Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi

Il cinema doveva essere già morto da un pezzo, quando le iene di Quentin Tarantino cominciarono a rosicchiarne la carcassa. Gli ultimi rimasugli di polpa vennero digeriti e trasformati in nuova materia cinematografica, che, con "Pulp Fiction", spaccò gli anni Novanta in due, aprendo altre strade e facendo di un trentenne cresciuto a pane e cinema l'ultima star nel mondo dei filmmaker sbarcati a Hollywood. La storia dell'opera seconda di Tarantino potrebbe essere riassunta in questo modo, sebbene affondi le radici in un passato non molto remoto.

Nel 1992 l'ex-commesso di un videostore di Manhattan Beach (L.A. County), entrato nel giro dei Sundance Kid grazie a dei buoni contatti e ad un paio di script venduti bene, viene lanciato dal film festival inventato da Robert Redford con "Reservoir Dogs", una sorta di kammerspiel ultra-violento, che sfruttava l'heist movie con la "rapina finita male" per reinventarlo dalle fondamenta. Con un notevole gioco di incastri narrativi, basato sui flashback "rashomoniani" dei vari rapinatori, l'allora ventinovenne Tarantino passò in un sol colpo dalla serie B di film a basso costo alla serie A dei nuovi autori americani, accodandosi ad altri registi che avevano cominciato la loro carriera nel decennio precedente - si parla naturalmente almeno dei Coen di "Blood Simple" e del Lynch di "Velluto blu" e "Cuore selvaggio" (l'opera che nel 1990 apre e riassume un intero decennio di cinema americano).
 L'opera seconda, scritta a quattro mani con l'amico (poi ex) Roger Avary, vince a sorpresa il Festival di Cannes consacrando il talento del giovane autore e avviandolo a un successo mondiale (sarà il suo miglior incasso fino a "Bastardi senza gloria"): "Pulp Fiction" uscì in Italia, anche grazie alla lungimiranza di Enrico Ghezzi che portò al Taormina FimFestival da lui diretto il regista e i suoi due lungometraggi.

"Pulp Fiction", come altre opere tarantiniane, non segue una narrazione lineare ed è diviso in capitoli: quelli ai quali l'autore ha concesso un titolo sono tre, "Vincent Vega e la moglie di Marcellus Wallace", "L'orologio d'oro" e "La situazione di Bonnie". "L'orologio d'oro" ha un'introduzione ambientata nel passato, mentre l'episodio sull'uscita di Vincent e Mia Wallace è anticipato nella macro-sequenza dedicata al lavoro che devono svolgere Vincent e Jules per recuperare la valigetta di Marcellus. D'altra parte questa sezione convergerà ne "La situazione di Bonnie" e ritroveremo nel finale Zucchino e Coniglietta, lasciati nel prologo quando iniziano la rapina in una tavola calda.
Tarantino articola "Pulp Fiction" assemblando scene indipendenti che raccolgono e ampliano il proprio senso rispecchiandosi e continuandosi di storia in storia. Il pasticcio cronologico rivela una disposizione armonica diretta, sia a partire dall'inizio che a ritroso dalla fine, verso il centro del film: alcuni dettagli apparentemente insignificanti di primo acchito (come lo scambio in cagnesco tra Vincent Vega e Butch nel locale di Marcellus Wallace) hanno un significato successivamente, così come quello si vede "dopo" spiegherà ciò che si è visto "prima".
Ogni sequenza ha un climax interno che dialoga col bioritmo dell'opera, continuamente animato da vette emozionali, metaforizzate dalla scarica di adrenalina che salva la vita a Mia Wallace, dopo l'overdose. "Pulp Fiction" funzione spettacolarmente bene come catalizzatore di emozioni basse, violente che si manifestano a ogni visione nella ripetizione di un puzzle di storie così intrecciate da permettere allo spettatore anche un ri-montaggio mentale, colmando i vuoti tra uno stacco e l'altro.

A spiazzare in "Pulp Fiction" è quindi la maturità nel modulare la narrazione da parte di un regista dall'esperienza ancora non collaudatissima; Tarantino padroneggia così bene la scrittura che Flavio de Bernardinis paragona la sua penna a quella del maestro Robert Altman (in "Robert Altman", Il Castoro, 1995): entrambi sono innanzitutto (de)scrittori di personaggi e il lavoro che fa il giovane Quentin con le varie storie di "Pulp Fiction" non è lontano dalla "zuppa carveriana" di "Short Cuts" ("America Oggi", 1991). La realtà cinica e tragica di Altman, diventa una fumettistica disavventura "pulp" che ironizza sul sottobosco criminale che rappresenta da sempre la fauna privilegiata da dove il cinema di genere trae i propri protagonisti.
Il flashback che spiega la storia dell'orologio d'oro di Butch, con un mitico intervento di Christopher Walken resuscitato da "Il cacciatore" a raccontare il lato grottesco dell'orrore del Vietnam, motiva l'importanza di quell'oggetto per il personaggio interpretato da Bruce Willis. Tarantino è da considerare un mago del McGuffin, perché non ne sfrutta solo uno che diventa il motore immobile dell'azione (secondo la lezione di Hitchcock) ma ne dissemina per ogni personaggio rendendo imprevedibili le direzioni del racconto.

La scrittura cinematografica tarantiniana, soprattutto nelle sue prime esperienze, riguarda quello che è solitamente omesso dall'azione narrativa, è la scrittura del superfluo: egli predilige la messa in scena di prodromi ed effetti elidendo sulla "causa" vera e propria, divertendosi ad approfondire quello che solitamente è ritenuto inutile ai fini della narrazione ma che reifica l'umanità e la verità dei vari personaggi, evitando per loro l'ipercaratterizzazione macchiettistica. I celebri botta e risposta sono anch'essi un modo per ritardare e per riempire un vuoto d'azione. Dialoghista dalla verve eccezionale e infinita, capace di prolungare fino all'assurdo discorsi come il nome europeo del "Quarto di libbra con formaggio" per il differente sistema metrico, o il vero significato dei massaggi ai piedi, Tarantino usa un tono particolare per ogni personaggio così da donargli la propria dimensione anche con pochi e incisivi tratti: ad esempio, la fulmineità di battute secche che non ammettono risposta ha fatto di Mr. Wolf (un compiaciuto Harvey Keitel) una delle figurine più fortunate di "Pulp Fiction"; penetrato a forza nell'immaginario collettivo il linguaggio tarantiniano e i suoi moduli narrativi hanno segnato un decennio per poi modificarsi per entrare di prepotenza anche in quello successivo. La drammaturgia dei suoi dialoghi ampliano gli scenari, quasi sempre racchiusi in piccoli spazi (l'abitacolo della macchina, l'appartamento, il locale), potenziando l'effetto grottesco che si scatena quando i protagonisti agiscono; il chiacchiericcio tanto sterile quanto quotidiano accomuna pupe, boss, inservienti e manovali del crimine.
La routine di "Pulp Fiction", fatta di pause e/di violenza, è una (delle tante possibili) dimostrazioni di come il regista rielabori le lezioni dei suoi maestri: in questo caso la lezione della Nouvelle Vague, citando nel particolare "Tirez sur le pianiste" di Truffaut coi discorsi dei due sicari in auto, e due grandi film godardiani, "Vivre sa vie" nella battuta sui silenzi che mettono a disagio e "Band à part" nella celebre scena della gara di twist, dove un John Travolta imbolsito si vede costretto dalla competitiva Mia a rinverdire i fasti de "La febbre del sabato sera".

La destrutturazione temporale è il mezzo con cui Tarantino si trastulla, prendendo a piene mani dallo Stanley Kubrick di "Rapina a mano armata", e la sala di montaggio dovrebbe essere il luogo deputato a un'operazione del genere. Questo lavoro è però già attuato dal Tarantino-sceneggiatore la cui maniacalità nella scrittura è pari a quella di Kubrick - famoso l'enorme faldone che conteneva lo script di "Pulp Fiction", iniziato nei coffe shop di Amsterdam. Il suo linguaggio cinematografico non è rivoluzionario quanto l'aspetto narrativo, anzi, si potrebbe affermare che parte del suo successo sia dovuto all'interpretazione di un linguaggio già ampiamente codificato, riferibile ai registi della Nouvelle Vague e della New Hollywood (Scorsese e De Palma sono tra i pallini di Tarantino), che rende trasparente rivisitazioni ludiche parecchio ardite, segno distintivo della facilità di "fare cinema" del regista di Knoxville.
Non ci sono sbavature nello stile tarantiniano, né nei raccordi di montaggio (sull'asse, sul movimento, sullo sguardo) né tanto meno di regia dove dispone quasi sempre in maniera simmetrica i propri personaggi: si pensi agli stacchi sui vari personaggi nell'appartamento dei ragazzi o a Vincent e Mia seduti l'uno di fronte all'altro nel locale, impegnati nel più classico dei dialoghi cinematici: primi piani in campo e controcampo. La precisione delle microstrutture mette ancor più in evidenza le discrasie macrostrutturali. La montatrice Sally Menke (sodale del regista fino alla sua prematura scomparsa nel 2010) usa la dissolvenza in nero per la conclusione dei vari capitoli, dando proprio il senso dell'operazione "pulp" di Tarantino: un film-romanzo che ogni volta che si riapre non è nello stesso punto in cui lo si è lasciato, come se chi leggesse conoscesse già la storia o stia facendo confusione tra un capitolo e un altro (d'altra parte Tarantino è dislessico).

Con "Pulp Fiction" vengono istituzionalizzate inquadrature e immagini che ogni fan innalzerà a feticcio del suo idolo, una vera e propria iconografia tarantiniana: parliamo, ad esempio, del contra-plongée dal baule, il parabrezza schizzato di sangue, l'inquadratura sui piedi di Uma Thurman (un feticismo a parte) che, dopo il dettaglio sulle labbra, presentano il personaggio ancora prima di inquadrare il volto (che avverrà solo nella scena successiva). Nonostante un'ancora breve filmografia, il regista affianca alla miriade di riferimenti intertestuali per le sue ossessioni cinefile, anche un discorso intratestuale, fatto di immagini e personaggi: com'è ormai noto, Vincent è il fratello di Vic Vega e la descrizione di "Fox Force Five", lo show tv in cui Mia aveva recitato, altro non è se non la squadra di assassine capitanate da Beatrix Kiddo.

È interessante analizzare la parabola di Vincent, presente in ogni episodio, sia all'inizio che, ovviamente, nel finale, quando i due sicari vestiti in t-shirt e pantaloncini escono dalla tavola calda; il suo essere trans-personaggio che interagisce con tutti e con le varie situazioni non lo protegge dall'epilogo fatale che pone fine alla sua scorribanda: una compensazione narrativa a tanto vitalismo (a perdere). La morte di Vincent ha una funzione di contrappasso se si considera che il genere da cui Tarantino prende le viscere e le frattaglie è il noir, trasposizione contemporanea della tragedia, il cui finale è quasi sempre catartico. L'avant-pop di "Pulp Fiction" non può che partorire una parodia e, quindi, il nostro protagonista non solo muore, ma non si redime nemmeno: al contrario di Jules Winnfield che vede nei proiettili che li hanno mancati un'epifania divina, decidendo di lasciare il mestiere; al contrario di Mia Wallace che si salva in casa del pusher (a cui il coeniano Lebowski deve qualcosa); al contrario di Butch il cui doppio gioco ai danni di Marcellus non viene punito, trovando la "grazia" del boss e una moto (anzi, un chopper) con cui fuggire chiamato "Grace". In un certo senso, l'arroganza di Vincent è paragonabile alla presunta onnipotenza di Marcellus Wallace, l'altro personaggio che viene punito in un'escalation irrazionale che richiama "Un tranquillo weekend di paura" (Boorman, 1972).

Percorsa da un acido sarcasmo che sdrammatizza la violenza, talmente parossistica da essere assimilata a quella dei cartoon, quest'opera trans-genere e folle ha causato al suo autore le accuse di nichilismo e di apologia della violenza. A cui Tarantino ha risposto seccamente che, se i suoi film lo sono, è perché tali aspetti sono divertenti: non ci sono motivazioni politiche, l'ambiguità tra repulsione e connivenza ironica con omicidi, rapine, stupri è voluta. La stilizzazione della violenza ha però implicazioni sia estetiche che etiche, perché, si badi bene, la posizione dello sguardo dello spettatore è quasi messa al riparo, molto più protetta rispetto alla violenza glaciale di autori più severi come possono essere gli europei HanekeVon Trier o il nipponico Miike. Che sia un limite o meno, è sicuramente una caratteristica da tenere sempre presente, per non sovra-interpretare le volontà dell'autore: l'entertainment per Tarantino passa per scelte estreme delle quali, come abbiamo già detto, il regista mostra le conseguenza non l'atto in sé. Vincent che spara in faccia al ragazzo seduto dietro si tramuta in un'esplosione che ricopre di sangue l'interno della macchina: il corpo del ragazzo sarà sempre occultato. Allo stesso modo ne "Le iene" il montaggio ci nascondeva la carneficina durante la rapina e il taglio dell'orecchio del poliziotto operato dal sadico Vic Vega - vedremo poi le conseguenze della rapina e Michael Madsen giocare con l'orecchio tagliato.

In "Pulp Fiction" ogni cosa è eccessiva, dal ritmo andante con brio, nonostante la durata estesa, ai personaggi, dalle vicissitudini surreali ai dialoghi, che potenziano il modo di parlare del regista, andando a scatti nella loro verbosità fluviale. Questa spettacolarizzazione, anche degli aspetti più banali, è dovuta alla lente che filtra il mondo tarantiniano e questa lente è proprio il cinema. Ibridatori dell'arte impura ve ne sono stati tanti, da Godard ad Altman, così come registi-cinefili, da Truffaut Scorsese, ma il caso di Quentin Tarantino è, sotto quest'aspetto, esemplare: è l'unico regista ad aver sfruttato la sua vorace cinefilia come tavolo su cui apparecchiare, di volta in volta in maniera diversa, le ricette dei suoi film. L'accusa miope di assemblare collage citazionisti non coglie come tale orizzonte culturale permetta al suo cinema di compiere quel salto mortale per cannibalizzare e stravolgere la realtà. Il cinema, pensato come universo a parte, a sé stante, si sostituisce con il proprio linguaggio alla normale rappresentazione mimetica della realtà, animandosi con le proiezioni interiori (e cinefile) dell'autore, dove il tempo e lo spazio sono coordinate manipolabili tanto quanto gli strumenti del medium possono permettersi di deformarlo. Gli avvenimenti che si susseguono durante i 150 minuti sono pura "fiction": dal guidare per Los Angeles con la strada proiettata che scorre fuori dal finestrino, come nei film degli anni 50, all'attraversare la città in dieci minuti come fa Mr. Wolf, alla stessa Mia Wallace col suo look riconducibile tanto all'Anna Karina godardiana che alle dark lady del cinema noir. L'essere inserita in un contesto irreale le permette anche di fare cose impossibili, come disegnare un quadrato sullo schermo trasformando la parola in immagine. Insomma, in "Pulp Fiction" non c'è una singola scena che non possa essere letta in chiave metalinguistica.

Per molto, forse troppo, tempo Quentin Tarantino è stato "il regista di Pulp Fiction", in un gioco di identificazione che ha pochi eguali nella storia contemporanea del cinema; ed è altresì apprezzabile il tentativo del regista di Knoxville di non farsi schiacciare da un'eredità pesante, rimettendo in discussione le formule del suo cinema già con quel "Jackie Brown" (1997), il cui flop segnò un periodo di progetti abortiti che durò sei anni. "Pulp Fiction" è sì un catalogo pulp, ma è, ancora prima del résumé postmoderno definitivo di "Kill Bill" (2003), l'abbecedario per entrare in contatto con l'autorialità tarantiniana. In accordo a quanto dice lui stesso, i generi cinematografici sono un modo per parlare di se stessi, nascondendolo all'evidenza della macchina da presa, ma proprio per l'uso che ne fa, per le citazioni rubate e gli omaggi conclamati, si tratta di frammenti di indelebile auto-svelamento, un continuo coming-out mascherato e frullato con la Settima Arte. Con la sua opera seconda, Tarantino firma non solo una pellicola epocale ma costruisce un dispositivo perfetto che indaga tutti i generi considerati di serie B e li fa sussumere dall'interno, portandoli a un livello di eccellenza, per il genio nella scrittura e il virtuosismo tecnico-realizzativo. 

Si dice sempre che Tarantino mescoli l'alto col basso, ma è vero solo in parte. La forza misteriosa dei suoi film consiste nell'abilità che dimostra nel digerire pezzi di junk-cinema e resuscitarli in un nuovo contesto produttivo, narrativo e autoriale. Tarantino è il miglior riciclatore americano. Buona visione.


20/01/2013

Cast e credits

cast:
Ving Rhames, Harvey Keitel, Christopher Walken, Tim Roth, Rosanna Arquette, Eric Stoltz, Amanda Plummer, Quentin Tarantino, Maria de Medeiros, Bruce Willis, Uma Thurman, Samuel L. Jackson, John Travolta


regia:
Quentin Tarantino


durata:
154'


produzione:
Lawrence Bender; Danny DeVito; Richard N. Gladstein; Michael Shamberg; Stacey Sher; Bob Weinstein; H


sceneggiatura:
Quentin Tarantino, Roger Avary


fotografia:
Andrzej Sekula


scenografie:
David Wasco


montaggio:
Sally Menke


costumi:
Betsy Heimann


Trama
Le vite di un pugile, di due gangster, di un boss e della sua pupa, di uno spacciatore e di una coppia di rapinatori si sfiorano e collidono in una serie di eventi imprevedibili e paradossali.