Ondacinema

recensione di R. Capra, G. Gangi
8.0/10

"Già allora portavo nell'anima mia il sottosuolo. Avevo una tremenda paura che in qualche modo mi vedessero, m'incontrassero, mi riconoscessero. E giravo per vari luoghi molto oscuri."
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo


Damiano e Fabio D'Innocenzo hanno esordito nel 2018 con "La terra dell'abbastanza", storia di amicizia fraterna e criminalità ambientata a Roma. Quel precoce successo collocò Damiano e Fabio nell'alveo del linguaggio espressivo codificato da "Gomorra" (2008) di Matteo Garrone, regista col quale avevano peraltro collaborato per la sceneggiatura di "Dogman" (2018). I D'Innocenzo apparivano come registi che con uno sguardo personale s'inserivano in un preciso contesto produttivo e cinematografico, ma si trattava di un errore di prospettiva: ai due fratelli interessava sì inserirsi ma per andare a esplorare un loro mondo di cui "La terra dell'abbastanza" mostrava solo alcuni segni. È "Favolacce" (2020) il film della svolta che, sin dal titolo, si rivela quale manifesto poetico e bacino di idee ancora da coagularsi su ambizioni più temperate, mediando influenze e ispirazioni esterne. Alle "favolacce" è assegnato il compito di esplorare immaginari vischiosi e piani inclinati della moralità e "America Latina" (2022) spinge ancora di più il cinema dei D'Innocenzo nell'ambito di una ricerca formalista in cui l'immagine cinematografica viene plasmata per riflettere (su specchi e liquidi) stati mentali torbidi, zone d'ombra che oscurano la percezione della realtà, immediatamente sbalzata nell'intimità di uno sguardo ottuso e contaminato dal male circostante. Il paesaggio diviene così il centro propulsivo della ricerca di "Dostoevskij", finora il saggio più maturo e apice del percorso dei fratelli più amati (e odiati) del cinema italiano.
"Dostoevskij" è infatti un'opera che sin dall'incipit si mostra come termine di un percorso in cui l'analisi del male e delle sue origini è messo in serie a un parallelo movimento di allontanamento da un centro ideale che, per i D'Innocenzo, cresciuti nella provincia di Latina, è Roma. Se dunque il primo film è un "racconto crudele di gioventù" romana, a partire dalla Spinaceto che ospita le villette in cui crescono i bambini cattivi di "Favolacce", proseguendo verso la Latina astratta di "America Latina", si approda a questa galleria di non-luoghi, componenti di una geografia disintegrata e spiazzante, semantema chiave per comprendere il progetto estetico dei D'Innocenzo. Una manciata di film usciti negli ultimi anni hanno affrontato la geografia italiana da una diversa angolazione, tramite la lente della distopia, come ad esempio "Mondocane" di Alessandro Celli e "La terra dei figli" di Claudio Cupellini, entrambi del 2021, e "Siccità" di Paolo Virzì dell'anno successivo. Il percorso dei D'Innocenzo, però, non è un esperimento isolato ma un unicum nel cinema italiano che, tra alti e bassi, sta anche supportando un nuovo movimento.1

1. Il sogno di un uomo ridicolo

La prima immagine inquadra un fiume che curva a destra, mentre sulla riva sinistra c'è una casa. Mentre fuori campo una voce cavernosa inizia a parlare, il montaggio scandisce una serie di istantanee che descrivono quanto accade: una giacca della polizia; numerosi flaconi di compresse vuoti, disposti ordinatamente su un tavolo; una lettera vergata in stampatello, con una penna blu; la foto di una giovane ragazza attaccata al muro; un uomo steso a terra, supino. Enzo Vitello (Filippo Timi) viene presentato nell'atto di suicidarsi, tramite questa sua voce che sembra provenire dall'oltretomba. Dopodiché lo spasmo vitale di un corpo che combatte contro il proprio sé, resistendo alla morte autoinflitta: viene salvato da una telefonata in cui il suo superiore gli annuncia una strage.

"Pensa a un deserto", così i fratelli D'Innocenzo hanno guidato Filippo Timi nella costruzione del personaggio che nelle prime scene si muove pesante e caracollante, vomita in primo piano, ansima e grugnisce. Enzo viene partorito da questo paesaggio inquinato, dalla casa dalle pareti scrostate, la cui mancanza di cura e di calore sembrano contigue alla propria mostruosità. Il protagonista diventa ossessionato dalla complessa indagine su un serial killer inafferrabile che lui stesso battezza Dostoevskij, considerando rilevante l'elemento rituale di una lettera lasciata sulla scena del crimine a uso e consumo degli inquirenti. La sua posizione viene però intaccata dall'arrivo di un giovane e brillante investigatore (Gabriel Montesi), chiamato ad affiancare la squadra, provocando l'irritazione di Vitello che non manca di mostrarsi riottoso a collaborare col nuovo arrivato.

Fin dall'inizio appare chiaro come la prossimità ai territori narrativi battuti da Nic Pizzolatto e Cary Joji Fukunaga in "True Detective" siano più circostanziali che sostanziali. Perché, come detto, "Dostoevskij" è innanzitutto la manifestazione più compiuta e completa del cinema di Damiano e Fabio D'Innocenzo che hanno colto al volo la proposta di Sky di una produzione seriale che nelle loro mani si è trasformata in un film lungo cinque ore (e distribuito in sala in due atti), un viaggio al termine della notte dell'anima del protagonista. I registi piegano però l'analisi metafisica a un materialismo corporale e pertanto, non ironicamente, penetrano il personaggio tramite una colonscopia (omaggio a "Diamanti grezzi" dei fratelli Safdie). Da qui inizia l'esplorazione delle viscere di Enzo Vitello e del mondo che vede, appoggiandosi anche a Filippo Timi, il quale sfodera il suo gigantesco repertorio d'istrione misurandosi con un personaggio bestiale e misterioso.

2. Umiliati e offesi

La prima parte del segmento intitolato "La città dei figli sbagliati" si ricollega all'incipit, mostrando un presentimento di Vitello riguardo l'indagine. Il poliziotto si sofferma su un passaggio della lettera di Dostoevskij ("Vi ho guariti da quest'assurda malattia di vivere") che ha in lui una strana risonanza: coglie cioè come la lettera lasciata dall'assassino sia una dichiarazione di intenti e un canale di comunicazione privilegiato. Così, quella stessa notte, esattamente come fanno i killer, torna sul luogo del delitto per lasciare a Dostoevskij un messaggio in cui chiede di continuare a scrivere perché lui resterà in ascolto. La corrispondenza segreta tra omicida e investigatore è costruita sul montage delle spoglie ambientazioni che ospitano i delitti del serial killer, luoghi postatomici se non postumani. Sono diapositive che compongono una geografia i cui valori sono piuttosto chiari, rappresentando relitti di una società sbriciolata in cui case, villette, autolavaggi, panifici, sono monadi di una sconfinata ed eterna periferia. Enzo Vitello si muove con apparente agio, scorge invisibili fil rouge che lo conducono sempre più vicino a una figura fantasmatica i cui contorni vuoti potrebbe calzare perfettamente.

La seconda parte dell'episodio, dedicata al rapporto con Ambra (Carlotta Gamba), figlia tossicodipendente abbandonata da bambina, è figurativamente speculare. Il direttore della fotografia Matteo Cocco riesce all'interno del medesimo segmento narrativo a costruire due realtà complementari tramite un lavoro sulla luce e l'esposizione: Ambra viene fuori dal buio di una loschissima casa abitata da spacciatori, all'interno di un quartiere in cui la cementificazione ha preso possesso del paesaggio, mantenendo lo scheletro vacante di un quartiere in cui sembrano risiedere solo rifiuti sociali e urbani. La giornata trascorsa con Ambra porta con sé colori caldi e naturali che illuminano flebilmente il mondo di Enzo prima di essere nuovamente inghiottito dall'assenza di luce, dal nero pece della notte e da viraggi acidi (rosso, verde, blu) che sconvolgono la palette cromatica.

La distrazione dall'indagine assume un ruolo dirimente per delineare la relazione padre-figlia che qui vive un ultimo momento di distensione. Carlotta Gamba, con rabbia e delicatezza, descrive una giovane donna incastrata in un'infanzia mai a fondo esperita e rimasta latente nello sguardo sgranato sia per rabbia, sia per stupore; nei ricordi di bambina ormai remoti, esplode il rancore mai sopito che la figlia nutre nei confronti del padre, genitore che d'altra parte alimenta un non-detto in quelle reticenze che si assommano alle assenze. Perché Enzo ha abbandonato sua figlia? Glielo domanderà anche l'amico Antonio, in quell'ultimo rimasuglio di amicizia virile che viene messa in scena dai D'Innocenzo con una sequenza in macchina ad alto tasso alcolemico. Infine, un'altra telefonata interrompe la rinnovata genitorialità di Enzo che si precipita su un'altra scena del delitto, per sincerarsi se si tratta di un canonico suicidio o di un'altra vittima di Dostoevskij.

3. Le notti bianche

Celando il rinvenimento fortuito della lettera di Dostoevskij nel corso dell'ispezione dell'ultima scena del delitto, Vitello indaga ormai in solitaria avendo l'intuizione che il killer possa essere un orfano. La parola chiave che dà il titolo all'episodio, "Il contenitore", è ciò che l'investigatore cerca in un processo che segue gli schemi propri dell'hard boiled. La sua è un'indagine fondata su una metodologia novecentesca, analogica: intuito, ispezioni, interviste, abilità nel ricomporre un puzzle che possa offrire il ritratto del serial killer. Come già accennato, in "Dostoevskij" i D'Innocenzo si sbizzarriscono nel mettere in scena i paesaggi più squallidi, i pavimenti più lerci, le dimore più inquietanti che il cinema italiano ricordi da tanti anni a questa parte, almeno all'interno del cosiddetto mainstream. Benché possano superficialmente essere accostati alla ricerca pasoliniana sulle periferie italiane e, più recentemente, al primo tempo cinematografico di Matteo Garrone, Damiano e Fabio D'Innocenzo sembrano guardare alla materia di cui è fatto il mondo per estrarne una poesia oscura e densa di maledettismo. Non c'è sacro né sacralità, nemmeno nel suo ribaltamento cinico genialmente espresso dall'opera di Ciprì e Maresco nel corso degli anni 90, restano le rovine di un mondo che è stato contaminato da un Male mefitico che tutto inquina e corrompe, fino al collasso della civiltà. Infatti i personaggi si agitano in quello che appare un tempo sospeso o parzialmente disallineato rispetto alla contemporaneità, così come l'evanescente corpo dell'immagine è fornito dalla pellicola in 16mm di cui Cocco esalta le bruciature.

La magnifica cinematografia di "Dostoevskij" prosegue la lezione di "Viaggio in Italia" (celebre libro di fotografie a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone e Enzo Velati), che Arturo Fabio Quintavalle nei suoi appunti introduce asserendo che la fotografia avrebbe puntato sui vuoti, sulle assenze, sul non-esistente delle periferie, dei margini, rifiutando gli universi dipinti e la retorica spaziale delle città ideali. Se in Ghirri il paesaggio subisce una trasfigurazione talvolta mitico-favolistica, talvolta lirico-nostalgica che ammette l'accesso a un universo figurativo più ampio, i D'Innocenzo sono invece attratti dalle abitazioni isolate, dal muro scalcinato, dal vetro rotto, presenze di una disarticolazione sociale e urbana che produce un mondo ormai incomprensibile i cui strappi non possono essere più ricuciti. In tal senso, "Dostoevskij" è un'ennesima favolaccia che sfrutta i topoi narrativi del poliziesco ma adopera un lessico cinematografico proveniente dal giallo e dall'horror italiano. I long take, le soggettive (e false soggettive), l'uso repentino dello zoom di matrice argentiana (o fulciana) mettono in scena il mondo di Enzo Vitello, preda della sua ossessione febbrile e della metastasi morale che ha divorato il paesaggio. Anche il palazzo abbandonato che una volta ospitava un orfanotrofio e ora è in stato di sfacelo, con la vegetazione infestante che si è parzialmente riappropriata degli spazi, è un luogo che ha un'eco gotica, dentro il cui perimetro il poliziotto trova indizi in maniera simile al Marc Daly di "Profondo rosso".

4. Memorie dal sottosuolo

Il vero titolo dell'episodio, "Porte", evoca un senso di transitorietà e passaggi, forse irreversibili. Si aprono a Vitello le porte dell'orfanotrofio in cui è cresciuto l'assassino, luogo di traumi e violenze. Si chiude per sempre la porta che conduce ad Ambra, dal momento in cui Vitello le rivela che il vero motivo dell'abbandono era l'impulso sessuale che provava verso di lei bambina. Il colpo di scena del quarto episodio illumina ciò che la colonscopia aveva già suggerito in principio: l'indagine non riguarda il serial killer ma piuttosto il male oscuro che lo spinge a uccidere. Un male che Vitello sente affine in quella memoria emersa dal sottosuolo, il ricordo incancellabile di un male mai assecondato, mai condisceso, ma pur sempre un male che marchia, che rende alieni da ogni rapporto familiare o sociale, dissolve ogni illusione di pace, un tormento sordo e costante come il battito cardiaco.

Così Vitello lascia la Polizia, vende persino la casa, brucia ogni traccia dietro di sé e continua ossessionato la sua indagine tra periferie desolate che ricordano il vecchio West o gli avamposti incendiati di "Apocalypse Now: Redux". Sparita ogni traccia dello Stato, degli uffici che dovrebbero rappresentarlo. Un'umanità allo sbando va avanti per inerzia, appalesando nelle tenebre polverose della campagna laziale la dimensione politica del racconto. Difficile non ricordare lo scandalo del Forteto, comunità fiorentina di accoglienza per minori fondata e gestita da Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi che dal 1977 fino al 2018, grazie alla complicità e all'incompetenza di magistrati, alti prelati e autorità locali, ha continuato a perpetrare maltrattamenti e abusi sessuali su minori malgrado le ripetute condanne per molestie, sfruttamento di lavoro minorile e atti di libidine violenta. Se da una parte i D'Innocenzo si ispirano ai cromatismi e ai movimenti di macchina del primo Refn, alle gesta di Zodiac e alla crudezza di Haneke, dall'altra innestano il loro cinema di fiabe terribili, rimettendo al centro dell'immagine l'eccentricità della periferia, il suo degrado radioattivo, contagioso e contaminante, la miseria che immiserisce, il corpo stanco e claudicante di antieroi abbandonati a un realismo eretico, laddove eresia significa "scelta" (hairesis), e la scelta consiste appunto in questa radicalità ostinata e contraria.

5. Delitto e castigo

"Mai vista stagione peggiore". Una campagna buia e umida in cui la notte maschera il volto delle persone, e si ode soltanto un'eco di pioggia e l'abbaiare dei cani. È qui che Vitello rintraccia Esposito, il fornitore d'armi del killer. Non è Italia, non è nemmeno America. È puro West, territorio oltrefrontiera, dove i salotti assomigliano a bivacchi e le persone parlano meno delle pistole. Anime dannate e solitarie che vivono un settimo cerchio dantesco, quello dei violenti contro il prossimo. Vitello, ormai senza distintivo né freni, si cala senza sforzo in questa matta bestialitade. Il duello rusticano con Esposito è una sequenza magistrale lavorata per sonorità e sottrazione che troverebbe residenza in un qualsiasi Spaghetti Western.

Dopo la quale, non resta che attendere la morte; per Esposito quella vera, e per Vitello quella incarnata nelle fattezze del killer, attirato con l'inganno a casa di Esposito. La discesa nell'abisso di Vitello, ormai inarrestabile, è accompagnata da litanie in voice-over che ne accentuano l'incomunicabilità e il solipsismo, tratti che sembrano estendersi in una correlazione oggettiva con gli ambienti. Il montaggio ellittico, scabro, laconico, non fa che aumentare la sensazione di trovarsi in un punto liminale tra il più crudo dei realismi e la più cupa delle fiabe. Di reale c'è il metallo delle pistole, il legno tarlato, il vetro impolverato, l'erba bagnata e il fango scavato dalle impronte degli pneumatici. Di fiabesco c'è che i personaggi dei D'Innocenzo vivono tutti da nomadi, da raminghi, senza cravatte e climatizzatori, sradicati per sempre da ogni illusione domestica, da ogni ritualità civile, vittime di un castigo innominabile, insensato e universale, come una perversa legge di natura che rende superfluo ogni concetto di giustizia.

6. Il sosia

Come ogni Western che si rispetti, il finale fa rima con duello. Uno scontro brutale in una campagna asciugata di luce, con una regia che lavora per sottrazione tenendo alta la suspense usando più che altro la colonna sonora. Spari, vetri infranti, motore che sbuffa e che romba, urti sulla carrozzeria. "Non siate crudeli con un finale", recita il titolo. Non è che i D'Innocenzo siano stati proprio di parola. Il resto dell'episodio è un lento, crudo confronto tra un Dostoevskij agonizzante e un Vitello che aspira a raccoglierne l'eredità, la maschera. Vampirizzato dalla colpa mai espiata per un delitto mai commesso (la pulsione pedofilica mai condiscesa verso la figlia), Vitello occupa tra i vivi l'unico posto che gli spetta, quello di omicida rituale che adopera la violenza come mezzo paradossale per riunirsi a una società da cui si riconosce espulso a causa di una colpa naturale, che cioè non è figlia delle sue libere azioni ma di una natura necessaria e inevitabile che agisce su di lui.

Per questo non concordiamo affatto con quanto si è scritto altrove, che "Dostoevskij" usi i codici del poliziesco per riflettere sulla pulsione di morte. Qui la pulsione di morte, intesa in senso psicoanalitico classico come tensione autodistruttiva verso l'inerte beatitudine della materia inanimata, c'entra poco o niente. Al contrario, quella di Vitello è pulsione di vita, principio di piacere e di realtà tutto insieme, volontà di partecipare all'ordine sociale nell'unico modo che vede possibile, ovvero come principio di disordine che semina morte. Come il Nosferatu herzoghiano, come lo Chigurh di "Non è un paese per vecchi", Dostoevskij è un agente del caos che incarna pulsioni inconfessabili che diventano, in ogni società civile, oggetto di rimozione. Tuttavia ogni trauma rimosso torna a infestare il potere che lo rimuove, perché è l'unica tattica di sopravvivenza di cui dispone. Ecco che allora Vitello, dal tentato suicidio della prima puntata, trova infine un modo di sopravvivere: diventare il sosia di Dostoevskij, incarnarsi nella maschera del killer, nella serialità delle uccisioni, nella ritualità delle lettere.

Come ogni trauma opera una disconnessione, così il rito opera una riconnessione attraverso la ripetizione di una struttura, pursivoglia tragica, efferata. Svuotato di ogni sembianza umana, divenuto pura struttura, infinita insensata ripetizione del trauma, Vitello/Dostoevskij può continuare a infestare le periferie acquitrinose dove muffe verdi e gialle fanno capolino su muri di cemento armato, mentre la sua assenza spettrale permette ad Ambra di continuare a vivere, alla primavera di ritornare.


1 Damiano e Fabio D'Innocenzo, in questi anni, hanno supportato idealmente o attivamente alcuni esordi alla regia, come quelli del videomaker Trash Secco ("Bassifondi", 2023) di cui hanno scritto la sceneggiatura, di Alain Parroni ("Una sterminata domenica", 2023) e Simone Bozzelli ("Patagonia"), entrambi presenti sul set di "America Latina".


24/06/2025

Cast e credits

cast:
Filippo Timi, Carlotta Gamba, Gabriel Montesi, Federico Vanni, Leonardo Lidi


regia:
Fabio DInnocenzo, Damiano DInnocenzo


distribuzione:
Vision Distribution


durata:
296'


produzione:
Sky Studios, Paco Cinematografica


sceneggiatura:
Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo


fotografia:
Matteo Cocco


scenografie:
Roberto De Angelis


montaggio:
Walter Fasano


costumi:
Luca Canfora, Elena Del Guerra


musiche:
Michael Wall


Trama
Enzo Vitello è un poliziotto tormentato dal difficile rapporto con la figlia Ambra, abbandonata da tempo e sulla via della tossicodipendenza. Presto dovrà confrontarsi con un serial killer, chiamato da lui e dai suoi colleghi Dostoevskij, questo perché dopo aver ucciso lascia dei messaggi con riflessioni sul senso della vita e della morte.