kubrickiana. Del cinema italiano abbiamo in parte già detto. Alla sparuta rappresentanza che si è andata delineando nel corso della presentazione, bisogna aggiungere fuori concorso "La variabile umana" di Bruno Oliviero, poliziesco anomalo per la presenza di corpi da "ridere" come Silvio Orlando e Giuseppe Battiston, ed il doc di Andrea Segre "Indebito" con Vinicio Capossela ed il blues greco a farla da padrone. Il resto come sempre accade è ancora tutto da scoprire.





66° Festival del film di Locarno: la versione di Carlo