romantico, drammatico | Corea del Sud (2024)
La regista sudcoreana E.oni (da pronunciarsi "ionì", pseudonimo di Lee Eon-hee, classe 1976) approda al Far East Film Festival per la sua seconda volta, anche a questo giro con una storia romantica, non esattamente quindi il genere cinematografico per eccellenza quando si tratta di dover competere per ottenere premi di settore. I cliché narrativi propri di questo tipo di produzioni, infatti, nonché i prevedibili risvolti di trama che spesso le caratterizzano, rendono film come "Love in the Big City" molto più adatti a contesti mainstream e/o di consumo quali, ad esempio, le piattaforme streaming piuttosto che non i festival, siano essi anche molto eterogenei e popolari come, appunto, la ventisettesima edizione della kermesse udinese.
Eppure sarebbe un errore credere di avere davanti un prodotto completamente sterile, pensato solo per strappare qualche dimenticabile risata al pubblico del Teatro Nuovo tra un film e l'altro: "Love in the Big City", infatti, per quanto sicuramente non una delle produzioni migliori di questo FEFF XXVII, e non di certo un capolavoro per la cinematografia tutta, offre, per chi ha voglia di starlo a cercare, sicuramente più di uno spunto di riflessione. Il primo di questi è il contesto nel quale la pellicola è stata presentata per la prima volta sul suolo italiano.
Come già ben evidenziato all'interno dello speciale, infatti, la ventisettesima edizione del festival ha visto la più alta partecipazione di registe donne dagli anni della sua prima organizzazione (12), nonché il consolidarsi, in questa più che nelle altre recenti, di un filo conduttore tematico comune ai vari film in concorso: l'affermazione di sé e della propria identità. "Love in the Big City" possiede entrambe le caratteristiche, essendo diretto da una donna e mettendo in scena una storia di scoperta e accettazione di sé da parte di due giovani amici che si ritrovano a condividere insieme 13 cicli stagionali, dai 20 fino ai 33 anni.
Amici e non amanti, come si è erratamente portati a credere fin dalla primissima sequenza del film: Jae-hee (Kim Go-eun), vestita da sposa, saluta apostrofandolo "amore" Heung-soo (Steve Sanghyun). Al polso di ambedue si possono scorgere delle iniziali, come se la coppia avesse deciso di tatuarsi quelle dell'altro per suggellare definitivamente l'amore reciproco. Flashback lungo due lustri e mezzo circa e si ritorna ai tempi dell'università, quando, appena ventenni, i due frequentano lo stesso corso di lingua francese.
La prima particolarità di "Love in the Big City" è quindi il tipo di commedia che porta in scena, non strettamente romantica (anche se la cosa è comprensibile veramente solo man mano che l'intreccio narrativo si sviluppa) bensì amicale, innescando fin da subito un meccanismo a equivoci, questo sì, già più proprio del suo genere di appartenenza. Non è quindi l'unico esempio, quello in esame, di malinteso all'interno della pellicola: il secondo in ordine temporale è dato dall'orientamento sessuale del protagonista maschile, che si scopre quasi subito essere omosessuale. La regista sudcoreana così mette in chiaro dal principio la natura "diversa" della sua opera, quasi come a voler attuare una sorta di operazione meta-testuale: tanto quanto i protagonisti del film cercano il loro posto nel mondo senza necessariamente rinunciare alla loro unicità, così "Love in the Big City" cerca di trovare il suo spazio all'interno del panorama cinematografico delle commedie romantiche senza, di fatto, esserlo a tutti gli effetti.
La natura "auto-affermativa" della pellicola è evidente anche se si considera il contesto culturale del suo paese di produzione, ovvero la Corea del Sud: essa è storicamente sempre stata molto restia ad accettare l'omosessualità e le battaglie per una maggiore uguaglianza di genere, se è vero come è vero che gli anni recenti hanno visto il paese infiammarsi per forti proteste anti-femministe e/o conservatrici. Mettere in scena una storia con al centro una coppia di amici single, lei eterosessuale e lui omosessuale, allora, suona quasi come una sorta di rifiuto verso i ruoli di genere tradizionali, con la volontà di offrire una possibile alternativa ai rapporti uomo-donna rispetto alla classica coppia monogama. Similmente a quanto accade in "Sunshine" di Antoinette Jadaone, quindi, le vicende che riguardano i personaggi fungono da pretesto per raccontare sullo sfondo alcune problematiche dei rispettivi paesi, e se nel caso delle Filippine la principale è rappresentata dal mancato accesso all'aborto e da tutte le sue conseguenze, nel caso della Corea del Sud diventa la difficoltà di esprimere appieno la propria libertà affettiva in un contesto repressivo e fortemente stigmatizzante come quello sudcoreano.
Se le problematiche per Heung-soo derivano in questo senso quasi esclusivamente dal suo orientamento sessuale, per Jae-hee sono relative principalmente alle modalità con le quali ella vive il sesso, considerate in generale dalla società, e in particolare dai coetanei, eccessivamente "libertine". Nulla di troppo originale, certo, ma di nuovo, se come per "Sunshine" si contestualizza il messaggio al paese e al periodo storico nei quali è nato, anche per "Love in the Big City" si può trovare se non altro uno spunto interessante sul quale riflettere per dare valore alla pellicola. L'opera, quindi, critica la mascolinità (potenzialmente tossica) insita nell'uomo eterosessuale cisgender e ciò è reso evidente principalmente da due fattori: dalla caratterizzazione dei personaggi appartenenti alla categoria in questione nonché da una particolare simbologia che "Love in the Big City" adotta in una sua scena chiave.
Per quanto riguarda il primo, si è davanti a un caso molto simile a quello che nel 2023 "sconvolse" una certa parte di pubblico mondiale, ovvero "Barbie" di Greta Gerwig (ma anche "Sunshine" in questo senso può a tutti gli effetti essere considerato un analogo esempio). Nella pellicola della regista californiana infatti, come anche in "Love in the Big City", le figure maschili o hanno ruoli molto marginali o, se anche ne hanno qualcuno di importante, questo si carica quasi sempre di accezioni generalmente negative. Nel film rosa per eccellenza però l'intento è evidentemente provocatorio, e testimonianza ne furono ai tempi le "proteste" seguite all'uscita del lungometraggio nelle sale, mentre nel film coreano il tutto è meno accentuato nonché più verosimile.
In altre parole, se "Barbie" non si prende mai troppo sul serio, "Love in the Big City" lo fa già di più: conferma di ciò è data dal fatto che una figura maschile totalmente positiva è a conti fatti presente all'interno della pellicola (in quella di Greta Gerwig queste sono invece praticamente assenti), e cioè colui che diventerà effettivamente il marito di Jae-hee. Con un'importante caratteristica però: egli è l'unico uomo, oltre a Heung-soo s'intende, che si mostra veramente rispettoso nei confronti della protagonista, e a cui viene affidata una delle battute (femministe) più divertenti del film[1]. Come a voler sottintendere che una via (forse l'unica?) che hanno gli uomini eterosessuali cisgender per poter amare in modo sano una donna e conquistarne la fiducia sia combattere al loro fianco le battaglie di genere nel nome di una sempre maggiore parità.
Per quanto riguarda il secondo fattore invece, e cioè quello simbolico, si fa riferimento a una scena nella quale Jae-hee, per difendersi dall'aggressione fisica di un suo ex-fidanzato particolarmente possessivo e incline alla violenza, colpisce quest'ultimo alla testa con il modello anatomico in plastica di un utero, a sua volta "rubato" da un centro medico per praticare l'aborto, per poi scappare in strada alla ricerca di aiuto. La metafora è fin troppo evidente: il "potere" femminile, incarnato proprio dall'organo riproduttivo delle donne, tramortisce quello maschile reclamando tutto il suo diritto a una maggiore emancipazione sessuale.
Non mancano tuttavia aspetti, almeno per chi scrive, negativi nella pellicola di E.oni, riconducibili per la maggior parte a una sceneggiatura eccessivamente semplicistica e patinata. Come ogni commedia romantica che si rispetti, e in questo senso "Love in the Big City" non fa eccezione, si assiste alla classica alternanza di contagiose risate e fragorosi pianti, di litigi e riappacificazioni, intervallati da momenti di riflessione per i protagonisti. In questi la regista ne approfitta per lanciare messaggi sull'amore e sui cambiamenti interiori dovuti al passaggio dalla prima età adulta alla seconda, dall'università al mondo del lavoro, ed è proprio qui che ogni tanto si scivola nella didascalia. Non tanto per i messaggi di per sé, a onor del vero tutto sommato condivisibili, quanto piuttosto per il modo in cui essi vengono veicolati, e cioè tramite espressioni "dirette". Ad esempio, Jae-hee, rivolgendosi a Heung-soo per esortarlo a non avere paura di instaurare rapporti profondi con le persone che si amano, gli dice: "In amore bisogna imparare a togliersi l'armatura" (ma di casi analoghi se ne potrebbero trovare molti altri all'interno della pellicola).
Il risultato è che certe conversazioni risultano inverosimili se non proprio stucchevoli, ed è un peccato se si considera quanto efficace è stata la regista a far interagire la coppia di protagonisti e a generare chimica all'interno di essa (in questo senso, molto bravi sono stati anche gli attori). Il film poi è molto divertente, potendo vantare alcune trovate comiche particolarmente brillanti: una su tutte, l'apparente suicidio, in realtà un'ubriacatura della madre di Heung-soo una volta che ella ha conferma della sua omosessualità.
In conclusione, "Love in the Big City" è un'opera fortemente pop, che in perfetta coerenza con l'omonimo genere musicale coreano famoso in tutto il mondo, il k-pop appunto, è in grado di "regalarci" anche uno stacchetto finale stile musical (a onor del vero considerabile ai limiti del kitsch…) in occasione del matrimonio di Jae-hee, dedicato alla protagonista e realizzato per lei dal suo migliore amico Heung-soo.
Si potrebbe quindi chiedere cosa ci facesse una pellicola simile, presentata in quel di Udine al FEFF XXVII, al fianco di film decisamente meno accomodanti per lo spettatore medio come "Teki Cometh" oppure "Silent City Driver". Che la risposta possa risiedere nel sottotitolo descrittivo della kermesse udinese stessa, ovvero: "the film festival for popular asian cinema"? Fuor di retorica, in altre parole, E.oni potrebbe non essere, tra i registi, quella "fuori tema", ma al contrario, quella che lo spirito del FEFF è stata in grado di coglierlo più di tutti.
[1] Al termine di una cena aziendale, il futuro marito le chiede: "Vuoi che ti accompagni a casa? E' pericoloso per le donne andare in giro da sole a quest'ora…". Jae-hee, mezza ubriaca, replica: "Se tutti gli uomini andassero a letto presto, non ci sarebbero rischi per noi donne quand'anche andassimo in giro da sole di notte!" e se ne va senza aspettare una risposta. Lui ci pensa su qualche secondo e poi esclama: "Geniale!".
cast:
Kim Go-eun, Steve Sanghyun, Jung Whee, Oh Dong-min, Jang Hye-jin, Lee Sang-yi, Kwak Dong-yeon, Joo Jong-hyuk
regia:
E.oni
titolo originale:
대도시의 사랑법 "How to Love in the Big City"
durata:
118'
produzione:
Showbox, Tale Farming, Plus M Entertainment
sceneggiatura:
E.oni, Kim Na-deul, Im Na-moo
fotografia:
Kim Hyung-joo
montaggio:
Kim Sun-min, Lee Hyun-mi
costumi:
Kim Jung-won
musiche:
Primary