Ondacinema

7.5/10

Dopo una carriera dedicata alla realizzazione di documentari filmati e radiofonici, Jonas Poher Rasmussen ha realizzato il suo primo animadoc, termine derivato dalla crasi fra animated e documentary con cui si indica un film riguardante «gli eventi reali presentati in animazione» [1]. Il lungometraggio è stato preceduto da quattro anni di interviste, registrate e filmate, fatte da Rasmussen al suo amico d’infanzia Amin Nawabi: questo è solo uno pseudonimo, dato che il protagonista del film è un rifugiato e ha bisogno di nascondere la sua vera identità al fine di non avere conseguenze da un punto di vista legale. Tutta la sua esistenza è stata caratterizzata da questa necessità imprescindibile, tanto da un punto di vista politico e giuridico (la falsificazione dei dati personali gli ha garantito uno statuto di rifugiato dopo essere fuggito prima dall’Afghanistan in guerra e poi dalla Russia negli anni immediatamente successivi al disfacimento dell’ex U.R.S.S.) quanto da uno relativo alla sua identità profonda: Amin è, infatti, omosessuale ed è nato e cresciuto in una nazione, l’Afghanistan, in cui questa realtà non era (come non lo è nemmeno ora) assolutamente accettata, tanto da, come viene sottolineato durante il film, non possedere neanche una parola per indicare questo concetto.

Dopo anni caratterizzati dalla fuga da se stesso e dalla menzogna rivolta agli altri per salvare la propria vita, Amin sente quindi il bisogno di riallacciare i fili che compongono la sua esistenza e la sua identità, aiutato in questo processo doloroso e faticoso dal suo amico regista. Rasmussen ha infatti  prima condotto e poi rappresentato un’intervista che ricorda molto la terapia psicoanalitica, a partire dal dialogo in cui viene chiesto all’amico-paziente di lasciar affiorare la memoria tramite la libera associazione dei pensieri, oltre alla presenza, dalla prima inquadratura del film, del lettino su cui si sdraia Amin per favorire il flusso di coscienza. "Flee" si basa quindi largamente sulla rappresentazione e sul racconto dell’interiorità del suo protagonista, tramite la ricostruzione soggettiva del suo passato e della sua individualità, ricordando in questo altri grandi capolavori del documentario animato, come "Valzer con Bashir" di Ari Firman e "Persepolis" di Marjane Satrapi. Tuttavia questo lungometraggio non si riduce ad essere un semplice flusso di coscienza, una testimonianza soggettiva di un individuo reale che si interroga sul proprio vissuto e sulla propria individualità: “Flee” è anche il resoconto della rappresentazione della realtà di un soggetto singolo da parte di un altro che lo ascolta e lo stimola affinché continui, oltre ad essere anche l’interpretazione del racconto dell’amico da parte del regista (è infatti Rasmussen che realizza il lungometraggio, non Amin, che si pone dunque solo come intervistato).
Ogni rappresentazione, di qualsiasi forma sia (letteraria, filmica, ecc.) non consiste tanto nella raffigurazione della realtà a cui si riferisce, ma testimonia «l’atto appropriativo del soggetto sul reale» [2]. Infatti, «l’autore di un documentario, incontrando una realtà, è chiamato prima di tutto ad ascoltarne il racconto: quello di chi abita quella realtà prima di lui, o, se parliamo di un’opera autobiografica, quello sedimentato nella sua memoria personale» [3]. In "Flee" assistiamo a tre appropriazioni sul reale da parte di due soggetti: a un primo livello, il racconto di Amin relativo al proprio vissuto (quindi l’ascolto della storia sedimentato nella sua memoria personale); ad un secondo, la narrazione di questo racconto, durato quattro anni di interviste e documentato dalle registrazioni effettuate da Rasmussen (quindi la testimonianza dell’ascolto della storia di Nawabi); ad infine un terzo, la rielaborazione personale da parte del regista del racconto dell’amico (l’appropriazione – quindi la personale interpretazione - del resoconto di Amin da parte di Jonas Poher). 

“Flee” è la testimonianza di una performance realizzata da due individui, quella che nasce dalla relazione fra un soggetto che ascolta e uno che parla, oltre che dalle rispettive realtà e singolarità: quella realmente esperita dal protagonista e rievocata dal ricordo, insieme a quella (altrettanto realmente) vissuta dal regista, cioè l’ascolto (e l’appropriazione) di queste memorie. Si tratta del resoconto dell’incontro tra due soggetti e due realtà evocate, dunque non immediatamente presenti ma “di secondo grado”, tanto a causa dell’assenza di materiale registrato che attesti questi fatti, quanto per la difficoltà di rappresentare in senso filmico il vissuto emozionale con cui il soggetto ha esperito questi eventi, sia affrontati in prima persona che ascoltati. La forma animata è stata quindi scelta per via di queste motivazioni, essendo in grado di svolgere una triplice funzione: garantire l’anonimato ad Amin, rassicurandolo e aiutandolo così a raccontare se stesso; sopperire all’assenza del materiale visivo necessario per raffigurare il vissuto del protagonista; produrre un racconto soggettivo, in grado di ancorare alle immagini la soggettività di chi le racconta, così da realizzare una storia declinata secondo la narrazione di sé, un monologo interiore che avviene per immagini. Sotto questo ultimo aspetto, “Flee” si avvicina enormemente a "L’immagine mancante" di Rity Panh, dato che entrambi scelgono di evitare le immagini mediatiche: nel caso del primo film, quelle televisive e dei cinegiornali (nonostante che brevi stralci vengano comunque inseriti nel racconto); nel secondo, le immagini false, asservite al partito comunista cambogiano e che non hanno davvero raccontato la storia del Paese ma solo simulato in modo propagandistico i presunti benefici apportati dal regime. Entrambi i lungometraggi hanno scelto di sostituire queste immagini mancanti con una narrazione soggettiva che sarebbe comunque impossibile da filmare: una narrazione che si affida all’animazione per colmare il «filmabile "vuoto" della realtà» [4], sostituendolo con un «apporto evocativo ed emozionale […] non subalterno ma complementare alla funzione documentaristica che contribuisce ad ampliare la resa dell’oggetto documentato (filmato) con un punto di vista emozionale» [5].

Quello di "Flee" è un formato ibrido, formato da tre ambiti distinti che vengono tanto accostati quanto usati per potenziarsi vicendevolmente: le riprese dal vero, la registrazione delle voci reali di Amin e del regista e, infine, le animazioni. Partiamo da queste ultime: i disegni di "Flee" sono stati realizzati dal Sun Creature Studio di Copenaghen, che sceglie di creare uno stile variegato, in modo da aderire alle varie tonalità del racconto. Si passa quindi dal realismo del ritratto rotoscopico [6], al bozzetto stilizzato, usato soprattutto per le sequenze dedicate ai momenti più difficili e duri della vita del protagonista, come la sequenza in cui viene raccontato la fine del tentativo di raggiungere la Svezia via mare, caratterizzata da immagini oniriche e offuscate, con figure umane tratteggiate sommariamente e indistinte, oltre che prive dei connotati del volto. L’afflato realistico del lungometraggio viene sottolineato da più fattori: in primo luogo dai filmati che vengono inseriti di tanto in tanto fra le animazioni, ad esempio gli stralci tratti da servizi giornalistici televisivi, da cinegiornali d’epoca e da riprese amatoriali. In secondo luogo, dalle voci reali dei due principali personaggi del film (Amin e il regista), provenienti dalle registrazioni audio che sono state effettuate durante i quattro anni di interviste e che conferiscono un indubbio effetto realistico all’intero lungometraggio. In particolare, lo spettatore si trova di fronte al contrasto fra quanto può vedere sullo schermo, in particolare certe scene molto forti come la traversata sul mare e lo stupro della ragazza durante l’inaugurazione del primo McDonald’s di Mosca, e il tono di voce di Amin, sempre flebile e pacato, mai scosso dall’emozione perché impegnato a vincere la propria naturale timidezza e la riservatezza in cui è stato obbligato a vivere per interi decenni. In terzo luogo, l’ancoraggio al reale è determinato dall’inserimento nel linguaggio animato di marche testuali afferenti al documentario: il regista decide di strutturare alcune scene e inquadrature ricorrendo a stilemi tipici del linguaggio del cinema del reale. Ad esempio, le scene che raffigurano l’intervista al protagonista presentano delle decisioni formali e di regia differenti rispetto a quelle rappresentanti la sua storia (e quindi i suoi ricordi): se le seconde sono caratterizzate da una telecamera più mobile e dalla maggiore presenza di campi lunghi, le prime, invece, si segnalano per la fissità della macchina da presa e per inquadrature più ravvicinate, volte ad abbracciare le due persone che stanno colloquiando. Le scene dedicate alle interviste sono inoltre caratterizzate da leggeri errori di messa a fuoco, come se si trattasse di riprese effettuate al momento e in fretta, per cui la macchina da presa non è riuscita a mettere a fuoco correttamente dopo un movimento brusco, oltre che da piccoli jump cut: il montaggio del discorso di Amin è caratterizzato da piccoli “salti” per tagliare le parti in cui balbetta o non parla mentre cerca mentalmente le parole a scapito della continuità della presa diretta [7]. Infine, vale la pena segnalare anche l’inizio e la conclusione di "Flee": il film si chiude su brevi racconti successivi ai titoli di coda, riguardanti ciò che accade ai personaggi del film, facenti parte dello stereotipo narrativo dei lungometraggi basati storie vere. Inoltre si apre con del materiale che sarebbe stato tagliato in un lungometraggio basato su riprese dal vero: i progressivi aggiustamenti dell’inquadratura che vedono Amin spostarsi seguendo le progressive indicazioni del regista al fine di collocarsi esattamente al centro dell’immagine. Questa scena ha anche un valore metaforico e introduttivo, volendo simboleggiare la focalizzazione del discorso sul protagonista, la volontà di metterne a fuoco la sua individualità dopo anni in cui è fuggito e si è nascosto.

Il lungometraggio adopera questi tre elementi formali in modo che si potenzino a vicenda: le voci registrate e i filmati conferiscono veridicità all’animazione, mentre i disegni permettono di permeare la narrazione con l’emotività dei due soggetti narranti, oltre a affermare il proprio intento realistico riproponendo alcuni stilemi linguistici propri del documentario. Tuttavia il rapporto tra questi tre elementi è anche caratterizzato dalla conflittualità e dallo scarto: ne è un esempio la scena riguardante la fine del tentativo di fuga in Svezia via mare. Le immagini di repertorio dal vivo mostrano le autorità estoni che raggiungono l’imbarcazione dei trafficanti di esseri umani e trasferiscono i rifugiati sulla barca della polizia marittina. Improvvisamente si ha un stacco repentino che contrasta nettamente con le immagini appena viste: allo spettatore vengono proposti dei disegni stilizzati in bianco e nero raffiguranti figure umane minacciose prive di volto e finalizzate a rappresentare la cocente delusione dei profughi per la traversata fallita, oltre che il terrore verso la polizia estone. Il film ha quindi un rapporto ambivalente con la propria controparte documentaria: da una parte sembra voler confermare e rafforzare la propria tensione realistica adottando tutta una serie di marche testuali derivate dal linguaggio documentaristico; dall’altra, nello scarto, sottile ma presente e folgorante, sembra voler denunciare la penuria di quest’ultimo, l’impossibilità del documentario classico (delle immagini colte in media res da un osservatore esterno, come quelle registrate da un operatore televisivo) di rendere conto della profondità del reale. Sembra dunque denunciare la mancanza costitutiva di un’osservazione esterna di natura positivistica (determinata e definita dal distacco tra chi osserva e la realtà osservata) al fine di giustificare la scelta dell’animazione, in grado di conferire al materiale visuale un afflato che sia contemporaneamente oggettivo e soggettivo.

 

[1] L. T. Martinelli, Il documentario animato, Tunè, Latina, 2012, p. 6.
[2] A. Mileto, Il monologo animato, in "Fata Morgana Web", 28 giugno 2020. 
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] L. T. Martinelli, Il documentario animato, cit., p. 16.
[6] Rasmussen, infatti, non ha solo registrato le conversazioni delle interviste, ma ha anche girato dei video durante queste ultime, per poi consegnare tutto il materiale al direttore dell’animazione in modo che potessero trarne spunto per realizzare i disegni. In un intervista ha infatti dichiarato: «Il mio direttore dell'animazione ed editore aveva accesso a tutto il materiale video, quindi gli animatori avrebbero raccolto i dettagli dalle sue espressioni, da qualsiasi cosa accadesse nel video e inseriti nell'animazione». Cfr.: "’Flee’ director Jonas Poher Rasmussen: ‘It was always a story about my friend and our friendship’", in goldderby.com, 22 dicembre 2021.
[7] È lo stesso regista a dichiarare in un intervista l’intento di riprendere effetti visivi tipici del cinema del reale: «Volevo davvero mantenere la sensazione e l'autenticità del documentario usando queste piccole cose tratte dal documentario come i jump cuts. Quando la telecamera si muove un po', a volte è un po' fuori fuoco. Così ho pensato: "Ok, dobbiamo portarlo lì dentro per mantenere questa sensazione di documentario, di autenticità". Abbiamo cercato di inserire quante più cose possibili che potessero ricordare alle persone che questa è una storia vera. Non è finzione». Cfr.: "Interview: Jonas Phoer Rasmussen on Animating Authenticity in Flee", in slantmagazine.com, 3 dicembre 2021.

 

 


20/03/2022

Cast e credits

cast:
Daniel Karimyar, Belal Faiz, Amin Nawabi


regia:
Jonas Poher Rasmussen


titolo originale:
Flugt


distribuzione:
I Wonder Pictures


durata:
83'


produzione:
ARTE, Final Cut for Real, Left Handed Films, Mer Film, Most Film, Pictanovo, Sun Creature Studio, Vi


sceneggiatura:
Amin Nawabi, Jonas Poher Rasmussen


fotografia:
Mauricio Gonzalez-Aranda


montaggio:
Janus Billeskov Jansen


musiche:
Uno Helmersson


Trama

Amin Nawabi trova il coraggio di raccontare per la prima volta la sua storia: la guerra civile nel suo paese natio, l'Aghanistan, l'emigrazione in Russia, i tentativi illegali di recarsi nell'Europa Occidentale come rifugiato politico e, infine, la scoperta e l'accettazione del proprio orientamento sessuale.