Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
5.0/10

Dopo il riuscito e pluripremiato "Precious" (2009) e il controverso "The Butler" (2013), il regista afroamericano Daniel Lee insiste sulla tematica di sfondo razziale con un biopic dedicato a Billie Holiday, cantante di colore del secondo dopoguerra che, soprattutto con la canzone simbolo "Strange Fruit", da un lato teneva desta l’attenzione e la sensibilità dell’opinione pubblica sui diritti dei neri, dall’altro suscitava il disappunto dei settori più conservatori dell’establishement bianco.

Il film vuole essere l’esito di una lunga intervista rilasciata a Reginald Lord Devine (Leslie Jordan) e che si snoda attraverso una serie di flashback che abbracciano gli ultimi anni di vita (1947-1959) dell’artista. Ad opinione di chi scrive, tali analessi non sempre paiono ben congegnati, tanto che non è chiaro se alcuni episodi della vita della Holiday siano effettivamente andati come sono stati raccontati dal testo filmico o se essi non siano piuttosto il riflesso della proiezione mentale della protagonista. Passi il fatto che una narrazione cinematografica non possa essere un dettagliato ma freddo resoconto cronachistico; passi il fatto che la Holiday soffrisse di dipendenze e il filo logico della ricostruzione della sua vita possa artisticamente adombrare la precaria gestione del suo universo mnemonico, ma la distinzione tra fatti e vissuto, tra azioni e passioni, in un film con un incipit privo di backstory, dovrebbe essere più chiara. Inoltre, per quanto il pubblico venga coinvolto nel racconto, rimangono innegabili alcuni momenti di stanca, anche perché Daniels pretende di seguire più linee narrative. Queste potrebbero anche solleticare ulteriormente l’interesse dello spettatore, se solo fossero ben raccordate intorno alla figura della protagonista. Ma l’impressione è che il regista intenda seguire più obiettivi disperdendo così l’attenzione in rivoli narrativi inconcludenti. Perché, ad esempio, presentare Harry Anslinger, il capo della sezione narcotici dell’FBI e adombrare (già col titolo) lo spunto narrativo del thriller poliziesco o spionistico per poi abbandonarlo in favore di una sorta di mèlo, poco riuscito per il frettoloso approfondimento della figura dell’amasio? Quest’ultimo è Jimmy Fletcher, un agente sotto copertura che viene infiltrato nel variopinto entourage della cantante, vivido spaccato, questo sì, del proletariato di colore dell’America postbellica. Dopo aver tramato per incastrare la cantante grazie a una perquisizione farsa che la porterà all’arresto per possesso di droga, l’agente, davanti al giudice, ritratta facendo luce sulla macchinazione. Successivamente, avvicinatosi con ben altre intenzioni alla donna, se ne invaghisce. Inizia a questo punto una burrascosa relazione con la Holiday, minata dalle mire del suo agente, con il quale entra in conflitto. Ora, se teniamo conto del fatto che Fletcher continua a far parte dell’FBI, non ne viene estromesso, ma anzi intreccia un legame sentimentale in cui narratologicamente agisce come un comprimario, è evidente quanto la sceneggiatura del film lasci a desiderare.

Eccezion fatta per la protagonista, poi, un po' tutti i personaggi secondari sono stilizzati. Se infatti a Lee bastano poche inquadrature e battute per mettere in evidenza, ad esempio, il fatto che nella comunità bianca non vi fosse assolutamente quella monolitica opposizione o ritrosia nei confronti dei neri e della loro musica, la sensazione di una insufficiente introspezione dei personaggi secondari rimane. Perché non profittare, ad esempio, del dissonante giudizio di Fletcher e della moglie per imbastire una linea narrativa nella quale scavare più a fondo? I momenti più riusciti del film sono invece quelli in cui la protagonista, impersonata dalla cantante Andra Day, si esibisce. Qui bastano poche inquadrature efficaci, una fotografia azzeccata e la voce roca, graffiante per dare corpo a tutto il turbinìo di emozioni che dovettero agitare, prima, durante e dopo il palco, una stella di prima grandezza della musica afroamericana. Anche i costumi svolgono un ruolo decisivo e discriminante: inquadrata durante le esibizioni con le braccia coperte da eleganti maniche, viene restituita al pubblico in tutta la sua bellezza, mentre nel suo universo privato il regista indugia più volte sui segni incontrovertibili lasciati su di esse dall’eroina, senza sottacere gli stravizi della donna. L’infanzia fatta di violenza e anaffettività della cantante non viene mostrata, ma misuratamente adombrata, estrinsecata nel suo sguardo malinconico e nella sua acquiescenza perfino al linguaggio sboccato, oltre che alle relazioni malsane. In quest’ottica, ritorna evidente anche quanto appaia fuorviante il titolo del film: la cantante ingaggia sì un duello contro lo stato, ma nella propria dimensione privata sono i fantasmi del passato ad avere scavato nel suo io modellando la sua Weltanschaung.

Come è noto, la lunga presidenza Obama ha innegabilmente avuto una ricaduta sul mondo della cinematografia americana, quantomeno per aver riproposto, anche se non definitivamente risolto, la questione dell’effettiva equiparazione, non solo giuridica, tra bianchi e neri. Un confronto con altre pellicole ci pare dunque inevitabile. In "Green Book" (2018) il taglio da road movie ridisegna un quadro decisamente più completo del melting pot statunitense e delle dialettiche socioculturali che esso innesca. Emblematica la frase dell’autista italoamericano rivolta al protagonista: "Io sono più negro di te!". La solida sceneggiatura consente la presenza di sottotesti armonicamente legati al filo narrativo principale. Anche "Il diritto di contare" (2016) ci appare più riuscito del film di Daniels: alla ripetitività, rischio connaturato alle pellicole con ambientazione fissa, Theodore Melfi ovvia con un sistema dei personaggi secondari che, molto lentamente, evolvono attorno alla coerenza etico valoriale della protagonista. Anche le aiutanti della protagonista sono ben delineate, dando luogo a ulteriori linee narrative autonome ma allo stesso tempo ben coese a quella principale.            


18/05/2022

Cast e credits

cast:
Erik LaRay Harvey, Dusan Dukic, Trevante Rhodes, Natasha Lyonne, Miss Lawrence, Leslie Jordan, Andra Day


regia:
Lee Daniels


titolo originale:
The United States vs. Billie Holiday


distribuzione:
Hulu


durata:
126'


produzione:
Lee Daniels Entertainment, New Slate Ventures, Roth/Kirschenbaum Films


sceneggiatura:
Suzan-Lori Parks


fotografia:
Andrew Dunn


scenografie:
Daniel D. Dorrance


montaggio:
Jay Rabinowitz


costumi:
Paolo Nieddu


musiche:
Kris Bowers


Trama
Stati Uniti, fine anni '40. La cantante afroamericana Billie Holiday viene letteralmente trascinata a viva forza dal palco sul quale sta eseguendo "Strange Fruit", una canzone considerata sovversiva dalle autorità che, per mezzo dell'FBI, la seguono come un'ombra grazie a un agente sotto copertura. Il piano per stroncare la sua carriera dovrà consistere nel portarla davanti al giudice con l'accusa di detenzione di stupefacenti. Tutto sembra andare liscio fino all'arresto. L'agente sotto copertura, tuttavia, ritratta la deposizione. Egli si è  infatti segretamente innamorato della donna.