animazione, musicale, drammatico | Giappone (2024)
Naoko Yamada è - o almeno, chi scrive ha sempre avuto questa impressione - uno di quei classici esempi, nel mondo del Cinema, dove il pubblico generalista si ricorda perfettamente di un suo film (in questo caso, "La forma della voce"), ma non saprebbe dire nome e cognome della persona che lo ha diretto, al massimo solo il genere, di fatto negando la natura autoriale dell'opera che comunque quello stesso pubblico non esiterebbe a definire un capolavoro.
Il che è un peccato, se si considera che la regista di Kyoto negli ultimi anni (soprattutto dopo l'incendio doloso che ha colpito la vecchia casa di produzione per la quale lavorava, la Kyoto Animation) sta portando avanti con successo una sua personale visione di animazione giapponese di cui, paradossalmente, "A Silent Voice" rappresenta solo una (prematura) tappa, mentre "I colori dell'anima", forse, un (temporaneo) punto di arrivo. Nelle righe che seguiranno, verranno analizzati i tre temi portanti dell'opera, ovvero: i concetti di forma/colore/suono e i relativi rapporti reciproci, gli occhi intesi come "specchio dell'anima" e, infine, la Religione intesa come "spiritualità" secondo Yamada.
[Allerta possibili spoiler]
Forma, colore, suono
Due dei tre macro-temi su cui il film si fonda vengono messi in chiaro fin dalla prima inquadratura e conseguente movimento di macchina. Una pozzanghera di luce a forma di fiore, proiettata dal sole che filtra attraverso una finestra colorata, su un pavimento che si capirà appartenere ad una chiesa cristiana, comunicano che si sta per assistere ad una riflessione sulla percezione umana e delle cose, nonché sulla loro dimensione spirituale. Segue una spiegazione da parte di Totsuko, protagonista del film, sulla sua peculiare caratteristica di "vedere i colori delle persone", ovvero i colori intrinseci (il titolo originale inglese è infatti "The Colors Within") della loro anima. Il secondo macro-tema, ovvero quello religioso-spirituale, verrà trattato più avanti, ora ci si concentrerà sul primo: la percezione umana delle cose. "I colori dell'anima" fa della sinestesia la sua figura retorica fondamentale, tanto da un punto di vista di significato (e quindi di contenuto) quanto da quello stilistico (e quindi di forma).
Il fiore di luce che apre il film ne è un chiaro esempio. Da un lato, si tratta sì di un insieme di colori ben definiti (che rimandano quindi ad una sensazione visiva) aventi una forma ben definita (richiamando quindi una sensazione non solo visiva ma anche tattile). Tuttavia, essendo la luce eterea per sua natura, quel fiore non può essere afferrato o annusato, bensì unicamente percepito attraverso alcuni sensi. Al contempo però nessuno metterebbe mai in dubbio che si tratti di un fiore, perché è così che esso si manifesta a noi.
Per rendere quest'idea di "percettività relativa", ovvero relativa solo ai sensi che entrano in gioco quando stimolati da impulsi esterni, contestualmente alla descrizione dei suoi "poteri" Totsuko inserisce una breve spiegazione divulgativo-scientifica su come i colori e le relative lunghezze d'onda elettromagnetiche vengano riconosciuti dall'occhio umano. Nel farlo, la protagonista ribadisce la natura (non solo, ma anche) ondulatoria della luce, chiarendo come le cose non abbiano colori di per sé, ma relativamente alla parte di spettro visivo che assorbono e/o riflettono. L'operazione che Yamada cerca di portare avanti con la pellicola è quindi quella di invitare lo spettatore a percepire le cose non assecondando soltanto un senso, bensì utilizzandone molteplici simultaneamente per coglierne un significato più profondo.
Si riporta di seguito un altro esempio rilevante presente all'interno della pellicola: Totsuko durante il film entra a far parte di una band, che oltre alla protagonista, che suona il piano, si compone di Kimi come chitarra e voce e Rui come "tuttofare". Tra i vari strumenti che Rui suona per il trio c'è anche (e soprattutto) il theremin. La scelta non è casuale: non prevedendo nessun contatto fisico con il musicista, infatti, questo particolare tipo di sintetizzatore sfrutta la distanza delle sue antenne dalle mani dell'utilizzatore per produrre suoni, e le mani di Rui sono riprese in diverse posizioni mentre la musica viene riprodotta. Come a voler dire: nel suono del theremin il tatto ha una sua importanza, in qualche modo è come se esso fosse effettivamente usato, ma in una dimensione percettiva che va al di là della vista e che noi possiamo captare solo fondendo, "sinesteticamente", più sensi in uno.
Occhi come specchio dell'anima
Che gli occhi siano lo specchio dell'anima è detto comune, e di esempi nel panorama anime a testimoniarne l'importanza se ne possono trovare molteplici[1], ma la bravura della regista di Kyoto sta nella personale elaborazione del concetto e nel suo collocamento all'interno del proprio percorso autoriale. Per capire perché, si guardi all'opera di Yamada che immediatamente precede l'uscita de "I colori dell'anima" (se si esclude l'episodio numero 7 della serie TV "Modern Love Tokyo"), ovvero la miniserie animata "Heike Monogatari"[2]. Quest'ultima vede la luce nel 2022, l'anno dopo che anche un altro grande nome dell'animazione giapponese, ovvero Masaaki Yuasa con il suo "Inu-Oh", si era interessato a trasporre in immagini l'affascinante parabola di splendore e declino della famiglia Taira (non si tratta di un caso: entrambe le opere sono state infatti prodotte dallo studio Science SARU), scegliendo però un modo di raccontare differente rispetto a Yamada.
Se il primo ha infatti prediletto (come suo solito) uno stile narrativo fortemente sperimentale fin quasi da risultare respingente, la seconda ha optato per una scelta più classica e tradizionale, da non confondere però con "banale" o "semplicistica": quella di proporre una narrazione rarefatta, quasi senza ritmo, facendo fluire ogni episodio nel successivo e facendo risultare in un'opera a-storica uno dei racconti fondativi della cultura nipponica. Lo stile narrativo de "I colori dell'anima" è simile a quello di Heike Monogatari, come simili sono anche le protagoniste delle due opere, ovvero Totsuko e Biwa. Fin dalla sigla di apertura della miniserie ci si può infatti tuffare negli occhi di colore diverso di quest'ultima - blu e marrone per la precisione - e nel suo sguardo pieno di meraviglia e curiosità verso il mondo, tanto quanto può valere la stessa cosa per gli occhi dei personaggi di "The Colors Within". Se però in "Heike Monogatari" questi si limitano a sostituire le parole per descrivere i sentimenti della protagonista, ne "I colori dell'anima" fungono anche da strumento per una comprensione più profonda delle cose. Nel film sono infatti frequenti i primissimi piani sugli occhi di ogni personaggio (talvolta anche solo su uno di essi), mentre questi guardano fisso verso una fonte di felicità oppure fuggono evasivi da una fonte di disagio. Non è una coincidenza, infatti, che la protagonista all'inizio della pellicola dichiari "io non conosco il mio colore", ma a seguito dell'amicizia (forse qualcosa di più?) nata con Kimi e Rui, ella sia in grado di percepirsi rossa, poiché finalmente in grado di aprirsi agli altri e quindi di conoscere meglio se stessa tramite gli altri (in questo senso, "Evangelion" docet). Se quindi a Totsuko corrisponde il rosso, a Kimi corrisponde il blu: è proprio Totsuko a vederla così, secondo un perfetto cliché dicotomico degli anime che assocerebbe al colore caldo una personalità più decisa e sicura di sé mentre al colore freddo una personalità più remissiva ed insicura[3]. Occhi per percepire i colori, ma al contempo colori intrinsecamente associati alle cose, e quindi occhi per comprendere più a fondo le cose.
Figura 1: Dall'alto a sinistra in senso orario: Biwa coi suoi occhi eterocromi, Totsuko, quest'ultima in compagnia di Rui e Kimi, l'occhio destro di Kimi
Spiritualità e religione
In Giappone solo circa l'1,6% della popolazione è cristiano, ragion per cui nella stragrande maggioranza degli anime si vedono rappresentate religioni di stampo orientale come lo Shintoismo o il Buddhismo. La scelta del Cristianesimo, quindi, in un mondo dove storicamente questo ha fatto sempre molta fatica ad attecchire (Martin Scorsese con il suo "Silence" aveva reso bene l'idea) è, se non coraggiosa, sicuramente particolare, soprattutto perché è perfettamente al servizio del significato dell'opera nonché del percorso autoriale artistico di Yamada.
La motivazione più immediata viene fornita da "The Colors Within" stesso, in quanto ad un certo punto il film cita apertamente un versetto del profeta Isaia: "Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni […]. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo […]" (Isaia, 43-1 e 43-4). Di nuovo ritornano gli occhi, ovvero il senso della vista, come strumento di conoscenza del valore altrui, grazie al quale ci si può rendere davvero conto del colore intrinseco delle cose.
Poi, la musica, e quindi il senso dell'udito, per i cristiani sono di fondamentale importanza, in quanto efficaci mezzi di preghiera e connessione con Dio. Nel film Totsuko interroga una suora circa il vero significato di "canto liturgico", ovvero di quell'inno cantato durante le messe che favorisce la partecipazione di tutta l'assemblea dei fedeli. La risposta che ottiene è che non solo i canti felici bensì anche i canti tristi possono essere considerati liturgici, se a essi si partecipa col cuore. Fuor di metafora, con questo dialogo la regista suggerisce come, per assaporare appieno la vita, si debba accettare anche la sofferenza dei momenti tristi, "delle cose spiacevoli" dalle quali "non bisogna fuggire", per dirla con le parole di Hideaki Anno. E non è un caso, infatti, che proprio la sua opera più famosa si chiami "Neon Genesis Evangelion", (che in italiano può essere tradotto letteralmente come "Vangelo di una Nuova Genesi") e narri innanzitutto la storia di rinascita di un adolescente che, per riuscire ad accettare appieno la vita e quindi comprenderla più a fondo, deve prima imparare a viverla anche nei suoi momenti più difficili.
Infine, e questo è forse l'aspetto più interessante della concezione religioso-spirituale di Yamada, la regista non sembra interessata tanto alla religione Cristiana in sé, quanto piuttosto ad un concetto di Religione più ampio e totalizzante che possa trascendere lo specifico credo ed abbracciarne uno più "universale". A un certo punto del film Totsuko prega affinché le sia concessa la forza di "accettare ciò che non è in grado di cambiare". Questo precetto è fatto proprio anche da un personaggio chiave di "Heike Monogatari". In quest'opera, infatti, Tokuko, anche se inizialmente riluttante, finisce per accettare la volontà paterna di mandarla in sposa per fini politici e vivere con rinnovata serenità la sua nuova condizione di moglie, rinforzata anche dalla gioia per la nascita di un figlio. Ecco, quindi, che più che ad una specifica religione, Yamada sembra interessata a quegli aspetti comuni a tutte le religioni che le rendono condivisibili da ognuno, universali appunto, quasi come se la singola religione non sia poi così importante rispetto al concetto più ampio di Religione. Per "Heike Monogatari" era il Buddhismo, per "I colori dell'anima" è il Cristianesimo: un po' come se una valesse l'altra, quando si è in grado di coglierne i messaggi e abbracciarle con tutti noi stessi.
In conclusione, si fornisce un commento finale su una delle canzoni che compongono la colonna sonora del film, che, come è intuibile, riveste una certa importanza nel caso in esame. Picco assoluto del suo incedere è rappresentato dalla scena nella quale Totsuko e Kimi decidono di passare una notte insieme nel collegio femminile, di stampo cristiano ovviamente, frequentato dalla protagonista, per darsi man forte in un reciproco momento di solitudine. Nel mentre che le due amiche condividono alcune attività ricreative, la più simbolica delle quali è divertirsi a usare lo spirograph per riprodurre forme astratte adoperando penne dai molteplici colori (di nuovo, una metafora dei rapporti sinestetici insiti nelle cose), in sottofondo si sente un remix di "Born Slippy .NUXX" degli Underworld, ovvero di uno dei manifesti della musica rave anni 90. Che ciò avvenga nel silenzio notturno di un collegio femminile cristiano in Giappone è, per chi scrive, una delle scelte più geniali, creative e divertenti che Naoko Yamada potesse compiere per celebrare la complicità tra due amiche (ribadiamo: forse qualcosa di più?) e il prezioso legame che le unisce.
[1] Tanto per fornirne uno recente, in "Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time" Gendo Hikari, al culmine dell'avanzamento del suo piano per attuare il Perfezionamento, al loro posto ha una profonda ferita a forma di decusse, proprio per simboleggiare con maggiore forza il suo allontanamento dalla condizione umana, quindi dalla sua anima.
[2] Lett. "Il racconto della famiglia Taira". L'opera di Yamada è l'adattamento dell'omonimo poema epico, grossomodo l'equivalente nipponico di ciò che per noi occidentali può essere l'"Iliade" o l'"Odissea", e narra la storia (romanzata come da tradizione dell'epica) del clan Taira e dei suoi scontri con il clan rivale dei Minamoto nel Giappone del periodo Kamakura, culminati nella guerra Genpei degli anni 1180-1185.
[3] L'esempio più eclatante in questo senso è rappresentato dalla coppia Asuka Sōryū Langley (rosso) e Rei Ayanami (blu) in "Evangelion". Potremmo quasi dire che la scelta di colore degli occhi di Biwa in "Heike Monogatari" stia a rappresentare la convivenza e l'equilibrio di due caratteri opposti, quasi come fosse uno yin-yang che si manifesta tramite i suoi occhi.
cast:
Sayu Suzukawa, Akari Takaishi, Taisei Kido, Yui Aragaki, Aoi Yuki, Yasuko
regia:
Naoko Yamada
titolo originale:
きみの色 , Kimi no Iro
distribuzione:
Anime Factory
durata:
101'
produzione:
Science SARU
sceneggiatura:
Reiko Yoshida
fotografia:
Yoshimitsu Tomita
montaggio:
Kiyoshi Hirose
musiche:
Kensuke Ushio