Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
8.0/10

Silent City Driver


"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti."

Cesare Pavese


Un uomo fermo a una stazione dei bus circondata dalle rocce, al centro di una lunga inquadratura che progressivamente si restringe su di lui, mentre un dialogo si svolge in voice over, esplicando, o forse no, la situazione dell’uomo, fino a che l’arrivo del bus non provoca un impallamento e lui sparisce. Al suo posto, fermo sulla pensilina, rimane un cammello. Fin dalla prima sequenza, un lento long take che si avvicina minacciosamente al protagonista, il film di Janchivdorj Sengedorj marca nettamente la differenza rispetto alla sua pellicola precedente, che nel 2023 fu il primo film mongolo di sempre a venire presentato al Far East Film Festival. In contrasto alla commedia coming of age con una spruzzata di erotismo "The Sales Girl", molto apprezzata a Udine e che in generale può essere considerata la pellicola più nota del regista, "Silent City Driver" si presenta subito come un’opera respingente, cupa e apparentemente monotona come i paesaggi (naturali quanto antropogenici) della Mongolia che diventano presto co-protagonisti della pellicola, costantemente attraversati dal carro funebre guidato dall’ex-carcerato Myagmar, una scheggia nera (ma col tetto dorato) che squarcia il grigio e il verde delle praterie e lo spento color ghiaccio dei cieli.

Adoperando un linguaggio cinematografico che ricorda lo slow cinema, fatto di prolungate carrellate a seguire e (soprattutto) a precedere, frequenti inquadrature statiche, la rappresentazione ininterrotta dal montaggio delle azioni e il mind wandering in cui spesso i personaggi si perdono, "Silent City Driver" riporta il cinema di Sengedorj nell’alveo del cinema drammatico in cui si è quasi sempre mosso, radicalizzandone ulteriormente le soluzioni registiche e visive. Fin dalla gelida palette dei colori della fotografia e dell’assenza di colonna sonora extra-diegetica (pur nel frequente ricorso a quella invece diegetica), la rigorosa regia del cineasta mongolo mette in scena una realtà aspra e imperturbabile, in cui le poche conversazioni vertono attorno a temi esistenziali e quasi ogni forma di contatto umano che non sia per mercimonio è assente, come ribadiscono le varie inquadrature che interpongono fra i personaggi vetri, porte, finestre e altri oggetti, sottolineando l’impossibilità di una vera conoscenza reciproca. Queste scelte, all’interno di un film che è attraversato dall’inespresso e struggente sentimentalismo della relazione non consumata fra Myagmar e la giovane Saruul, finiscono però per avvicinarlo a "The Sales Girl", la cui protagonista condivideva non a caso il nome con quella di "Silent City Driver".

La solitudine come costante esistenziale infatti accomuna i personaggi principali dei film di Sengedorj, isolati sia dal proprio contesto sociale (infatti latitano in ambedue i casi relazioni significative con coetanei) sia da quello famigliare, essendo Myagmar ormai rimasto senza la madre, l’unica parente in vita prima del suo internamento. Tale sentimento viene esasperato dalle succitate soluzioni registiche che mostrano i personaggi intrappolati nella loro individualità, a cui si può aggiungere l’abbondanza di campi lunghi, occasionalmente pure lunghissimi, che evidenziano la solitudine dei protagonisti e anche la loro apparente irrilevanza, in mezzo alla staticità della natura e al movimento della storia, il flusso di corpi umani che spesso riempie le inquadrature, in un fragoroso party nottuno come in mezzo alla folla che vaga per le vie di Ulaanbaatar. Sono anche gli abiti neri del necroforo protagonista, anche quando non lavora, a distaccarlo dal mondo circostante, in maniera simile al candore del corpo nudo di Saruul, riflettente la luce in mezzo all’oscurità della notte e dell’acqua, alimentando un raro, e per questo significativo, contrasto visivo all’interno di una pellicola che invece fa dell’omogeneità di ciò che rappresenta un elemento fondamentale.

Un'altra opposizione più volte reiterata nel film è quello fra il protagonista e il giovane monaco buddhista Sodbigel, il quale cerca di mostrare all’anodino e sconsolato Myagmar un diverso approccio alla vita, non necessariamente riuscendoci, nonostante la scelta finale del necroforo di seguire l’insegnamento per cui "il perdono […] è la vendetta più grande", mettendo da parte i suoi intenti vendicativi in una delle sequenze più intense e ambigue della pellicola. I dilemmi esistenziali che attanagliano i personaggi principali, compresa la nichilista Saruul, così come la loro constante ricerca di punti di riferimento all’interno di conversazioni che raramente non sono unidirezionali e di inquadrature statiche in cui vagare senza direzioni, finiscono per approssimare "Silent City Driver" al cinema coming of age, già esplorato col racconto di formazione della protagonista di "The Sales Girl". Alla Saruul dell’ultimo film di Sengedorj però non è concessa una parabola di maturazione paragonabile a quella dell’omonima protagonista della pellicola del 2022, interrotta come pressocché ogni sviluppo narrativo all’interno di una pellicola anodina quanto i suoi personaggi, incarnazioni della gioventù smarrita di Ulaanbaatar, in un mondo, o quanto meno un paese, che pare privo di possibilità (anche lavorative, vedansi le ragioni per cui Myagmar ha trovato lavoro solo come autista di carri funebri).

Queste costanti interruzioni bloccano difatti anche gli sviluppi del film in varie direzioni di genere, le quali forse avrebbero potuto rendere in parte meno ostica, e complessa, la pellicola conducendola su binari più tradizionali. Dopo aver adombrato uno sviluppo da gangster movie, con la sottotrama delle foto erotiche che Saruul, come molte altre ragazze, sarebbe stata costretta a scattare da alcuni criminali, senza dimenticare la serie di morti e sparizioni misteriose che sporadicamente viene citata durante il film, un inaspettato (?) sviluppo narrativo impedisce a "Silent City Driver" di divenire anche un film sentimentale (drammatico a sua volta, perché i pochi accenni da commedia sono amari e sempre più centellinati) e in seguito pure un noir, genere cui comunque il film si avvicina per l’atmosfera plumbea e la scelta di un protagonista dal passato criminale e misterioso. Proponendo questa anodina esplorazione di vari immaginari, la pellicola di Sengedorj traspone in termini strutturali l’errare del suo protagonista dall’inizio alla fine (e difatti il film inizia con il suo ritorno a casa e termina con la sua sparizione), in tutte le varie digressioni che paiono far intravedere alternative che però si rivelano in ogni caso effimere.

L’unico conforto apparente per Myagmar, e anche in questo "Silent City Driver" rassomiglia "The Sales Girl", è la musica che lo aiuta a isolarsi dal mondo esterno, da cui si sente comunque respinto, e per provare a esprimere sé stesso, musica diegetica che spesso riempie anche le orecchie degli spettatori, facendo per un attimo scorgere una via per l’interiorità del protagonista. Una via che però Myagmar pare restio a lasciar percorrere a chicchessia e infatti pure a Saruul è concesso solo una ascolto fugace della malinconica hit "Comme un boomerang" di Serge Gainsbourg che accompagna il protagonista in vari momenti significativi, nei quali solo chi guarda può condividerne i tormenti (rintracciabili a fatica nella recitazione fisica e minimalista di Tuvshinbayar Amartuvshin), sino alla prossima sventura che colpirà il giovane. Intrappolati in stretti primissimi piani che circoscrivono l’intero mondo presente sullo schermo al solo volto del protagonista, gli spettatori assistono alle numerose azioni di Myagmar senza poterne comprendere appieno le motivazioni, coerentemente con la prospettiva pessimista su una società disgregata che traspare dal film di Sengedorj, in cui solo l’illuminazione personale, o il tentativo di fusione con l’altro, possono fornire un’apparente via di fuga.

Ma questa, così come agli spettatori e al film stesso, non viene mai concessa al protagonista dalla chirurgica regia di Janchivdorj Sengedorj, la quale intrappola l’attenzione di chi guarda, sempre più col procedere della trama, in long take che costringono eventi che avvengono in lunghi lassi di tempo all’interno di temporalità più ristrette e al contempo forzano ad assistere alla reiterazione di azioni in scena per lunghi minuti. Similmente al mantra che il giovane monaco avrebbe dovuto insegnare a Myagmar per aiutarlo nella sua ricerca di pace interiore, "Silent City Driver" fa della ripetizione (in alcuni casi di inquadrature quasi identiche a distanza di pochi minuti, come le visite del giovane all’hotel frequentato da Saruul) la sua chiave di volta stilistica, enfatizzando ulteriormente la monotonia senza scampo della sua Ulaanbaatar filmica. A questo eterno ritorno senza possibilità di fuga non resta che opporsi con l’annichilimento, un seppellirsi in vita che pare effettivamente ricordare lo sokushinbutsu, l’auto-mummificazione rituale perseguita da alcune scuole buddhiste (si tratta d’altronde di uno dei paesi più buddhisti al mondo, ça va sans dire). L'ingresso in un mondo altro, rovesciato e al contempo sotterraneo, era stato d'altronde già prefigurato dal long take che seguiva la lunga conversazione al lago fra Myagmar e Sodbigel, quando l'inquadratura passa lentamente dai due giovani ai loro riflessi nell'acqua, ricordando, come vari personaggi di altri film della presente edizione del FEFF, che si è solo ombre, spettri in vita, riflessi di infinite, e per questo inesplorabili, possibilità.


01/05/2025

Cast e credits

cast:
Tuvshinbayar Amartuvshin, Narantsetseg Ganbaatar, Bat-Erdene Munkhbat


regia:
Janchivdorj Sengedorj


titolo originale:
Chimeegüi khotyn jolooch


durata:
137'


produzione:
MFIA, Dominion Tech LLC, Nomadia Pictures, Ddish


sceneggiatura:
Janchivdorj Sengedorj, Nomuunzul Turmunkh


fotografia:
Enkhbayar Enkhtur


scenografie:
Munkhbat Shirnen


montaggio:
Munkhbat Shirnen


musiche:
Sound design: Aurae Studios


Trama
L'ex-detenuto Myagmar, che vive nei sobborghi di Ulaanbaatar in compagnia di una torma di cani randagi, trova lavoro come autista di carro funebre (e scultore) presso un'azienda di pompe funebri. Mediante il suo lavoro conosce il giovane monaco buddhista Sobdigel e un esperto e saggio creatore di bare, e tramite lui la figlia Saruul, verso cui comincia a provare un'ambigua attrazione. La situazione evolverà però in modi che nessuno di loro è capace di prevedere.