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Il successo della miniserie in cinque episodi "Chernobyl" è legato a una dettagliata ricostruzione storica che tuttavia non inficia le esigenze drammaturgiche. Il racconto, nonostante i non pochi personaggi che lo animano, prosegue sicuro e spedito verso il traguardo, adeguando il ritmo alle necessità di scrittura. Una serie in cui i fatti vengono descritti con realismo, ma in cui ciò che è consueto è come escluso e bandito, suscitando sbigottimento e inquietudine nello spettatore

"Qual è il prezzo delle bugie? Ogni volta che diciamo una bugia
contraiamo un debito con la verità e quel debito, prima o poi, va pagato"


La Hbo e il successo della serialità

La Hbo è un colosso delle serie televisive con all’attivo produzioni di successo, quali "Sex and the City", "I Soprano", "Band of Brothers", "Westworld" e "True Detective". Più di recente, ha puntato su serie costituite da un minor numero di stagioni ed episodi, come nel caso di "Chernobyl", mantenendosi comunque vicina alle produzioni cinematografiche per esaustività drammaturgica e sforzo produttivo. La brevità stagionale ed episodica, infatti, permette di ingaggiare produttori, autori e attori di spessore per un periodo limitato di tempo, rendendo più appetibile la partecipazione alle fasi realizzative. Prescindendo dalla specificità di ciascuna serie, l’ingrediente del successo della serialità targata Hbo è la capacità di saper intercettare l’attenzione del pubblico, principalmente americano, con temi vicini alla sua sensibilità. 

La genesi di Chernobyl, ovvero così lontani, così vicini

Nel 2013 Craig Mazin, sceneggiatore introdotto negli ambienti della Hbo, legge sul New York Times un articolo a proposito della costruzione dell’imponente sarcofago di contenimento di Chernobyl. Da qui inizia un lungo lavoro di documentazione sull’incidente del 1986 che sfocerà nella miniserie omonima in cinque episodi destinata a oscurare il successo di ogni altra produzione seriale grazie a un indice di gradimento senza precedenti, oltre che tre Emmy Award e due Golden Globe nel 2019.
Ora, un incidente nucleare alla base di una serie televisiva è quanto di più lontano si potesse pensare rispetto alle canoniche trame col focus su drama, crime, saghe familiari o fantascientifiche molto in voga alla Hbo e nelle serie in genere. Tanto più che, esulando anche dall'ambito della serialità, l’unico precedente statunitense accostabile alla medesima tematica era stato "Sindrome cinese" (1979), un film incentrato però su un incidente nucleare avvenuto nel Nuovo Continente e prodotto in un periodo di viva contestazione ambientalista nei confronti di questi impianti. Vero è che, inoltre, Jack Lemmon ottenne il primo premio a Cannes come attore protagonista, ma il successo della pellicola fu legato soprattutto alla straordinaria coincidenza storica per cui pochi giorni dopo l’uscita del film si verificò il noto incidente alla centrale di Three Mile Island. A mano a mano che il lavoro di documentazione di Mazin andava avanti, si dilatava anche la distanza rispetto a un altro incidente nucleare, quello di Fukushima, in Giappone, del marzo 2011.

Tutti questi fattori spinsero perciò l’ideatore della miniserie a puntare su aspetti intrinseci al soggetto della saga, che potevano risultare intriganti a prescindere dalla stretta attualità storica, politica o dalla risonanza ambientalista della vicenda. Più specificatamente, a ingenerare interesse nel pubblico poteva essere il fatto che gli spettatori ignorassero le vere cause del disastro, che questo, paradossalmente, si fosse verificato durante un test di sicurezza e che, infine, una delle figure che si erano più impegnate nel tentativo di contenerne i danni fosse morto suicida esattamente due anni dopo l’incidente stesso.
Altri fattori che potevano coinvolgere il pubblico erano da un lato l’atteggiamento eroico con cui migliaia di comuni cittadini avevano affrontato le conseguenze del disastro e dall’altro quello omissivo e ostativo con cui i burocrati si erano opposti all’accertamento della verità, tutti aspetti che rendevano "Chernobyl" la cartina di tornasole per riflessioni di carattere universale che superavano il caso particolare. Solo partendo da tali premesse e con tali scopi si poteva trasformare un punctum, un fatto unico e isolato nella sua evenemenzialità, in un continuum, cioè in un'analisi alla base della serialità.

Il sistema dei personaggi

Il sistema dei personaggi della miniserie è concepito con uno schema che sa di classico in quanto a simmetria ed equilibrio. A tre figure principali positive ne corrispondono altrettante negative, in una rete oppositiva non individuale, ma collettiva, nella quale intervengono ancora altri personaggi con un ruolo solo apparentemente minore, che mette di volta in volta alla prova la tenuta morale di ciascuno. Accanto al segmento narrativo principale ve ne sono altri due che completano il quadro in modo coerente, nonostante gli attanti non entrino quasi mai in contatto diretto coi sei personaggi principali. Il primo della triade che chiameremo positiva è Valery Legasov, interpretato da Jared Harris. È il tipico scienziato scrupoloso, coscienzioso, che non ambisce a fama o successo, ma fa della battaglia per la verità il cardine di una vita. Scelto dalla nomenclatura nelle ore immediatamente successive all’incidente quale esperto di problemi legati alle radiazioni, si renderà conto ben presto che la ricerca della verità viene ostacolata da quelle stesse alte gerarchie che gli hanno affidato la gestione dell’emergenza. Ecco uno degli aspetti che rende intriguing la miniserie. Legasov, propriamente un chimico, dopo una serie di indagini scopre che molti altri reattori dell’allora Unione Sovietica, per ragioni economiche, vengono costruiti con un difetto procedurale che ne mina la sicurezza e che perciò costituisce un potenziale pericolo per la collettività. Il personaggio, rispetto alla figura storicamente esistita, si arricchisce di un particolare narratologico che lo rende amabile al pubblico: va incontro a un’evoluzione interiore la cui portata si rivela in tutta la sua chiarezza solo nell’ultima delle cinque puntate. Pressato infatti dal vicedirettore del Kgb, mostra una tale dedizione alla verità da non impedire che emerga un suo passato di connivenza con gli apparati dello stato che gli hanno consentito di fare carriera. È proprio per affrancarsi moralmente da tale macchia che il Legasov scienziato ha messo da parte le provette e si è fatto paladino di verità. La sua è, dunque, una sorta di redenzione, che si consuma nel trionfo solitario e nondimeno eroico. Anche le scelte di scrittura evidenziano tale passaggio: nella prima puntata, convocato ad una prima riunione al Cremlino per il punto sull’incidente, viene dapprima tacitato dal vicesegretario generale Scherbina e solo Gorbachëv gli consente di parlare, mentre nell’ultima puntata, nel vivo del processo ai responsabili della catastrofe, sarà proprio Scherbina a chiedere che l’esperto possa esporre tutto ciò che crede.

Shcherbina, a sua volta, è il secondo anello della catena dei personaggi virtuosi: anch’egli realmente esistito, vien fuori dalla penna di Mazin come l’unico burocrate che, dopo la diffidenza iniziale, sosterrà in tutto e per tutto Legasov nella gestione dell’emergenza. Il personaggio, interpretato da Stellan Skarsgård, oltre ad andare dunque anch’egli incontro a una parabola evolutiva, è caratterialmente quanto di più dissimile si possa pensare rispetto allo scienziato: non è né idealista né timido sognatore, ma pratico esecutore dai modi spicci e diretti, perfino duri se occorre. Quella che lo sceneggiatore ha messo a punto è una coppia perfettamente assortita, insomma.

Il terzo personaggio positivo è letteralmente inventato: Ulana Khomyuk (Emily Watson) non è mai esistita ed è, come viene chiaramente ricordato nei titoli di coda, una figura plasmata dallo sceneggiatore e dal regista per onorare la memoria degli scienziati che, dopo la morte di Legasov, si batterono per la verità. La Khomyuk è un fisico nucleare che lavora a Minsk e affianca e sostiene Legasov. Dal punto di vista narratologico, è uno straordinario propulsore drammaturgico: adamantina nella sua incorruttibilità, sostiene e guida gli altri due fino alla fine. Non è un caso che si tratti di un personaggio femminile, uno dei tanti a rivestire un ruolo di prestigio. Non da ultimo, i suoi titoli accademici e la sua esperienze certificano indirettamente una competenza perfino superiore rispetto a a quella di Legasov.
Mazin ha chiarito che, in nome del realismo, la scelta rendeva giustizia dell’effettiva emancipazione femminile riscontrabile in molti aspetti della società sovietica di quegli anni: non pochi dei medici degli ospedali che in Chernobyl curano le vittime delle radiazioni sono infatti donne.

Venendo ai tre villain della miniserie, Anatoly Diatlov, Nikolai Fomin e Viktor Bryukhanov, si tratta, pur nella diversità, di altrettanti burocrati: il primo è il responsabile diretto della catastrofe in quanto insensibile e spericolato gestore del test di sicurezza nella sala controllo; il secondo è un cinico e arrivista ingegnere, disposto a tutto pur di ottenere una promozione; il terzo è la figura apicale che sovrintende a tutte le attività della centrale, ma soprattutto l’anello di congiunzione tra industria e politica. I tre, che furono nella realtà condannati ai lavori forzati dopo un’inchiesta, stanti le responsabilità individuali, sono tuttavia a loro modo vittime di un sistema di potere fortemente verticistico, in cui la competenza viene sacrificata alla gerarchia, l’interesse personale al bene della collettività.

Per evitare che la narrazione della catastrofe di Chernobyl coincidesse unicamente con un freddo resoconto di cifre e fosse percepita come distante e lontana dal pubblico, lo sceneggiatore ha fatto in modo che le sue conseguenze ricadessero sulla vita di un’anonima coppia: Lyudmilla e Vasily Ignatenko sono due persone comuni, come tante la cui vita è stata sconvolta la notte di quel 26 aprile 1986. Lui è uno dei vigili del fuoco accorsi a spegnere l’incendio divampato per l’esplosione del tetto del reattore n.4. Le radiazioni assorbite lo porteranno alla morte dopo inaudite sofferenze che la moglie vorrebbe mitigare. La donna, figura assolutamente struggente, lo segue perfino nell’ospedale di Mosca, dove lo assiste incurante dei divieti dei sanitari e del nascituro che porta in grembo.

Altro personaggio secondario e del tutto sui generis è Pavel: a differenza degli altri non vive a Prypiat, nelle immediate vicinanze della centrale, non sarà costretto all’evacuazione. È solo un giovane un po' spaesato arrivato chissà da dove, timido, ingenuo, che poco sa della vita e ancor meno della morte che pure deve dare: è uno dei tanti “liquidatori di cani” arruolati dalle autorità per sopprimere questi animali ancora vivi che si aggirano nelle aree ormai disabitate dei territori evacuati. Il suo è un tirocinio dell’orrore che lo farà entrare nell’età adulta accanto al suo caposquadra, un ex-veterano dell’Afghanistan. In Pavel,  Mazin e il regista hanno ritagliato una figura di rara iconicità: il giovane dice ben poche parole, ma i suoi silenzi e i suoi gesti, i suoi sguardi e le sue lacrime sono un esempio di quanto sia accurato il casting della quality television.

Tono, struttura e soluzioni di scrittura

Grande attenzione nella resa al dettaglio della Russia sovietica degli anni 80. Campi lunghi su paesaggi quieti e spopolati, ispirati agli scatti di Alexander Gronsky. Prypiat, nelle immediate vicinanze della centrale, filmata secondo il gusto dei reportage di Gerd Ludwig. La fotografia fredda, sottilmente desaturata. Le fonti luminose a irradiare la scena in modo irregolare, dinamico e imprevedibile, lievemente tremolanti o variabili in colore e intensità, per trasmettere senso di insicurezza. Negli interni, luci fluorescenti ovunque possibile, al posto di lampadine a incandescenza, per ricreare atmosfere inaccoglienti, malate. Negli esterni, viceversa, l’intensità dei raggi che rendono il sole metafora della minaccia atomica. E poi scene icastiche che reificano l’inquietudine alienante. Le maschere antigas che fanno sembrare i soldati “strani uccelli usciti da un incubo”.

Questa estetica fine veste una struttura congegnata per seguire il propagarsi spaziale e temporale dell’emergenza nel susseguirsi dei cinque episodi. Il primo racconta, quasi in tempo reale, la notte dell’esplosione. Il secondo i due giorni successivi, Shcherbina che dopo una profonda diffidenza iniziale familiarizza con Legasov, sovrintende alle operazioni e realizza l’entità del problema. Il terzo, tre settimane, con le prime vittime. Il quarto episodio si espande ancora: è sull’arco dei mesi, quelli della bonifica della regione. È come il racconto di una guerra, per cui ci si prende tutto il tempo per narrarla. A fare indirettamente da orologio è il ventre gravido di Lyudmilla. Tra l’altro vi è un’interessante coincidenza tra tempo del racconto e tempo della storia nella sequenza dello sgombero del tetto dai detriti dell’esplosione: la ripresa dura 90’, esattamente il tempo massimo di esposizione dei soldati alle radiazioni. Il quinto episodio è dedicato al processo e consegna Chernobyl alla storia attribuendole, con una citazione di Michail Gorbachëv nei titoli di coda, un peso nel tramonto dell’Urss.

La gittata lunga degli eventi e la necessità di mantenere alto il coinvolgimento del pubblico conferiscono poi agli episodi una coloritura diversa: l'episodio iniziale è punteggiato di atmosfere horror, dark, che simboleggiano un nemico invisibile, insidioso, percepibile solo per il freddo odore metallico. Il reattore viene inquadrato solo alla fine per accrescere l’atmosfera ansiogena. Nel secondo il clima è quello della mission impossible cui si preparano tre operai. Nel terzo, con la comparsa di Aleksandr Čarkov, primo vicedirettore del Kgb, diverse sequenze ricordano gli inquietanti spy-movie in salsa britannica resi celebri dall’occhialuto Michael Caine, con tanto di microspie e pedinamenti. A tingersi dei toni del legal drama è invece l’episodio conclusivo, dedicato al processo, maniacalmente vicino alla realtà dal punto di vista scenografico, ma per il resto ben distante; sappiamo che Legasov, ad esempio, non vi partecipò affatto. Tuttavia, l’esigenza drammaturgica di spiegare nei minimi dettagli come siano andate le cose, inchiodando i colpevoli alle loro responsabilità, doveva al contempo porre Legasov al centro dell’azione. Tra l'altro anche la grammatica di regia lo sottolinea dedicandogli un carrello circolare.

Un discorso particolare merita la musica: manca una colonna sonora vera e propria, un po’ come manca del tutto la backstory dei personaggi, ma sono assenze che non vengono percepite come tali. Ciò a dimostrazione di quanto sia accurata la sceneggiatura, nell'economia della serie, infatti, il rapporto di Legasov, ma anche di Shcherbina con le rispettive famiglie poco conta rispetto al loro ruolo dopo il disastro. Tornando alla musica, le scelte degli autori sono invece ricadute su suoni, a volte anche rumori, e atmosfere musicali propri della drone music dall’effetto straniante, disturbante e ansiogeno.
Più in generale, "Chernobyl" è una miniserie che rifugge il più possibile da tutto ciò che è troppo prevedibile e scontato, riproponendo invece il concetto freudiano di Unheimliche, ovvero di perturbante, in modo da calare lo spettatore nella medesima temperie emotiva di coloro che furono investiti da quegli eventi.

Il tema

Insieme al collega John August, l’autore di "Big Fish", "La fabbrica di cioccolato" e "La sposa cadavere", Mazin è autore di "Scriptnotes", il podcast dedicato alla sceneggiatura tra i più noti e ascoltati dagli addetti ai lavori. Un appuntamento settimanale in cui si discutono in profondità le tecniche di scrittura per lo schermo. In questa sede, Mazin spiega il suo approccio, improntato alla struttura tematizzata [1]: l’idea che una storia si svolge come la dimostrazione di una tesi su certi valori. Naturalmente non in maniera predicatoria, fastidiosamente retorica. Il plot dovrebbe essere innervato da una determinata convinzione.
Dialetticamente testata lungo il suo sviluppo. Provata nella sua validità con il finale della trama. "Chernobyl" è scritto in questo modo. L’apertura sul suicidio di Legasov, che prima di compiere il gesto completa la registrazione delle audiocassette di testimonianza contro il sistema sovietico, serve certo per accendere la voglia di sapere come si è arrivati a quel punto. Serve però, soprattutto, per imbastire il tema (“Qual è il costo delle bugie?”), fissandolo e dandogli rilevanza con le ultime parole dettate al magnetofono dal protagonista. Introdotto da quelle frasi, un pensiero ispira la miniserie ed echeggia con diverso grado di evidenza in tanti suoi messaggi. Prima o poi la realtà si ribella alle menzogne che l’hanno nascosta. Le bugie hanno sempre un costo, il conto da pagare immancabilmente arriverà, e sarà tanto più alto quanto più spessa e durevole è stata la coltre di falsità che ha coperto fatti oggettivi.
Il dilemma vissuto nell’epilogo da Legasov rende drammaticamente il senso generale della sua parabola. Cedere al ricatto del Kgb, continuare a non dire, a far finta di non vedere, a collaborare alle omissioni e alle censure. Oppure ammettere, subendo la ritorsione (essere esiliato in patria, isolato e al bando da tutti), perché alimentare la propaganda avrebbe conseguenze ancora più gravi. Il tramonto del regime dirà che Legasov aveva ragione – la realtà avrà vinto sull’ideologia – anche se ciò avverrà dopo la morte dello scienziato.
Mentre ne mette costantemente in primo piano i costi (gli effetti dell’incidente nella centrale), la miniserie esplora il tema della menzogna dandone espressione in tanti modi. C’è la scelta dell’ironia drammatica (lo spettatore sa più dei personaggi) per raccontare l’inizio della tragedia. L’esplosione mostrata in lontananza. Un fascio di luce proiettato verso il cielo dove gli abitanti di Prypiat pensano esserci un semplice incendio. La gente che ignara continua la propria vita; che addirittura si raduna su un ponte per ammirare a distanza lo spettacolo offerto dalla centrale.
Tutto questo rende palpabile la forza insospettabile della menzogna, persino il suo fascino (l’impianto, con la bellezza del suo bagliore, come una medusa attraente eppure assassina). C’è, poi, l’atroce, malato rifiuto di ammettere il problema da parte di Diatlov, che nella sala controllo dirige i suoi sottoposti negando l’innegabile (come se lo spirito della falsità si fosse impossessato di lui fino ad accecarlo, trapelando nell’insana fissità dei suoi occhi). Ci sono, inoltre, oggetti che acquistano una valenza simbolica. Su tutti, i dosimetri in dotazione alla centrale, che hanno una scala limitata. Possono arrivare a rilevare solo un massimo di radioattività non particolarmente allarmante. Infinitamente inferiore a quello determinatosi a Chernobyl. Così, chi vuole negare può farlo appoggiandosi a una verità parziale: limitandosi a citare il dato restituito dagli apparecchi (l’ambiguità della menzogna). Infine – l’ambito in cui la miniserie esplora al meglio il suo tema – ci sono i dialoghi. Particolarmente indicativo quello che rivela il completo, intimo coinvolgimento di Legasov nella missione, nel secondo episodio. È il passaggio che lo mostra ormai disposto a farsi carico di una gestione difficile e ingrata. Un confronto tanto denso di significato quanto pacato e apparentemente di piccolo conto tra il protagonista e una sconosciuta, al bar del suo albergo. La gente è ancora all’oscuro della minaccia radioattiva. Lo scienziato, senza spiegare il perché, ha appena chiesto di essere servito in uno dei bicchieri capovolti posti sul bancone (intende cautelarsi dall’ingestione di polveri contaminate insieme alla bevanda). La donna lo approccia, capisce che l’uomo è in città perché coinvolto nelle operazioni sulla centrale, gli chiede se bisogna preoccuparsi. Legasov, controllando un’istintiva difficoltà, risponde di no. Una bugia. In questa fase dell’emergenza, a evacuazione non ancora ordinata, probabilmente inevitabile. Comunque una bugia. Con triste ma acuta ironia, la sceneggiatura di Mazin farà in seguito scoprire a Legasov che quella donna era in realtà una spia del Kgb. Che sapeva dunque la verità dietro la sua reticenza… I tanti volti della menzogna.

Conclusioni

Nella realtà, come detto, Legasov non partecipò al processo su cui Chernobyl si chiude. Aveva una famiglia di cui la trama non fa menzione. Né nascose le registrazioni del suo j’accuse al sistema, ma le passò a un amico giornalista. Neanche le ragioni del suicidio sono mai state chiarite del tutto. Per ammissione dell’attore che lo interpreta, non aveva nemmeno una personalità così marcatamente da studioso discreto: era una voce di peso, con piglio, nel suo ambiente. Molte di queste alterazioni dei fatti sono ammesse da Mazin [2]. Lo sceneggiatore però, fa un punto d’onore degli sforzi compiuti per essere veridico nello scrivere una storia improntata al tema della verità. Lo spiega nel podcast con cui ha deciso di accompagnare e commentare gli episodi [3]. L’autore vi dichiara il criterio seguito per render conto di eventi storici attraverso un copione di fiction. Un testo, quindi, da piegare a esigenze drammaturgiche e di intrattenimento che un documentario non avrebbe avuto. Nella stesura dello script, la regola cui lo sceneggiatore si è attenuto è stata quella di cambiare l’accaduto solo laddove era necessario per facilitare lo spettatore nel seguire una ricostruzione che offrisse un quadro d’insieme, completo, sulla tragedia. E questo sarebbe stato impossibile, ad esempio, senza un protagonista che accompagnasse il pubblico fino al termine, offrendogli un punto di vista conosciuto ed emotivamente carico sul dibattimento conclusivo. D’altra parte, osserva Mazin, la scelta di denuncia attribuita a Legasov in quelle circostanze altro non è che un condensato delle tante scelte da lui effettivamente compiute, criticando la gestione sovietica delle centrali atomiche. Alienandosi il suo mondo. Finendo solo.
Pare dunque giusto riconoscere a Mazin di aver lavorato creativamente per aver unito punti effettivi (il suicidio, la presentazione di un report onesto ma incompleto all’Agenzia internazionale per l’energia atomica di Vienna, e così via). Il risultato: un disegno personale ma convincente. Il cui maggior pregio è di aver saputo elevare un passaggio della contemporaneità ormai dimenticato a metafora di valori universali. Offrendo un terreno di riflessione che va oltre Chernobyl. Un exemplum morale cui appoggiarsi quando si ha la tentazione di chiudere gli occhi davanti alla verità. Per questo, ad opinione di chi scrive, la miniserie regge l’accostamento con il miglior cinema d’ispirazione storica. Ad esempio, quello di Steven Spielberg, con "Salvate il soldato Ryan" (1998), "Munich" (2005) o un grande capolavoro come "Schindler’s List" (1993). Anch’esso su un uomo che si redime dall’iniziale compromissione con un regime.

 

Note

[1] Craig Mazin, "How to write a Movie", in Scriptnotes - Episode 403, Link al sito 

[2] Per le critiche e le riflessioni sugli scostamenti di "Chernobyl" dal dato storico si veda "Chernobyl: what's true and what's fiction in the popular miniseries", Ukraine Crisis Media Center, 7 Giugno 2019, Link al sito

[3] Peter Sagal e Craig Mazin, The Official Chernobyl Podcast, Link al sito

Chernobyl
Informazioni

titolo:
Chernobyl

titolo originale:
Chernobyl

canale originale:
Hbo, Sky Atlantic

canale italiano:
Sky Atlantic

creatore:
Craig Mazin

cast:

David Dencik, Col O'Neill, Alan Williams, Adrian Rawlins, Sam Throughton, Robert Emms, Paul Ritter, Emily Watson, Adam Nogaitis, Jessie Buckley, Stellan Skarsgård, Jared Harris 

anni:
2019