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recensione di Alessio Cossu
6.5/10

Konstantin Khabenskiy, attore dal solido background teatrale, si cimenta per la prima volta anche con la prova da regista ottenendo risultati non disprezzabili. Il soggetto prescelto dall’artista pietroburghese è quello della Shoah. Prima di addentrarci nell’analisi è necessaria una premessa. Girare un film su un tema così frequentemente presente nelle sale cinematografiche significa avere innanzitutto il coraggio di misurarsi con un duplice rischio: da un lato quello di non dire niente di nuovo circa ciò che già è stato detto o mostrato in proposito, dall’altro quello di banalizzare un soggetto che dalla banalità rifugge per definizione. Se poi si considera che Khabenskiy si muove sul terreno minato del remake, la dose di coraggio raddoppia.

Il caso di Sobibor, infatti, era già stato trattato da una produzione statunitense nel 1987, anche se destinata al piccolo schermo. Sobibor è il nome di uno dei tre campi di sterminio della Polonia orientale controllata dai tedeschi che si distinse dagli altri due (Treblinka e Belzec) per il fatto che, oltre agli ebrei, vi erano concentrati anche prigionieri di guerra russi e che soprattutto fu il caso più clamoroso di fuga di massa degli internati della Seconda guerra mondiale. E’ quest’ultimo aspetto a diventare immancabilmente il focus di "Sobibor - La grande fuga".

La pellicola è strutturata come una successione di tre atti: l’arrivo al campo e l’integrazione con gli altri prigionieri, i preparativi per la fuga, la sua esecuzione. E’ una tripartizione che denuncia il passato teatrale del regista. Anche l’incipit lo fa: al termine dei titoli di testa compare una citazione dagli Atti degli apostoli (10.47) in cui Pietro riafferma la liceità del battesimo con l’acqua per coloro i quali hanno ricevuto lo Spirito Santo. Nell’incipit del film, introdotto dal suono diegetico di musicisti che accordano dei violini, vediamo un ufficiale delle SS che cammina meditabondo; il modo di incedere e il concentrato silenzio è tipico dell’attore di teatro che è sul punto di dire qualcosa di importante. Il suo suona come un monologo nel corso del quale si chiede sbraitando quale popolo possa mai aver accettato di farsi battezzare nelle putride acque di un fiume qualsiasi.

Siamo di fronte a una stazione. Inquadratura dal basso, quasi sui binari: arriva un treno. A causa del trasognante suono extradiegetico di violini e delle volute del vapore, la scena sembra un ralenti, ma in realtà il treno sta veramente rallentando. Ne discendono i deportati, straniti e ignari di ciò che li attende, accolti dalle parole di benvenuto dagli altoparlanti e dalla musica diegetica di un improvvisato quartetto di archi che intona la marcia trionfale, dal sapore decisamente beffardo per gli spettatori. Qualche kapò, avvicinatosi ai deportati, consiglia loro di farsi avanti come falegnami, orefici o calzolai quando verrà chiesto che professione esercitino, ma non ne viene spiegata fino in fondo la ragione. Tutta questa sequenza iniziale confeziona così l’ovatta che circonda l’universo concentrazionario nazista: un velo di ipocrisia e menzogna. Mentre la cinepresa indugia con brevi stacchi su alcune valige, una bambina con un copricapo rosso che stringe a se una bambola dice al fratello maggiore (orafo) di volere orecchini rossi e non blu: è un omaggio a "Schindler’s list" di Steven Spielberg.

Il valore aggiunto del film di Khabenskiy è legato a diverse componenti, una delle quali è la fotografia. I fari che con fasci di luce bianca e azzurrognola squarciano l’oscurità intorno alle baracche sono un pezzo di bravura. E’ però soprattutto sui volti degli internati che la fotografia fa sentire maggiormente il suo pregio: a differenza della precedente versione televisiva, gli ebrei sono quasi sempre madidi di sudore, incrostati di fango, riarsi dal sole, scavati dalle fatiche. Acuta e funzionale a ciò la scelta di ambientare le sequenze dedicate ai lavori forzati non tanto nel perimetro interno del Lager, bensì all’esterno, in un’area acquitrinosa nella quale l’abbruttimento fisico gioca un peso iconico maggiore.

Altra differenza rispetto alla versione di Jack Gold del 1987, mentre in quest’ultima l’arrivo dei prigionieri di guerra russi è successivo a quello dei civili, Khabelskiy fa entrare in scena Pečerskij quasi da subito: è lui, in verità anche storicamente, l’artefice principale della fuga dal campo e di ciò gli viene riconosciuto il merito. Non solo, ma eroe a tutto tondo, stavolta cede alla passione della bella Luka. Nell’altro film la relazione tra i due era più tormentata, ma cinematograficamente appena abbozzata e il personaggio appariva incoerente.

Sostanzialmente diverso è anche il ritratto degli ufficiali tedeschi e delle guardie ucraine. Mentre nel film di Gold la crudeltà era la tara morale che caratterizzava principalmente il capitano Wagner, qui è come se il fatto stesso di vestire la divisa della Wehrmacht trasformi tutti in carnefici, dal soldato semplice al comandante in capo Wezel. Oltre alla crudeltà emerge la meschinità: gli ufficiali sono tanto avidi degli oggetti di valore requisiti ai prigionieri da agghindarsene tronfiamente davanti ai loro parigrado. Khabelskiy sembra insomma chiedersi dove sia finito lo spirito di corpo dell’esercito tedesco.

Quanto alle scene di crudeltà gratuita, soprattutto quelle che si consumano nel corso di una notte di baldoria al termine della seconda parte del film, esse fanno impallidire il peggior Amon Göth di "Schindler’s list" e sembrano guardare più a "Va’ e vedi" di Elem Klimov che non al film di Steven Spielberg. E questo per la teatralità, il parossistico crescendo, oltre che per la presenza della figura tipo dell’ufficiale insanamente appassionato fotografo dei momenti più raccapriccianti. La superiorità morale degli ebrei, ma soprattutto dei russi, rispetto ai tedeschi che consegue da tutto questo quadro può essere spiegata anche con il massiccio sostegno (anche finanziario) al film da parte del ministero della cultura (sotto Vladimir Medinski). C’è insomma del vecchio patriottismo russo, là dietro la macchina da presa.

Molto riuscite le scene che conducono alla fuga vera e propria: i prigionieri, superato il cancello, ultimo ostacolo verso la libertà, lasciatisi dietro i corpi di molti compagni tra le deflagrazioni delle mine, si lanciano in una lunga corsa ripresa al ralenti e accompagnata da un sottofondo extradiegetico di violini; si percepisce anche il suono di un respiro affannoso. Le ultime inquadrature, sempre al ralenti, sono per il giovane Schlomo, che si avvia sano e salvo verso una radura sconfinata: qui la musica tace in favore del suo lieve affanno. Il montaggio del film è gradevole e privo di lambiccate ellissi.

Concludendo, si può dire che Khabenskiy abbia detto e mostrato su Sobibor qualcosa di più e di meglio di quanto abbia fatto chi lo ha preceduto.


02/06/2020

Cast e credits

cast:
Wolfgang Cerny, Mindaugas Papinigis, Maximilian Dirr, Philippe Reinhardt, Michalina Olszanska, Mariya Kozhevnikova, Christopher Lambert, Konstantin Khabenskiy


regia:
Konstantin Khabeskiy


titolo originale:
Sobibor


distribuzione:
Eagle Pictures


durata:
110'


produzione:
ArtBox Company,Cinema Production Producer Center, Fetisoff Illusion, Visual Arts


sceneggiatura:
Anna Tchernakova, Michael Edelstein, Ilya Vasiliev


fotografia:
Ramunas Greicius


scenografie:
Jurgita Gerdvilaite


montaggio:
Yuriy Troyankin


costumi:
Gulnara Shakhmilova


musiche:
Kuzma Bodrov


Trama
Il 14 ottobre 1943, più di 400 prigionieri guidati dall'ufficiale ebreo sovietico Aleksandr Pecherskiy portarono avanti una rivolta nel campo di sterminio di Sobibor, uccidendo 11 guardie delle SS e cercando di impadronirsi di un arsenale.
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