FAR EAST FILM FESTIVAL XXVII - Passano gli anni ma lo speciale consuntivo sul Far East Film Festival resta, così da poter riflettere anche quest’anno sulla kermesse udinese, i suoi risultati e, soprattutto, la sua ricca rassegna, in quest'edizione coerente, dentro e fuori il concorso, come non capitava da tempo
Come discusso nell’editoriale consuntivo dell’anno scorso, l’edizione passata del Far East Film Festival pareva rappresentare in maniera più efficace la chiusura di un cerchio rispetto a quella del 2023, il cui slancio per "piantare radici per il futuro" aveva forse contribuito a far sì che la venticinquesima edizione paresse più una di (re)inizio che di conclusione. L’impossibilità di ricondurre la maggior parte dei film presenti in concorso a una serie di temi ben definiti aveva perciò fatto del FEFF 2024 la giusta celebrazione della molteplicità di prospettive che è sempre stato un tratto fondamentale della kermesse friulana, e perciò determinato una coloritura molto più "conclusiva" di quell’edizione. Per quanto riguarda invece il 2025, il festival udinese ha proposto una grande varietà di film, in concorso come no, contraddistinti però da alcuni temi ricorrenti, dando non solo maggiore coerenza alla selezione ma anche permettendo di vedere in tale focus più ristretto un preciso intento, quello di tracciare una via per il futuro.
Sylvia Chang e Tsui Hark, Gelsi d'Oro alla carriera al FEFF XXVII
La ventisettesima edizione del Far East Film Festival sembra difatti quasi prendere le mosse dal "moving forward" che era stato il motto dell’edizione ibrida del 2021 e andare oltre lo sforzo di intessere le ormai note "connessioni perdute" che aveva alimentato il FEFF del 2022 (e per chi scrive anche l’edizione successiva). Potrebbe essere un caso, ma si può intravedere questo slancio verso il futuro nella presenza di molti esordi in competizione, vari dei quali piuttosto meritevoli, tanto che la giuria del Gelso Bianco alla miglior opera prima ha deciso di citare ben due pellicole. Si potrebbe, volendo, vedere il medesimo afflato di innovazione e di sfida allo status quo anche nella presenza, mai così alta, di registe che hanno portato i loro film alla kermesse udinese, ben 12, di cui due sono riuscite a vincere alcuni dei premi principali.
"Her Story"
L’opera seconda della cineasta cinese Shao Yihui, la dramedy al femminile "Her Story", è stata difatti votata dal pubblico del Far East Film Festival come vincitrice del Gelso d’Oro, risultando perciò il film più amato dai frequentatori del Teatro Nuovo "Giovanni da Udine". Il rapporto delle donne con una società ancora fortemente patriarcale come quella cinese, e in particolar modo con la ricerca di un’identità attraverso nuovi modelli di femminilità, fa capolino anche nel terzo classificato agli Audience Award della presente edizione del FEFF, la pellicola sempre fra dramma e commedia, seppur in questo caso più amara, "Like a Rolling Stone" della poetessa e regista Yin Lichuan. Se la vittoria di questi due film segna non solo un successo per le registe presenti in concorso ma anche un trionfo per la cinematografia cinese, è sempre dall’universo sinofono, nello specifico da Hong Kong, che arriva il vincitore del Gelso d’Argento, l’intenso dramma che riflette anche sulle conseguenze della pandemia da covid-19 (come "Like a Rolling Stone") "The Last Dance" di Anselm Chang.
"The Last Dance – Extended Edition"
Presentato a Udine in una extended edition inedita anche per il pubblico hongkonghese che ne ha fatto uno dei più grandi successi dell’ultima stagione cinematografica, il film dell’esperto sceneggiatore Chang ha conseguito anche il Black Dragon Award, conferito dal pubblico di professionisti dell'industria ed esperti di cinema asiatico che partecipano al FEFF, ribadendo la qualità e la rilevanza dei temi trattati dal crepuscolare "The Last Dance". I rimanenti premi di questa sinocentrica edizione del Far East Film Festival si sono egualmente divisi fra le altre principali cinematografie asiatiche e alcune in genere molto meno considerate: il Gelso Bianco per la miglior opera prima è difatti andato alla co-produzione filippino-nippo-malese "Diamonds in the Sun" di Janus Victoria, con un eccellente Lily Franky come protagonista, con il delicato esordio d’animazione sudcoreano "The Square" di Kim Bo-sol e Oh Yu-jin a meritarsi una menzione d’onore. Il trionfatore dell’edizione passata della kermesse friulana, il Giappone, ha vinto solo il premio alla miglior sceneggiatura col peculiare e al contempo tradizionale thriller rurale "Welcome to the Village" del prolifico Jojo Hideo, mentre il mongolo Janchivdorj Sengedorj si è confermato il favorito del pubblico di MyMovies One che vota il Gelso Viola, già vinto nel 2023 con "The Sales Girl", distinguendosi quest’anno col diversissimo e rigorosissimo noir contemplativo "Silent City Driver".
"Diamonds in the Sand"
Dato l’ottimo risultato conseguito dalla selezione cinese alla recente edizione del Far East Film Festival, pare opportuno iniziare dal "paese di mezzo" la rassegna delle pellicole portate in concorso dalle varie nazioni partecipanti. Forte della seconda selezione più grande (dopo quella del Giappone), la Cina ha proposto anche quest’anno una torma di pellicole molto diverse, dal film d’apertura a metà strada fra commedia pop e cinema d’autore "Green Wave" di Xu Lei al tonitruante ultimo film del maestro Tsui Hark, tra l’altro vincitore del Gelso d’Oro alla carriera. La pellicola di Tsui, l’adattamento ad alto budget di uno dei classici della letteratura wuxia "Legends of the Condor Heroes: The Gallants", non si è certo rivelata la più memorabile del lotto, come si può notare dal trionfo delle, molto diverse, succitate dramedy al femminile "Her Story" e "Like a Rolling Stone". Stesso discorso vale per due pellicole agli antipodi come il rigoroso road movie introspettivo "My Friend An Delie" del già collaboratore di Jia Zhangke Dong Zijian e il fragoroso nel sound design e negli effetti speciali finto biopic "Decoded" di Chen Sicheng, molto retorico e manicheo pure per i già alti standard dei drammi storici ultra-nazionalisti cui l’industria cinese ci ha abituato.
"Like a Rolling Stone"
Passando alla più piccola a livello di dimensioni, ma un tempo più grande, della maggiori cinematografie dell’Asia orientale, Hong Kong, non si può che considerare il continuo movimento introspettivo di un’industria in continua contrazione, come la città una volta eccezionale che la ospita. Sentiti drammi personali e famigliari come il già citato "The Last Dance" e il crudo "Papa" di Philip Yung possono raccontare storie convincenti ed emozionanti ma testimoniano anche la dimensione ormai ridotta nel focus delle pellicole hongkonghesi, tratto condiviso anche da opere di cineasti più giovani come "Montages of a Modern Motherhood" di Oliver Chan, che nel 2019 aveva vinto al FEFF col sentito "Still Human". Una possibile alternativa sembra essere il ritorno ai generi più tradizionali di quella che fu la superpotenza asiatica del cinema di genere, come il cinema d’arti marziali ibridato al procedural di "The Prosecutor" dell’icona del filone Donnie Yen o il disaster movie "Celsium Fallout" di Anthony Pun, senza che però paia una possibilità pienamente convincente, come i film appena citati.
"Papa"
Dopo i risultati dell’anno passato, dovuti in primis a "Takano Tofu" di Mihara Mitsuhiro, potrebbe sembrare che quella di quest’anno non sia stata un’edizione positiva per il FEFF per il Giappone, il quale, nonostante disponesse della selezione più ampia in concorso (ben 11 pellicole), ha vinto solo il premio alla miglior sceneggiatura per il non necessariamente memorabile "Welcome to the Village". In realtà la cinematografia del Paese del Sol levante ha comunque avuto modo di mostrare la propria ricchezza, passando da solidi film di genere come il caper movie "Angry Squad" dell’habitué Ueda Shinichirō e il faceto "Cells at Work!" dello specialista degli adattamenti live action Takeuchi Hideki a opere più autoriali, come l’interessante coming of age artistico "See You Tomorrow" della giovane esordiente Michimoto Maki oppure lo stratificato dramma surreale in bianco e nero "Teki Cometh" di Yoshida Daihachi. Fra questi due poli si trovano pellicole come l’acida commedia nera dai temi sociali "A Bad Summer", sempre del prolifico Jojo Hideo, e lo spassionato e intrigante omaggio a Obayashi Nobuhiko e al coming of age fantastico di cui era maestro "Rewrite" di Matsui Daigo. A questa copia di pellicole vanno aggiunti poi, fuori concorso, il film musicale sopra le righe "Ya Boy Kongming! The Movie" di Shibue Shuhei e il ritorno dell’araldo del cinema nipponico più indipendente, Watanabe Hirobumi, con la horror comedy "The Scary House".
"Welcome to the Village"
Fra le quattro grandi cinematografie dell’Asia orientale è probabilmente la Corea del Sud quella a poter lamentare la performance meno brillante, forse in parte legata anche al minor numero di pellicole in concorso, tanto che, a differenza di molti degli ultimi anni, stavolta ha portato solo la terza selezione per dimensioni. Al suo interno si è distinto soprattutto il toccante film di (pre)chiusura della kermesse, l’apprezzato esordio d’animazione "The Square", ritenuto meritevole di una menzione come miglior opera prima, mentre altri film, come il dramma corale di ambientazione marittima "The Land of the Morning Calm" di Park Ri-woong e il lungo coming of age sentimentale e amicale "Love in the Big City" della regista E.oni, non sono riusciti a convincere il pubblico allo stesso modo. Si segnala comunque la presenza di film appartenenti anche ai generi ormai classici dell’industria cinematografica sudcoreana, come l’horror mistico, qui combattuto fra sciamanesimo e cristianesimo, rappresentato da "Dark Nuns" di Kwon Hyuk-jae e il poliziesco dai protagonisti moralmente ambigui e dalla scazzottata facile, nello specifico "Dirty Money" di Kim Min-soo.
"The Square"
Si è deciso di dedicare quest’anno una sezione apposita anche alla storica "quinta cinematografia" del FEFF per dimensioni, ovvero quella taiwanese, da cui d’altronde proviene l’altra vincitrice del Gelso d’Oro alla carriera di questa edizione della kermesse udinese, ovvero l’eclettica attrice, regista, produttrice e cantante Sylvia Chang, protagonista e produttrice del film "Daughter’s Daughter". L’intenso dramma al femminile scritto e diretto da Huang Xi può essere d’altronde considerato il fiore all’occhiello della selezione taiwanese, anche in virtù della rilevanza dei suoi temi nel contesto del festival, pur essendo questi in parte rappresentati anche dal bell’esordio di Pan Ke-yin, il dramma famigliare quadripartito, nei protagonisti come nello stile dei suoi capitoli, "Family Matters". Più canoniche sono le altre pellicole della più piccola selezione proveniente da Taipei, come il nuovo gangster movie della saga di "Gatao", "Like Father Like Son" di Yao Hung-i e Ray Jiang e il coming of age sentimentale con equivoci "The Uniform" di Chuang Ching-shen.
"Daughter’s Daughter"
Non sono mancate, pur quest’anno in numero forse ancora minore che negli anni precedenti, le pellicole provenienti dalle altre cinematografie dell’Asia orientale e del Sud-est asiatico, a partire dal premiato ritorno dalla Mongolia di Janchivdorj Sengedorj con "Silent City Driver" all’horror rurale indonesiano "Mad of Madness" dell’esordiente Eden Junjung. In mezzo, da quest’area geografica e culturale immensa, si possono trovare gli scanzonati film di genere provenienti dalla Thailandia, come la commedia crime sul commercio di amuleti "The Stone" di Arak Amornsupasiri e Vuthipong Sukhanindr e l’iperbolico action/horror "Death Whisperer 2" dello specialista Taweewat Wantha, così come il raffinato (e un po’ anemico) lockdown drama multilinguistico "Next Stop, Somewhere" dei malaysiani James Lee e Jeremiah Foo. Da un altro paese che raramente ha partecipato al Far East Film Festival, il Vietnam, quest’anno arriva la horror comedy ben poco horror e che alla fine abbandona pure la componente comica "Betting with Ghost" di Nguyen Nhat Trung, mentre dalle Filippine, generalmente il più rappresentato dei paesi del Sud-est asiatico a Udine, provengono solo l’energico dramma di riscatto e affermazione femminile "Sunshine" dell’aficionada Antoinette Jadaone e la co-produzione con Giappone e Malaysia "Diamonds in the Sand", premiato esordio al lungometraggio di Janus Victoria.
"Silent City Driver"
Come ogni anno, l’esperienza del Far East Film Festival non si conclude mai nei film, variegati per genere, provenienza e riuscita, presenti in concorso ma si articola anche nella varie retrospettive che in genere hanno nel principale cinema cittadino, il "Visionario", il loro tempio. Terminata infine la rassegna sul "cinema da FEFF prima del FEFF", ovvero sui grandi successi del cinema di genere asiatico fra anni 80 e 90, peraltro durata ben due edizioni, il numero di classici restaurati a questa edizione del festival si è infatti ridimensionato, pur essendo la loro qualità sempre notevole. Che si parli dell’amaro eppur esilarante cult d’esordio di Bong Joon Ho "Barking Dogs Never Bite", dell’altrettanto brillante opera prima dello hongkonghese Peter Yung "The System" o dell’influente poliziesco hongkonghese "PTU" di Johnnie To, la qualità di questi restauri evidenzia il valore di pellicole già a loro tempo destinate a divenire pietre miliari, o comunque pietre d’angolo nell’affermazione della carriere di grandi cineasti.
"The System"
Da questo punto di vista nessuna pellicola merita una menzione più di "Shanghai Blues", capolavoro del 1984 di Tsui Hark fra film bellico e screwball comedy, il quale contiene per di più una delle più apprezzate interpretazioni di Sylvia Chang e che a Udine ha preceduto una masterclass dello stesso regista, fresco vincitore, insieme alla collega taiwanese, del Gelso d’Oro alla carriera. Arrivano da Taiwan anche "The Story of a Small Town" del maestro Lee Hsing, di cui il FEFF sta portando avanti negli ultimi anni una meritevole opera di riscoperta, e il trio di pellicole facenti parte dell’omaggio all’eterodosso Pai Ching-jui, autore che fra anni 60 e 70 ha cercato di portare avanti una sintesi fra il "sano realismo" prescritto dal regime taiwanese e il neorealismo italiano con risultati indubbiamente interessanti, come mostra lo sfaccettato coming of age "Lonely Seventeen", suo esordio in solitaria.
"Lonely Seventeen"
Al di fuori di questi restauri e della mini-retrospettiva dedicata a Pai Ching-jui, buona parte dei film fuori concorso presenti quest’anno fa parte dell’ampia rassegna dedicata alla rappresentazione delle creature più iconiche del folklore dell’Asia orientale e del Sud-est asiatico, all’interno di un lasso di tempo notevolmente ampio. Le 12 pellicole della retrospettiva vanno difatti dal 1968 del dittico giapponese sugli yokai "The Snow Woman" di Tanaka Tokuzō (suggestivo) e "Yokai Monsters: Spook Warfare" di Kuroda Yoshiyuki (baracconesco) al 2023 dell’horror thai con un pizzico di sentimento "The Inhuman Kiss: The Last Breath" dell’esordiente Paphangkorn Punchantarak. Nel mezzo ci sono i giocattoloni fantasy/action del dittico "The Great Yokai War" del prolifico Miike Takashi, così come la coppia di pellicole dedicate alla volpe dalle nove code coreana, composto dal classico dramma in costume "A Thousand Year Old Fox" di Shin Sang-ok e dalla reinterpretazione più (post)moderna e sopra le righe "The Fox with Nine Tails" di Park Heon-su, senza dimenticare il miliare horror a episodi filippino "Shake, Rattle & Roll", diretto da Ishmael Bernal, Emmanuel Borlaza e Peque Gallaga.
"The Snow Woman"
Prima di concludere la rassegna dei film presenti all’ultima edizione del Far East Film Festival con i ben cinque documentari che quest’anno sono stati proiettati a Udine, vale la pena ricordare che Tsui Hark ha potuto sfoggiare non solo un suo film presente in concorso e uno fra i classici restaurati ma pure uno fra le pellicole della retrospettiva horror/fantasy, ovvero il fascinoso "Green Snake" del 1993, ribadendo ulteriormente la varietà della produzione del maestro hongkonghese. Fra i documentari meritano infine una menzione il toccante eppure accurato resoconto di un episodio poco noto della Seconda guerra mondiale "The Sinking of the Lisbon Maru" di Fang Li e la storia dell’ultima tournée di un gruppo di danzatrici tradizionali cinesi in giro per il mondo "Chinatown Cha-Cha" dell’artista visuale Luka Yuanyuan Yang, a riprova forse della crescita dell’industria cinematografica cinese anche nell’ambito documentaristico.
"Chinatown Cha-Chan"
L’industria cinematografica del più grande paese asiatico mostra ormai sempre di più la propria ricchezza e varietà, fattori che plausibilmente hanno contribuito agli ottimi risultati nell’edizione appena conclusa del Far East Film Festival, che pure sono stati inquadrati dagli organizzatori della kermesse nel loro editoriale in primo luogo nella prospettiva di una celebrazione di storie femminili, coerentemente con i temi famigliari e, soprattutto, sociali al centro del FEFF 2025. In una delle edizioni più frequentate di sempre del festival friulano con circa 65 mila spettatori e quasi 2000 accreditati (un record), gli ottimi risultati di storie femminili sono difficilmente negabili, anche considerando che quasi nessuno dei film vincitori non è stato girato da una donna o non ha comunque un forte personaggio femminile al suo centro, sebbene questo forse possa dire qualcosa del pubblico che li ha votati più che delle industrie culturali che li hanno prodotti. Più coerente dell’eterogenea edizione dell’anno passato, il ventisettesimo Far East Film Festival non ha seguito personaggi smarriti per il vasto e variegato mondo del cinema asiatico ma ha invece provato a tracciare una via verso un futuro più definito, per il festival così come per il cinema (e forse pure per il mondo).
"Shanghai Blues"
Un futuro migliore che in effetti era stato pure citato dai protagonisti del film di pre-chiusura dell’edizione passata, "Vivere!" di Zhang Yimou, ribadendo comunque l’impossibilità di rinunciare alla continuità col passato (del festival, del cinema, del mondo) anche quando si ha di fronte una via chiara da seguire verso il futuro. Non è forse un caso, alla fine, che un altro dei vari temi ricorrenti del FEFF 2025 sia stata l’influenza del passato sul presente, un fantasma che si proietta in avanti, forse a indicare a sua volta la strada, forse ad adombrare, e poi infestare, anche il futuro. Ancora una volta è il classico restaurato portato al Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" per omaggiare il vincitore (e la vincitrice, in questo caso) della kermesse udinese a indicare la prospettiva per guardare alla presente edizione del festival e le traiettorie che ne dipartono: "Shanghai Blues", classico dell’irreplicabile stagione del cinema hongkonghese degli anni 80, oltre a essere stato restaurato ha anche ricevuto un rimontaggio ed è stato ridoppiato, per sostituire il cantonese dell’originale con i più storicamente accurati shanghainese e mandarino, diventando un film sostanzialmente nuovo. Che il trionfo del cinema femminile tracci la rotta per il nuovo "cinema da FEFF" o sia semplicemente un aspetto rinnovato di quello vecchio solo il futuro lo dirà. Non resta che viverlo, per scoprire alla fine la verità.
P.s. come già alla fine degli speciali consuntivi degli anni passati, dedico le ultime parole di questo testo a omaggiare chi mi ha aiutato a coprire per OndaCinema il Far East Film Festival, quest’anno il solo Gabriele Nanni, col quale ho anche avuto il piacere, seppur brevemente, di discutere dal vivo dei film visti a Udine. Similmente all’anno scorso, anche per questa edizione ringrazio mia sorella per il continuo confronto sulle pellicole viste, assieme così come no, alla kermesse.