Mediante uno sfoggio tecnico impressionante, ma mai sterile, e puntando su una situazione emotivamente impattante, Netflix Uk ha confezionato una delle serie dell'anno, e non solo
Creata da Jack Thorne e Stephen Graham (quest'ultimo anche tra gli interpreti dell'opera, ma su questo torneremo più tardi) per Netflix Uk, "Adolescence" è una miniserie dalla durezza inusitata. Nei suoi quattro episodi non vi è traccia di edulcorazioni, né tantomeno di parossismi drammatici o dei ricatti emozionali tipici di serie drama più usuali. Tutto è confezionato in maniera secca ed essenziale, a tratti asettica. Il contenuto arriva dunque allo spettatore nudo e crudo e la sua intrinseca problematicità lavora sulla psiche di chi guarda scevra di una direzione imposta da sotterfugi drammaturgici. Proprio per questo, scuote e scartavetra nel profondo. Quattro piano sequenza, ciascuna puntata è difatti uno di essi, ci guidano in una situazione sconvolgente: un tredicenne del Nord inglese, Jamie Miller (Owen Cooper), è accusato del brutale omicidio per accoltellamento di una coetanea. Siamo in una località imprecisata, proprio a rimarcare la possibilità di una storia come questa a qualsiasi latitudine, ma la nebbia e l'accento, fortissimo, richiamano i sobborghi del West Yorkshire.
Quattro piano sequenza per altrettante puntate, dicevamo. Una metodica chiara e schematica, eppure ciascuna ripresa differisce sostanzialmente dalle altre, rendendo ogni episodio un universo a sé stante.
Nel primo episodio seguiamo l'arresto e la detenzione del giovane. È un mattino nebbioso del Nord inglese e due detective, visibilmente scossi, dirigono l'assalto alla villetta e l'arresto di Jamie. Semi-soggettive degli agenti, riprese strette sui famigliari scioccati dalla violenta incursione (in questi frangenti viene in mente il Sorogoyen di "Antidisturbios", un nome che scomoderemo anche un po' più in là) e poi una fluidità incredibile quando le immagini seguono le automobili della polizia dirette alla centrale.
Qui il girato si fa meno concitato e a disturbare, pur condotte con tutta la delicatezza imposta dal caso, sono le procedure di schedatura e ispezione alle quali viene sottoposto il giovane sospettato, accompagnato dal padre Eddie (Stephen Graham). Infine, l'interrogatorio: un momento teso e cruciale che apre numerosi interrogativi e sottotesti. Lo shock e la smarrita dolcezza disegnate da Graham sul suo volto con un'interpretazione da annali è lo stesso degli spettatori.
Nel secondo i due detective proseguono le indagini all'interno della scuola frequentata dagli attori del caso. Gli svincoli dei corridoi, cambiando semi-soggettiva a seconda di chi li percorre, permettono alle camere di cambiare continuamente ambientazione e svelare, a poco a poco, un habitat soltanto in apparenza sicuro, in realtà humus di divisioni, ossessioni, pulsioni sessuali, bullying e segreti. Un microcosmo ostile, schermato da un indecifrabile codice di emoji che il detective Bascombe (Ashley Walters) potrà iniziare a comprendere soltanto mediante l'ausilio di suo figlio, anch'egli alunno bullizzato della scuola.
I corridoi, lo sguardo della cinepresa, le spalle e i nervi a fior di pelle sono qui quelli di "Elephant", l'indimenticabile capolavoro di Gus Van Sant. Da un punto di vista tecnico, si tratta dell'episodio più impressionante. Grazie a un'organizzazione a orologeria dei numerosissimi attori, le complesse manovre architettate dal direttore della fotografia Matthew Lewis e la sua crew non temono variazioni di ambiente e deviazioni, né tantomeno i repentini cambi di ritmo dovuti a un inseguimento o a una rissa. Quando infine, sul finale dell'episodio, la cinepresa prende letteralmente il volo (presumibilmente agganciata a un drone dal cameraman) per immortalare la cittadina dall'alto e poi tornare sul primo piano di Stephen Graham (e quindi nelle mani del cameraman) intento a lasciare dei fiori sul luogo del delitto, c'è solo da rimanere genuinamente a bocca aperta.
Nella terza puntata, forse la più angosciante e programmaticamente scioccante, siamo intrappolati con la psicologa Briony Ariston (Erin Doherty) e l'accusato nella stanza deputata alla valutazione psicologica del ragazzo. La videocamera segue un movimento quasi circolare, vola nell'abitazione come una mosca intrusa; non indugia tanto su chi ha la parola, quanto sulle reazioni dei due interlocutori. Quella che inizialmente doveva essere una perizia sulla consapevolezza del processo giudiziario da parte di Jamie diventa presto molto di più. La chiacchierata tra i due penetra nel violento mondo emozionale dell'adolescenza: un mix di disinibita crudeltà, desiderio di essere visti, insicurezza ottenebrante, rabbia che scorre sottopelle ma è pronta a esplodere in qualsiasi momento e, nel caso di Jamie, intrinseca mascolinità tossica, nella sua declinazione web fatta di manosfera, incel, redpillati. Il dialogo, quasi un duello a un certo punto, è rivelatorio, traumatico finanche. Le riprese sono così abili da far sentire lo spettatore dentro la storia, al punto che questi non potrà che terminare la visione dell'episodio con la stessa sensazione d'ansia provata dalla perita. Ha dell'incredibile l'interpretazione, la sua prima, di Owen Cooper. Intenso, fluido nel passare da un'emozione altra, esplosivo quando necessario. Una sorta di versione adolescente del miglior Edward Norton (altezza "Primal Fear").
Nel capitolo finale, invece, è il compleanno del papà dell'accusato e quelli che calpestiamo insieme ai piedi del cameraman sono i cocci aguzzi e sparpagliati delle vite circostanti. Il tentativo di vivere una giornata normale, spensierata, diventa presto un incubo impregnato di sensi di colpa, angoscia, incapacità e, dunque, impossibilità, di ricominciare. Solo in apparenza (o solo in parte) assolutorio, il saluto che la serie offre a quello che rimane della famiglia scoperchia una genitorialità moderna colpevole e impotente perché ignara e assente.
Abbiamo parlato di uno sfoggio tecnico imponente, la notizia è però che non è mai fine a sé stesso, che viaggia, invece, sempre di pari passo ai contenuti e alla loro caratura emozionale, diventando l'amplificatore di una sceneggiatura di rara potenza. I movimenti di camera del primo episodio disegnano lo shock della famiglia, quelli della seconda ci conducono nel labirinto dell'adolescenza, quelli del terzo sono asfissianti come i segreti che emergono e così via.
Un'ulteriore scelta vincente, corroborata anche in questo caso dall'effetto tempo reale offerto dai piani sequenza, è stata quella di non seguire l'intera storia di Jamie, ma di ricostruirne soltanto quattro momenti chiave. L'utilizzo del frangente per scatenare le riflessioni di chi guarda e guidarlo alla ricostruzione attiva del quadro generale rimanda dunque al meccanismo narrativo dei vari "Los anos nuevos" (riecco dunque Sorogoyen), "One Day" e alla trilogia di Richard Linklater. Al centro della narrazione non vi è però una coppia, ma l'intera famiglia di Jamie, nonché, per estensione, la sua comunità (il corpo di polizia, quello docenti, i compagni di scuola, i vicini di casa etc. etc.), creando in questa maniera uno sguardo sociale à-la Loach.
Collaboratore di lunga data di Stephen Graham, sia come compagno di scena ("Band Of Brother") che come suo regista ("Boiling Point"), Philip Barantini ha diretto un cast perfetto nella sua interezza. A passare agli onori della cronaca sono stati soprattutto gli ovvi Graham, con una prova attoriale semplicemente commovente, e il giovane Cooper. Sarà però difficile dimenticare anche il detective Bascombe di Ashley Walters, sicuro del caso che ha costruito ma lacerato e accorto nel portarlo avanti, o la performance che toglie il fiato (letteralmente) di Erin Doherty nell'apicale terzo episodio.
In un periodo nel quale su Netflix e i suoi stilemi, sia produttivi che distributivi, piovono copiose critiche, un prodotto rilevante sia socialmente che artisticamente come "Adolescence" arriva come un raggio di speranza, che ci dice che la piattaforma, nelle giuste mani, può ancora essere fonte di grande, grandissima qualità. Ancor più alla luce del successo trasversale e travolgente della miniserie (che, stando agli ultimi aggiornamenti, potrebbe diventare una serie antologica), che ci dice chiaramente che un prodotto impegnato e a tratti addirittura ostico può ancora colpire le grandi masse.