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recensione di Pietro S. Calò
9.0/10
In un futuro imprecisato e un luogo indefinito, due signorie delle guerra, la euro-giapponese Rostock e l’americana Lautern, si combattono con la sola forza aerea. Il conflitto pare in perenne equilibrio talché l’equilibrio pare lo scopo del conflitto. Per tutti, tranne che per il maggiore Kusanagi che comanda uno degli stormi con la forza e la convinzione di una vittoria finale.

Per chi segue il cinema di Oshii Mamoru, il nome Kusanagi fa subito venire un brivido.
Non sembra una semplice omonimia col maggiore Kusanagi Motoko. Lo si capisce dalla sua prima apparizione, una bambina quasi perfettamente uguale a quella del finale di "Ghost in the Shell" e alla bambola che Togusa regala a sua figlia nel finale di "Ghost in the Shell: Inosensu" cui rimanda soprattutto nel suo sguardo a occhi spalancati e ambigui.
In effetti, i tre anime hanno molti punti in comune, a partire dallo stesso tipo di attacco: nel primo Ghost l’incipit è un sorvolo aereo della città prima dell’attacco del maggiore Motoko; il secondo riprende lo schema e introduce l’attacco di Batou; ne "I cavalieri del cielo" assistiamo a un vero e proprio duello aereo. In tutti i tre casi, a missione compiuta partono le sigle, tutte composte da Kawai Kenji.
In una prospettiva temporale, invece, Kusanagi Suito potrebbe essere la genitrice di Motoko perché l’ambientazione del film (che diventerebbe un prequel) è un futuro più prossimo rispetto ai due Ghost come si inferisce dai soggetti in azione: nei Ghost sono già dei cyborg; nel film in oggetto sono protagonisti invece i Kildren, uno status intermedio, ambiguo e non facilmente riconoscibile salvo la totale aderenza al modello umano esclusa la bizzarria di non riuscire a crescere oltre l’adolescenza e di non poter morire se non in battaglia aerea. Cosa effettivamente siano e chi essi siano si scoprirà man mano che il film procede.
Kusanagi Suito, qualunque cosa sia, si distingue per almeno due particolari: è l’unica a vivere interrogandosi sulle cose invece di ignorarle o compierle ritualmente e ha una figlia (che non si chiama Motoko ma Mizuki) che ha avuto con Jin-Roh, il pilota scomparso misteriosamente e che è sostituito dal protagonista del nostro film, Kannami.
Una terza affinità che appare nei tre film è, infine, il ghost che "stricto sensu" sarebbe il fantasma, figura aleggiante nel nostro film e non si tratta solo di Jin-Roh, e il suo senso lato di "sede dello spirito o meglio della coscienza umana" come ebbe a definire Cartesio la ghiandola pineale, vale a dire la più protetta materia umana, incuneata tra i lobi del cervello, oppure quella più inaccessibile, rivestita dal titanio, che i cyborg chiamano appunto ghost. Tutti i nostri eroi hanno comunque un rapporto molto complicato con la loro esistenza, sempre messa in dubbio, in una curiosa sciarada che mette insieme Cartesio e Camus, largamente citati in tutti i tre episodi.
Se tre indizi fanno una prova, possiamo parlare infine di una trilogia.


Spiazzamenti

Nel film, gli elementi esteriori, le facce innanzitutto, non hanno nulla di giapponese: esse sono caucasiche. La stessa Suito assomiglia sì a Motoko, è lei, nella frangetta nera con gli occhioni che la fanno tanto "canone anime" ma il suo corpo è pre-puberale, manca di qualsiasi tensione sessuale, quell’eccesso di curvature col quale l’animazione giapponese rappresenta in gran parte l’adolescenza tentatrice, quella che noi europei abbiamo confinato nella quasi unica figura della Lolita di Nabokov e del corrispondente film di Kubrick.
L’architettura, ancor di più, è di struttura squadrata e desolante, non pende come quella estremo-orientale e molto ricorda l’Oshii in trasferta in Polonia, dove ha girato "Avalon".
La brughiera, entro cui scorazza l’immancabile Gabriel, il bassotto di Oshii, (non) è tagliato all’irlandese ed è molto presente in inquadrature basse come contrasto al preponderante e inquieto cielo.


Battaglie in cielo


Il nostro immaginario, da Hiroshima a oggi, è fortemente incentrato sull’immagine della forza aerea il cui compito si limita in realtà alla ricognizione-intercettazione oppure al bombardamento di obiettivi sensibili in quasi totale sicurezza per poi tornare alla base come un lavoro di concetto. Da questo punto di vista, la tele-guida dei droni ne rappresenta una evoluzione anche un po’ inquietante, di cui magari un giorno Oshii si occuperà. I combattimenti sono semmai dominio degli elicotteri d’assalto i quali si svolgono in uno spazio spurio, a mezz’aria e puntando a terra e sono una realtà così cruenta da essere poco documentata.
“I cavalieri del cielo” è al contrario una storia di combattimenti aerei a quota medio-alta i cui piloti non per nulla sono cavalieri. Guidano, si destreggiano, sparano dalle mitragliatrici. I loro sono aerei a doppia elica, quelli degli scontri cavallereschi di inizio 900. La memoria va ai pionieri ante-seconda guerra mondiale e alla rappresentazione che ne volle fare Howard Hughes ("Gli angeli dell’inferno", 1930): quattro anni di produzione, 560 ore di negativo, quattro milioni di costo, cinque telecamere aggiuntive chieste in prestito a Samuel Goldwyn (o almeno questo dice Scorsese in "The Aviator", 2004).
Difficile dimenticare l’anime di Miyazaki, "Porco rosso" di ambientazione italiana e fascista ma narrato al modo dei pionieri con tanto di combattimenti a colpi di chiavi inglesi in alta quota. D’altra parte il cielo, nel film di Miyazaki, è statico con nuvole grasse come bomboloni e spesso perde il confronto con il Mediterraneo che, ai suoi piedi, la vince in fascino. Nel nostro film è invece protagonista, come fosse una serie di Luigi Ghirri.
In una storia che è indeterminatezza e coazione ripetitiva, l’intro è una sorta di mozzafiato: un duello aereo sembra avere in un solo secondo spazzato via la quiete degli elementi e ha spappolato le nuvole che si sono allargate a macchia e confuse col cielo nel mentre due aerei ne fronteggiano un terzo e il terzo si distingue come l’unico elemento dominante, evocato prima di essere visto in un solo particolare straniante: una pantera serica serigrafata sulla carlinga. È Il Professore e contro di lui si perde sempre. La sigla iniziale sembra così il finale di un film che non abbiamo visto o che, meglio, andremo a rivedere circolarmente. La de-saturazione dei colori e gli elementi messi in disordine sono appena contrastati dalle tracce delle mitragliatrici e dai globi delle esplosioni di un arancione a più sfumature che le rendono molto simili al fuoco reale, se reali possono definirsi i traccianti della contro-aerea irakena nella prima guerra televisiva del mondo, quella del Golfo atto I.


Inferno in Terra


In una storia che è alternanza meccanica tra vita a terra e guerra in cielo, il gioviale Naofumi Tokino è l’unico personaggio portatore sano di adrenalina (gioia e paura), tra l’eloquenza flemmatica di Kannami, il piglio autoritario di Kusanagi e l’acidità centellinata della "mamma" (il meccanico che si occupa degli aerei). Non a caso viene ricordato Camus, il filosofo per il quale gli avvenimenti che fanno una vita non sono altro che registrazioni di vanità destinate alle sconfitta. Per quanto bambini, i Kildren non sono incoscienti ma semmai fin troppo consapevoli del loro destino che attendono bevendo e fumando in ogni momento e aspettando il turno della loro morte come un gioco sicché la Morte è nient’altro che il Professore che nel suo status di semi-divinità si manifesta con singole qualità e mai per intero: la pantera nera rampante, le incursioni fulminee, l’urlo disperato che lo evoca appena un secondo prima di soccombere. Eppure Kusanagi, in una missione suicida, ne sopravvive perché tenere testa all’Iniquo è un sogno vecchio dell’Umanità.
Quando non sono in missione, il corpo-piloti si ritrova al "Daniel’s Dinner", un perfetto non-luogo in cui un vistoso gestore ebreo fa da moderatore tra il mondo-Kildren e gli adulti, i beneficiari della guerra eterna, quella che assicura la Pace (qui i riferimenti ai tempi nostri si sprecano). In realtà il pacifico signor gestore, come nelle migliori tradizioni del Witz, sembra anche il procuratore del bordello che ci porta alla ribalta la gioviale Kusumi che fa coppia con il gioviale Tokino e l’indecifrabile Foko che dopo esser stata compagna di Jin-Roh si lega immediatamente all’appena arrivato e come lei indecifrabile Kannami. Figura riuscitissima, Foko si distingue in una storia dominata dagli "stati psichici" per una sua sospensione pneumatica, di totale assenza rispetto alle cose del mondo e ai suoi dolori. La civetta stilizzata e ad ali aperte che sfoggia sul petto, la fanno insieme creatura della notte e persona cara alla dea della Sapienza, essa stessa sapiente.
Foko, si scoprirà, ha avuto il ruolo di sensale tra Jin-Roh e Kusanagi, da cui è nata una bambina: ha insomma giocato una sua carta che sarà probabilmente un’altra storia.
Così, arriviamo finalmente al bordello (malvisto dalla "mamma", come impone il suo ruolo) e vi si accede infatti tramite una selva oscura, sterzando bruscamente dalla diritta via in una stradina sterrata e ballonzolante: il regno di Foko (e di Kusumi). Siamo passati dall’arancione della guerra, attraverso lo squallore di una bettola scura di legno invecchiato, alla ricognizione minuziosa di tutte le tonalità del rosso, lontano dall’indeterminatezza delle guerre in cielo: accappatoi, lampade, tappezzerie, tavolini da tè… costruiscono lo spazio sessualizzato di un orgasmo che non è gioia né scarica; semmai una distrazione cromatica.
Quando, inopinato, il bellico arancione compare a terra, in un hangar, sotto forma delle scintille di una riparazione, Kannami ha un moto quasi isterico di protezione della piccola Mizuki cui sono subito imposti degli occhiali neri dai quali, protesta lei, non vede più nulla. In tutto ciò, la colonna sonora di Kawai Kenji a differenza dei due Ghost (in special modo il II) riecheggia essenzialmente nel tema malinconico iniziale e variamente riproposto, una composizione già passata, storicizzata, come un ineluttabile già successo e destinato a ripetersi per sempre. 


Parole, gesti e l’eterno ritorno


Se i "Ghost" sono caratterizzati da una alluvione di frasi apodittiche e citazioni (a volte pedanti), nel nostro film l’apatia ha ammantato tutto come coscienza di morte. Il ralenti delle due mani che si cercano e si trovano, quelle di Kusanagi e sua figlia, ripropongono così un momento di suggestione giustamente dilatato, come un gesto di ribellione muta, un destino già scritto… per che cosa? L’Umanità che stanno salvaguardando è vista in dettagliata rassegna durante una visita dei civili allo stormo di Kusanagi. Senza essere crudeli, diciamo che si distingue per una insignificanza che non giustifica alcun sacrificio. Ancor prima dei Social Network, riprendono gli hangar e intervistano Kannami con telecamerine in quello che appare un gioco sì ma di ruolo, adulto in senso deteriore. Poco più avanti, un aereo abbattuto (di provenienza imprecisata, a voler dire che la guerra è frammentata, un tutto contro tutti) raccoglie un pubblico che si lancia in una pietà falsa e manierata. Lo sdegno di Kusanagi, accorsa anche lei, si manifesta in un topos del cinema di Oshi: la ragazza cambia improvvisamente sguardo che si spalanca e diventa cattivo, inveisce contro gli ipocriti ed è fermata da una sorta di poliziotto che allarga le braccia a mo’ di alt come a voler significare il netto confine tra il mondo dei Kildren e quello adulto. E quello che conta è proprio quest’ultimo.
Poi qualcosa cambia.
La ricognizione notturna col tema arpeggiato di Kawai azzera i rumori dei rombi del motore e nell’assenza di nuvole squarcia un cielo sgombro e violaceo come un immenso livido. Le luci calde del pannello di controllo e la pacifica illuminazione notturna degli agglomerati urbani operano una nuova inversione, un transfer questa volta; così il tema del film diventa incerto e in questo cortocircuito si apre l’opzione del tragico. Su, in alto, i Kildren procedono lentamente, quasi ieratici, con nobiltà. Giù, nel mondo, l’Umanità dorme innocente e incosciente, vegliata dai bambini.
I Kildren stanno raggiungendo un quartier generale dove sarà pianificato un pomposo "Attacco Risolutivo" ma che, in inversione, li riporta una volta atterrati ai bambini che sono, in una festa con pop-corn, giostre e ammiccamenti pre-adolescenziali.
Qui compare Mitsuya, la kildren-pilota che non sa di esserlo o meglio che non se ne rassegna, il che equivale all’Ultimo Tabù. Oshii, dopo aver descritto senza freni, avverte il momento di stringere e diventa quasi didascalico. Si dichiarano le cose non dette: le immagini della guerra non bastavano più, era necessario che l’Umanità le vivesse sulla propria pelle. E, con una ultima inversione, dopo tutte quelle viste in aria, il tema ridiventa finalmente giapponese sicché non è questione, all’europea, de "i figli che uccidono il padre" ma del Professore che annienta le sue creature. E così altri Kannami arriveranno alla base, forse riconosciuti forse no, sempre flemmatici, consapevoli appena di essere nati per morire il che è, dopotutto, la Condizione Umana, da Oporto a Tokyo.
"I cavalieri del cielo" è tratto da una serie (cinque) di romanzi omonimi di Mori Hiroshi.
Presentato alla 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è tuttora in attesa di una distribuzione in sala. Nel 2010 è stato trasmesso su Rai4.
25/05/2016

Cast e credits

regia:
Mamoru Oshii


titolo originale:
Sukai Kurora


distribuzione:
Sony Pictures Entertainment


durata:
122'


produzione:
Nippon Television Network (NTV) - Production I.G. - Warner Bros


sceneggiatura:
Hiroshi Mori (romanzi) - Chihiro Itô (adattamento)


fotografia:
Hisashi Ezura


montaggio:
Junichi Uematsu


musiche:
Kenji Kawai


Trama
In un futuro imprecisato e un luogo indefinito, due signorie delle guerra si combattono con la sola forza aerea. Il conflitto pare in perenne equilibrio talché l’equilibrio pare lo scopo del conflitto.
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