Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
9.0/10

Il cinema dev’essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole.
E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito
(Sergio Leone)

 

Rick (Di Caprio) è un attore di western di secondo piano, il suo amico Cliff (Brad Pitt) è uno stuntman, sua controfigura. Rick, senza speranze di carriera, è nervoso e indolente. Cliff invece perfettamente cool, a suo agio al posto suo: ammicca alle ragazzine, ma è sbruffone il giusto. Sono simpatici. Niente vessazioni a danni di neri o donne, nessuna strategia di vendetta. Il cinema di Tarantino è definitivamente cambiato, il ragazzaccio geniale ha lasciato il posto a un autore più moderato. Inevitabilmente più nostalgico. Almeno sembra, per buona parte del film. Anche i dialoghi sono più semplici. Scambi di battute brevi, niente irresistibili circonvoluzioni o digressioni. Nessun fuoco d’artificio verbale fra due tipi perfettamente comuni, nel loro genere. Per due ore, "Once Upon A Time… In Hollywood" procede con ritmi distesi e dilatati, tenendosi distante da una narrazione forte. Beninteso, rimane un film capace di intrigare, catturare lo spettatore, affascinarlo.

Esclusa l’ultima mezz’ora, sui cui accadimenti è opportuno tacere, quello che nel 2019 torna a Cannes a 25 anni dalla storica Palma d’Oro a "Pulp Fiction" è un Tarantino diverso. Che sia un film di Tarantino (bellissimo) rimane a dircelo il fatto che tutto giri intorno al Cinema - e alla sua mecca, Hollywood, richiamata nel titolo - per la prima volta oggetto diretto di un racconto di Tarantino. E, naturalmente, che sia un film di Tarantino ce lo dice il consumato mestiere con cui qualsiasi cosa diventi oggetto di racconto, acquista fascino per come è messa in scena.

L'apice delle prime due ore del film viene raggiunto in una memorabile macrosequenza in cui le vicende dei due personaggi, vicende ordinarie di un’ordinaria giornata, vengono raccontate in parallelo intrecciate a quella di Sharon Tate (Margot Robbie). Le tre linee narrative raccontano anche tre condizioni diverse del cinema. Sharon, moglie del regista Polanski sulla cresta dell'onda per il successo riscosso l’anno prima da "Rosemary’s Baby", è attrice di una produzione di serie A che, in un pomeriggio di noia, decide di andarsi a rimirare al cinema, per vedersi sul grande schermo come in uno specchio magico. Rick, sul set di un film, ha modo di confrontarsi con una bambina di 8 anni, che scopre attrice del suo stesso western, alla sua età già piena di ambizione e di talento. Cliff vaga in auto per le strade di Los Angeles e carica su una giovane hippie, si fa portare a un set dismesso che è ora una comune. Si tratta dello Spahn’s Movie Ranch, dove risiedono i seguaci di Charles Manson. Sharon fa tenerezza, è evidentemente la più lontana dalla realtà. La giornata di Rick rappresenta il culmine del suo ritratto, crepuscolare e a suo modo struggente. Nella vicenda di Cliff monta una tensione crescente, che la trasforma quasi in un wrong turn movie in cui gli hippie sono descritti come dei bifolchi poco raccomandabili (e infatti...). Ma Cliff non è lì per loro, né per la ragazzina (che teme minorenne): è voluto venire per rendere omaggio a un vecchio attore (Bruce Dern) con cui ha lavorato anni prima e che, ormai dimenticato, vive lì quasi come un barbone. Il cinema di serie A, con le sue dive di Beverly Hills, il cinema di serie B e quello che ormai è già passato (il ranch-set dismesso). Tre tipi di cinema tutti sul viale del tramonto in un 1969 che è anno di passaggio, fra il cinema classico ormai boccheggiante e la New Hollywood di là da venire. Anno che è anche quello di "Easy Rider", pellicola che porta le stimmate di essere contemporaneamente un avvio della nuova stagione hollywoodiana e segno dei tempi, con il sogno americano della Summer of Love già soffocato dalla violenza.
La strage di Bel Air del 1969, pugnalata al cuore della "Fabbrica dei Sogni", è un trauma che rappresenta, per gli anni 60, una doccia gelata, un atroce risveglio, alla Realtà, dal Sogno (quello della Summer of Love e del Sessantotto). Corrisponde, come trauma, all’assassinio di Kennedy, punto di svolta per la storia degli Usa in cui dopo le illusioni degli anni 50 l’America perse per sempre la propria ingenuità.

Nell’ultima mezz’ora, il film cambia passo. Inizia una storia, fa irruzione la Storia. O meglio, la Realtà. Diciamo solo che "Once Upon A Time… In Hollywood" diventa d’improvviso una resa dei conti fra il Cinema e la Realtà. Qualcuno storcerà il naso, di fronte a questa torsione narrativa. Specie se era stato affascinato da quel niente che viene prima, raccontato in modo sublime, che aveva rapito con il suo cocktail ineffabile di ironia ed elegia, sbruffonaggine e malinconia. La pellicola diventa "tarantiniana" (se vuol dire ancora qualcosa, dopo questo film).
Occorre che stavolta sia il Cinema a prendere la sua rivincita. E si badi bene: non il cinema pre-New Hollywood, non il cinema classico, non il cinema di serie B, o quello di serie Z. Quello che si prende la sua rivincita è il Cinema in senso assoluto. Una rivincita tutta tarantiniana: come quelle di Jackie Brown, della Sposa, di Django, di Shosanna. Il Cinema che si prende la sua rivincita è quello che stiamo vedendo oggi, qui, su questo schermo. Il finale di "Once Upon A Time… In Hollywood" è un regalo che Tarantino fa agli spettatori perché godano della magia del Cinema, perché possano tornare a sognare.
Poi si accenderanno le luci in sala, si dovrà tornare alla Realtà. C’è tempo. Finché siamo in sala, per Tarantino come per Sergio Leone, il compito del Cinema è farci sognare.


23/05/2019

Cast e credits

cast:
Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Al Pacino, Margot Robbie, Timothy Olyphant, Kurt Russell, Dakota Fanning, Emile Hirsch, Margaret Qualley


regia:
Quentin Tarantino


titolo originale:
Once Upon a Time... in Hollywood


distribuzione:
Warner Bros.


durata:
159'


produzione:
Heyday Films, Sony Pictures Entertainment, Visiona Romantica


sceneggiatura:
Quentin Tarantino


fotografia:
Robert Richardson


scenografie:
Barbara Ling


montaggio:
Fred Raskin


costumi:
Arianne Phillips


Trama
Los Angelse, 1969. A Hollywood si consumano gli omicidi della famiglia Manson; intanto un'attore in declino e la sua controfigura, nonché fidato amico, cercano di farsi strada nella giungla dell'industria cinematografica, incrociando Sharon Tate.
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