Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
8.0/10

 

"Hu! det regner og det blæs;
For langt nord i Fjellom
Djupt under Hellom
Der leikar det ..."
 
"Oh, piove e tempesta !
Lontano a nord, nelle montagne,
Sotto i profondi declivi
Là Loro giocano..."
 
Ulver, "Capitel V: Bergtatt - Ind I Fjeldkamrene"



Pur essendo in questo film i dialoghi quasi del tutto assenti (e i pochi presenti in dialetto sloveno della Benecjia) e le frasi comprensibili pochissime e generalmente irrilevanti non sono solo queste le ragioni della scelta di non apporre alcuna citazione tratta dall'opera, quanto l'aver ritenuto che, stando così le cose, nessuno meglio di coloro che si sono rivelati i maestri, nella contemporaneità, nell'attualizzare il mito e il folklore in ambito musicale sarebbe stato capace di richiamare le atmosfere del film di Lorenzo Bianchini. Nome di certo noto a coloro (pochi) che hanno sempre saputo che, prima di SollimaMainetti e Rovere (per citare i più freschi nella memoria di tutti), in Italia, nonostante l'innegabile crisi del settore, non si sia smesso di fare cinema "di genere" dopo l'apogeo degli anni '60 e '70, pur dovendo spesso affidarsi all'autoproduzione.

L'opus n°5 del regista udinese (secondo non autoprodotto), meritatamente premiato in tutto il mondo, prosegue il suo percorso personale attraverso il genere (specialmente quello del "thriller rurale" avatiano) e i suoi archetipi mettendo in scena ancora una volta una solitudine e lo scontro con una presenza esterna che ne deriva così da ridurre la materia narrativa ai minimi termini e poter così esporre i topoi del genere in maniera non mediata ed eventualmente riaggiornarli. Si pensi al ricorso alla soggettiva, cliché quanto mai abusato nell'horror dell'ultimo decennio, che qui viene utilizzato per adottare i punti di vista più inattesi e ingegnosi, o al foundfootage, quasi mai così sensato nella semplicità delle sue motivazioni. Tuttavia il lavorio di Bianchini non si ferma ad una riproposizione intelligente degli stilemi più sfruttati dell'horror contemporaneo ma, come già accennato, riprende suggestioni che sono da sempre alla base del genere, riconducendolo alla solitudine, all'ignoto, al buio e tutto ciò che da sempre terrorizza l'umano.

L'intero film però non sarebbe allo stesso modo riuscito senza alcuni fondamentali collaboratori, come l'ottimo Marco Marchese, la cui interpretazione occupa la quasi totalità della pellicola (ad eccezione delle brevi parentesi della vecchia coppia di sloveni e del finale) riuscendo ad impersonare questo personaggio chiaramente simbolico nella sua mancanza di caratterizzazione e grande efficacia, il minimalismo delle scenografie di Stefano Tell, che risultano particolarmente credibili nell'appaiarsi cogli edifici desolati del paesino abbandonato di Toppolò, e la musiche di Stefano Sciascia, la cui lentezza e ripetitività contribuisce a rendere il fantomatico villaggio fantasma una vera e propria "sensazione da abitare". Medesima funzione che ha l'altro contributo tecnico eccellente di "Oltre il guado", ovvero la fotografia di Daniele Trani che, nonostante una certa discontinuità attribuibile però alle differenti scelte stilistiche del regista nella rappresentazione dei diversi luoghi, riesce a mostrare con indubbia abilità lo scontro/fusione fra luce e tenebre adottando una tavolozza ricca di grigi e marroni, finendo per rendere il protagonista quasi indistinguibile dalle case diroccate e quelle dalla foresta circostante. Tali contributi contribuiscono a far risaltare il compassato stile registico di Lorenzo Bianchini e a far assurgere il minimalismo che permea l'intera opera a vera e propria categoria estetica della pellicola e chiave di lettura della stessa.

Infatti è questo rigore volutamente antispettacolare che rende da un lato l'opera di Bianchini respingente per la lentezza e la ricercata ripetitività di certi passi e per come glissa sulle occasioni da cui la maggior parte dei registi trarrebbe facili jumpscare, dall'altro libera la visione da qualsiasi compiacimento estetico o da facile realismo (che pure permane nella confezione) per costruire una dimensione visiva e sonora (come sempre nel cinema bianchiniano il sonoro ha un ruolo fondamentale) in cui ogni elemento si ritrova ad assumere il ruolo simbolico che il genere, e ancor prima il mito, gli ha attribuito in origine. Così come il protagonista è in balia di creature che non può comprendere e le cui capacità sono apparentemente illimitate (non che lo spettatore riceva molte informazioni in più, se si escludono le brevi farneticazioni del vecchio slavo), chi finisce invischiato nelle maglie (termine non casuale) di "Across the River" si ritrova prigioniero di un cinema che avvolge con il suo apparato estetico raffinato e ricco (nonostante l'indiscutibile penuria dei mezzi) e che colpisce per la lucidità e la profondità con cui scava nelle profondità dell'inconscio spettatoriale con la forza dei suoi archetipi (che ivi già risiedono, essendo tali).
"Prigioniero della montagna"/"prigioniero di un incantesimo". "Bergtatt" per l'appunto. 

 


21/04/2016

Cast e credits

cast:
Renzo Gariup, Lidia Zabrieszac, Marco Marchese


regia:
Lorenzo Bianchini


distribuzione:
Cecchi Gori Enterteinment


durata:
92'


produzione:
Collective Pictures


sceneggiatura:
Lorenzo Bianchini, Michela Bianchini


fotografia:
Daniele Trani


scenografie:
Stefano Tell


montaggio:
Lorenzo Bianchini


musiche:
Stefano Sciascia


Trama
L'etologo Marco Contrada sta raccogliendo dati sulla fauna al confine fra Friuli e Slovenia: incuriosito da alcuni dettagli raggiunge un villaggio disabitato oltre il fiume. La pioggia lo costringerà a rimanere nell'abitato per alcuni giorni, mentre inizia a comprendere che vi è qualcosa di strano che dimora tra le case.