Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
7.5/10

L'angelo dei muri

"Il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra […]
e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola."

Shirley Jackson, "L’incubo di Hill House"


Se un autore cinematografico lo si riconosce dal fare sempre lo stesso film è ormai indubbio constatare l’autorialità di Lorenzo Bianchini, il cui "L’angelo dei muri" è l’ennesima rappresentazione della progressiva discesa di un individuo solo negli abissi della propria mente e storia, che sono gli stessi del mondo in cui si muove. Ciò che è cambiato in ormai più di 20 anni di cinema del regista friulano, oltre interessantemente all’età dei protagonisti, dagli adolescenti in "Radice quadrata di tre" all’anziano nell’ultima pellicola, sono la dimensione produttiva, la quale si è sempre più professionalizzata, e quella stilistica, che di pari passo è divenuta sempre più asciutta e controllata. Per quanto l’aumento del budget contribuisca a fare de "L’angelo dei muri" un film comunque più vario dal punto di vista stilistico (con svariati long take e pure un drone panoramico) rispetto a "Oltre il guado", il quale riduceva efficacemente l’horror ai minimi termini, ciò che colpisce fin da subito è l’adozione di una grammatica filmica tanto semplice quanto espressiva in virtù della sua meticolosa costruzione.

Il minimalismo è sempre stato un tratto stilistico del cinema del regista, e il fatto che sia diventato sempre più evidente con l’aumentare dei budget ne evidenzia la centralità nella sua visione del medium, culminando in questo dramma da camera (anzi, da appartamento) con un solo protagonista costretto dentro quelle pareti, sfondi bianchi su cui proiettare le proprie paure e i propri ricordi. Solo in momenti specifici (l’inizio e un paio di significative sequenze successive) è difatti consentito al protagonista interpretato ottimamente da Pierre Richard, e agli spettatori con lui, abbandonare l’appartamento fatiscente in cui si è letteralmente arroccato per evitare lo sfratto dal luogo in cui ha vissuti gli eventi più importanti della sua vita. Varie persone passano per il suo piccolo regno ma nessuno pare compromettere il suo stile di vita fino all’arrivo di una madre single e della figlia affetta da cecità, con la quale finisce per creare un particolare legame che pare echeggiare traumi passati e che serve a introdurre l’elemento orrorifico nella vicenda, o perlomeno la parvenza di quello.

Oltre alla produzione finalmente del tutto professionale, in cui si fa notare in primis l'espressiva fotografia del grande Peter Zeitlinger, ciò che distingue "L’angelo dei muri" dalle precedenti pellicole di Bianchini è la parziale fuoriuscita dall’immaginario di genere cui il regista è sempre stato avvicinato, facendo penetrare accenni orrorifici e thriller in un dramma psicologico in piena regola, in cui l’interpretazione degli attori comunica più tensione e spavento di qualsiasi jump scare. Si può a questo punto arguire quanto la progressiva riduzione della tipica congerie del genere horror, iniziata con l’elegante e glaciale "Occhi" nel 2010, abbia quasi necessariamente comportato il trascendere il genere e i suoi riconoscibili confini, ridotti ad archetipi in "Oltre il guado" e ora dissoltisi nei 100 minuti del dramma del solitario Pietro. La sovrabbondanza di cliché del genere presente in "Radice quadrata di tre" e "Custodes bestiae" ha lasciato il posto a uno stile quanto mai compassato, pur non abbandonando del tutto una grammatica registica tipicamente horror (l’incedere lento e dondolante di certi long take, la staticità della ripresa come preparazione dello shock, un accorto montaggio sonoro, etc.). Ciò porta forse al dissolvimento dell’horror nell’orrore della vita quotidiana, quello che tutti possiamo esperire, nonché ideale punto d’arrivo del decennale percorso di Lorenzo Bianchini di riduzione del genere ai minimi termini.

Si può suggerire che l’interesse nella decostruzione di generi affermati dell’industria da parte del cineasta udinese abbia influenzato anche la reinterpretazione del macrogenere drammatico, esplorato per la prima volta con questo film. La centralità dei dialoghi e il focus sull’espressività degli interpreti, i quali si possono definire due dei tratti più evidenti del cinema drammatico, vengono difatti messi in secondo piano in questo quasi one man show che è sì un tour de force attoriale, ma praticamente muto, con un interprete che al massimo borbotta e la cui espressività è ridotta alla scalcagnata fisicità di un ottuagenario. Insieme a lui si può effettivamente arrivare a definire l’appartamento il vero protagonista della pellicola, il quale finisce per riflettere il suo proprietario col suo "corpo" pieno di crepe e perdite, in cui i movimenti della macchina da presa sono lenti e cadenzati come quelli di un anziano, che pare quasi perdersi per corridoi che dovrebbe conoscere meglio delle sue tasche. Lo spazio assume come sempre un ruolo centrale nel cinema di Bianchini, divenendo immagine dell’incomprensibilità del reale e della difficoltà di trovare un significato, un centro gravitazionale in un luogo necessariamente così labirintico, così come lo diviene la narrazione che procede per interruzioni, analessi e visioni, finendo per confondere sempre più i piani narrativi, fino all’epilogo.

È a questo punto che la complessa struttura de "L’angelo dei muri" trova la sua quadra, chiarendo varie ambiguità e inverosimiglianze del racconto e ascrivendo la pellicola al macrogenere narrativo cui forse appartiene, quello del fantastico, o meglio ancora della fiaba. Già sfiorato con l’archetipicità di "Oltre il guado", il reame della fiaba è lo spazio in cui la semplicità della storia e la sua valenza morale si sostanziano a vicenda, dando peso ai vari riferimenti a favole e archetipici racconti fantastici che riempiono le interazioni fra la bambina, la madre e l’"angelo dei muri" che non vuole abbandonare il loro nuovo appartamento e finisce per vegliare sulla piccola. La natura fiabesca del film di Bianchini è evidente anche nel finale, assimilabile alla rivelazione di una minaccia o colpa ben più atavica e perturbante di quella temuta fino a quel punto presente in tutte le altre pellicole del cineasta friulano ma di segno opposto: per una volta il labirinto in cui l’individuo solitario si perde non ne diviene la tomba ma una via di fuga, per quanto irrealistica sembri. Basterebbe quest’ennesima variazione significativa nella stolida continuità per rendersi conto di quanto l’ultimo film di Lorenzo Bianchini sia un’opera fondamentale nel percorso di uno dei registi italiani più sottovalutati degli ultimi decenni, la cui fase più sorprendente ci si augura sia solo agli inizi.


23/05/2022

Cast e credits

cast:
Pierre Richard, Iva Krajnc, Gioia Heinz, Paolo Fagiolo, Alessandro Mizzi, Arthur Defays


regia:
Lorenzo Bianchini


distribuzione:
Tucker Film


durata:
102'


produzione:
Tucker Film, MYmovies, Rai Cinema


sceneggiatura:
Lorenzo Bianchini, Michela Bianchini, Fabrizio Bozzetti


fotografia:
Peter Zeitlinger


scenografie:
Lorenzo Bianchini


montaggio:
Lorenzo Bianchini


musiche:
Vanessa Donelly


Trama
L'anziano Pietro vive in un vasto e fatiscente appartamento di Trieste pieno di ricordi e rimpianti. Quando scopre di essere stato sfrattato, decide di costruirsi un minuscolo rifugio nascosto in un angolo dell'amato appartamento. Dal momento in cui si trasferiscono lì una madre single e la figlia affetta da una malattia degli occhi degenerativa però strani ricordi ed eventi cominciano a turbare la paradossale quotidianità del misterioso abitatore dei muri.