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recensione di Matteo Pernini

Quando Tennessee Williams chiese all'amico Elia Kazan di portare sullo schermo la sua tragedia in tre atti dal titolo "Un tram che si chiama desiderio", la risposta fu che sarebbe stato come sposare la stessa donna due volte. Appena tre anni prima, infatti, sotto l'attenta regia di Kazan, l'opera aveva conquistato i palcoscenici di Broadway, facendo proseliti anche tra i maggiori drammaturghi dell'epoca. Per Arthur Miller fu una rivelazione: "Mi bastarono pochi minuti per rendermi conto che l'opera e la regia avevano spalancato le porte a un altro mondo teatrale. L'anima di un autore, la sua voce avvolgevano quasi miracolosamente il palcoscenico [...] Questa regia era di fatto la migliore espressione di dieci anni di intenso studio sul Metodo Stanislavskij [...], era una forma di realismo così profondamente sentita da diventare uno stile" [1].
Non tutti, come è ovvio, furono entusiasti e sebbene il riscontro di pubblico fosse eccellente, la critica non mancò di sfogare il proprio risentimento verso un dramma che affrontava con inaudita sincerità la psicologia dei suoi personaggi, minacciando così gli istinti più raffinati della borghesia intellettuale.
La storia è presto riassumibile: Blanche DuBois (Vivien Leigh, al cinema), figlia di un'aristocratica famiglia del sud oggi in rovina, raggiunge a New Orleans la sorella Stella (Kim Hunter), sposata col sanguigno Stanley Kowalski (Marlon Brando). Tra i due nasce una sottile attrazione erotica fondata sul reciproco disprezzo: Blanche non sopporta la volgarità proletaria del cognato e questi, dal canto suo, odia la teatralità civettuola di lei, il suo fasullo senso di superiorità. Mentre, però, Stanley si fa scudo con la propria aggressiva virilità, Blanche, creatura fragile e delicata, finisce col soccombere alla crudeltà altrui.

I personaggi del dramma, gli abitanti della New Orleans degli anni Quaranta si comportavano come i ragazzacci di Wystan Auden, pescati nelle palestre di Berlino, quelli con cui bere, fumare e fare a pugni fino a stracciarsi i vestiti ("... you / must therefore be ready to / behave absurdly enough / to pass for one of The Boys / at least appearing to love / hard liquor, horseplay and noise" [2]). Non si fatica a comprendere perché un simile ritratto fosse considerato inaccettabile sul palcoscenico.
A destra l'opera fu giudicata eccessiva e disgustosa. Il sesso era ovunque, nelle magliette sudate e lacerate di Stanley, nei ceffoni tirati alla moglie, nella civetteria languida degli abiti svolazzanti.
A sinistra si criticò la dimensione sognante del testo, che ne metteva in ombra il dramma sociale. Mary McCarthy scrisse, sulla "Partisan Review" che il testo assomigliava a una "soap opera mancata sui litigi per monopolizzare il bagno".
Gli unici pareri critici che interessassero Kazan erano, però, due: quello di Eric Bentley (critico e traduttore di Bertolt Brecht) e quello di Harold Clurman (suo collega ai tempi dell'esperienza del Group Theatre). Furono entrambi negativi, l'uno per l'esagerata esibizione di erotismo sulla scena e l'altro per la presunta incapacità del regista di catturare il fulcro del dramma e cioè che le "aspirazioni, la sensibilità, il distacco dalla norma vengono nel mondo di oggi bastonati, ammaccati, screditati".

Kazan, che a dispetto del carattere scorbutico era particolarmente sensibile alle critiche, si sentì in dovere di rispondere, giustificando il proprio punto di vista sul testo. Questa fatica "critica" si aggiunse a quella fisica e mentale delle repliche e non è difficile immaginare perché, dopo tre anni, il regista non avesse più intenzione di rimettersi al lavoro sull'opera. Ogni stimolo era, per lui, esaurito. Fu solo l'amicizia di Williams a convincerlo a riprendere in mano "Un tram che si chiama desiderio".
Ma trasporre un'opera teatrale al cinema significa rileggerla nei termini di un diverso linguaggio. Il modo più comune per farlo è attraverso lo "sviluppo", cioè l'abbandono dell'unità di tempo e luogo. Se un personaggio fa riferimento alla propria infanzia, si potranno mostrare quei momenti, anziché lasciare che siano le parole a descriverli; ancora: invece di limitarsi all'ingresso sulla scena del protagonista, si potrà riprenderne il viaggio e così via. Il problema cruciale di questa operazione è che va a discapito della qualità più importante di un testo teatrale: la sua concentrazione. Distruggendo l'unità scenica in cui era pensato il testo, spesso si manda in frantumi anche l'efficacia del suo impatto emotivo. Kazan ne è ben consapevole e dopo aver redatto un copione provvisorio con scene aggiuntive sulla giovinezza di Blanche e la sua vita a Belle Rive, prende una decisione radicale: "avrei semplicemente fotografato la mia messa in scena teatrale del capolavoro di Williams, senza cambiare pressoché niente di ciò che egli aveva scritto per la scena" [3].
Quello che rischiava di trasformarsi in una versione romanzata e diluita del dramma, diventa un'opera di straordinaria modernità, in cui al realismo degli interpreti si sovrappone un apparato visivo fortemente onirico. Le scenografie perdono qualunque dato naturalistico per assumere i contorni sovraccarichi di un incubo barocco.
 In questo senso il film può quasi essere considerato un'opera sperimentale, per come si pone consapevolmente sotto il segno dell'eccesso, sempre a un passo dallo sconfinamento nel melodramma o, perfino, nell'opera lirica.

Stella

A dispetto del profondo disinteresse che la gran parte dei registi teatrali dimostra per le puntigliose indicazioni del testo, vi è un elemento ricorrente nelle messe in scena di "Un tram che si chiama desiderio": la scala che collega l'appartamento di Stella a quello della vicina Eunice. Si potrebbe essere tentati di suggerirne una lettura metaforica, data la vocazione di Tennessee Williams per gli oggetti-simbolo, ma questa scelta porterebbe fuori strada. Il valore della scala è essenzialmente narrativo, attorno ad essa si sviluppa una delle scene centrali del dramma, accuratamente restituita sullo schermo dall'attenta lettura registica di Kazan. Stanley, che ha appena colpito la moglie in un eccesso di rabbia alcolica, singhiozza disperato nel cortile di casa, urlando a gran voce il nome "Stella!", quando lei appare in cima alle scale. La figura di Stella, così come il film l'ha sinora costruita, non si discosta troppo dal generico modello di donna nel Sud del dopoguerra. Come Eunice, è consapevolmente arresa all'autorità del marito e vive di piccole, insignificanti rivolte, ma nel complesso la sua condizione è, secondo l'indicazione testuale dell'autore, di "quiete narcotica". Rimane a letto il più a lungo possibile, si acconcia i capelli, lascia le stoviglie nel lavandino, conserva i soldi nella sottoveste e trascorre l'esistenza sotto l'ala protettrice dell'amato Stanley. Ma questo non è tutto; la sua vita non è affatto la necessaria conseguenza di un carattere remissivo, al contrario è l'esito di una precisa rinuncia al proprio mondo interiore, lo stesso al quale Blanche si aggrappa con tutte le sue forze. L'esito di questa contraddizione è l'emergere sporadico di una vitalità inattesa, che, durante il ricongiungimento tra marito e moglie ai piedi della scala, prende le forme di un disinibito abbandono sensuale.
L'erotismo che intride la scena, per quanto (o, forse, proprio perché) allusivo e sotterraneo, è travolgente e non si fatica a comprendere le ragioni che spinsero i severi guardiani della moralità pubblica a calare le forbici censorie su questo momento del film. I tagli furono, in verità, pochissimi, appena un paio di inquadrature, ma la differenza è enorme.

L'uscita, nel 1993, del director's cut ci consente di confrontare le due versioni. In quella censurata Stella esce sul pianerottolo e, dopo il controcampo di Stanley in fondo alle scale, comincia a scendere ripresa in campo totale. Il volto è in ombra e, da lontano, la smorfia che percepiamo ci sembra di rancore verso il marito e i movimenti lenti, ondeggianti del corpo da attribuire alla confusione per la violenza subita.
Nell'audace versione originale, dopo l'uscita sul pianerottolo, Kazan avvicina la macchina da presa a Stella e un piano medio dal basso scopre sul suo volto l'ombra del desiderio, mentre si accinge a scendere i gradini con la sensualità di una gatta, pronta a punire il consorte per l'oltraggio subito. In un istante (e un rapido controcampo di sguardi) i ruoli si invertono, da vittima Stella diviene padrona della situazione; i suoi movimenti si fanno lenti perché allusivi, lo sguardo irruente, colmo di una libidine controllata. Sopraffatto dalla vergogna di sé e travolto come un infante dal vigore di una madre aggressiva, Stanley piega le ginocchia e china il capo in segno di pentimento. L'abbraccio che corona la riconciliazione trai due non ha più la tenerezza sognante degli abbracci di Blanche, è piuttosto il famelico appagarsi di un'attrazione carnale, destinata a culminare nel vicino amplesso.

Se la forza di questa scena è ancor oggi indiscutibile, possiamo a stento immaginare che cosa volesse dire all'alba degli anni Cinquanta, in pieno puritanesimo hollywoodiano, vedere un'affettuosa moglie rivalersi sulle violenze del marito, usando la propria sensualità come strumento di sottomissione.
Nei pochi secondi di quel piano medio l'abilità di Kazan disegna l'intero universo del personaggio; vi si legge tutta la frustrazione per una vita che Stella vuole credere perfetta, quando sa benissimo che non lo è. Basta, infatti, l'arrivo della sorella, che, al contrario di lei, non ha rinunciato alle illusioni della giovinezza, per incrinare, forse per sempre, il rapporto che la lega a Stanley. Blanche è una rivale, nella misura in cui incarna un'ideale poetico e letterario al quale lei ha voluto rinunciare per vivere una vita moderna. Il legame con Stanley è, allora, un baluardo contro la tentazione di riconoscere la propria sconfitta. Senza questo legame lei sarebbe come Blanche.

Stanley

Si è spesso detto che "Un tram che si chiama desiderio" rappresenta il "trionfo del Metodo", intendendo con questa espressione lo stile di recitazione messo a punto da Konstantin Stanislavskij e fondato sulla possibilità di ricondurre ogni movente o reazione di un personaggio al vissuto dell'attore, così da instaurare un'intima affinità tra i due e lasciare che l'interprete scopra nel proprio mondo interiore le ragioni di un'azione. L'effetto sul palco (o davanti alla macchina da presa) è il trionfo della naturalezza, la capacità di rendere vero, più che semplicemente credibile, ogni gesto scenico.

C'è un momento, in "Un tram che si chiama desiderio", in cui la rivoluzione operata dal Metodo nel cinema è più che mai evidente. In piedi, con una mano a sfiorare il braccio della moglie che gli volta le spalle, Stanley rivela a Stella la vita sregolata della sorella, i suoi ripetuti incontri con amanti occasionali e la vera ragione che l'ha spinta a lasciare anzitempo il lavoro di insegnante. È un momento di grande tensione drammatica e il modo classico di girare la sequenza sarebbe stato con i due protagonisti ripresi di profilo, le mani di lui a sorreggere le spalle di lei, che avrebbe, forse, voltato la testa in direzione del pubblico in un vago tentativo di divincolarsi, di rifiutare una inconcepibile verità. Kazan fa tutt'altro: lascia Stella di spalle e tiene la macchina da presa appena più distante del necessario, per catturare i movimenti di Marlon Brando, che, ad un certo punto, come senza pensarci, mentre parla toglie un piccolo filo di tessuto dalla camicia della moglie. È un gesto superfluo e silenzioso, che si nota appena, ma che restituisce in un istante la verità di un momento quotidiano tra marito e moglie e ne rivela il sottotesto di affettuosa intimità.
A dispetto di chi ricorda l'interpretazione di Brando per gli improvvisi scoppi d'ira, è soprattutto nei silenzi, negli sguardi marginali, nelle scene in sottovoce che si impone la grandezza della sua recitazione. Quando cerca di spiegare alla moglie i diritti che gli derivano dal Codice Napoleonico, anziché fissare lo sguardo su di lei (come ogni attore avrebbe fatto per concentrare l'attenzione del pubblico), sposta gli occhi sulla valigia e sulle mani di Stella che continuano a disfare i bagagli della sorella; quasi stia seguendo un altro filo di pensieri. Ancora una volta un gesto apparentemente dispersivo, superfluo in termini di pura narrazione, ma che non fatichiamo a ricondurre alla nostra quotidianità.

Per comprendere quanto profonda sia l'innovazione del Metodo, basti guardare alla coeva interpretazione, ne "La regina d'Africa", di Humphrey Bogart, che nel 1952 vinse l'Oscar per il miglior attore (Brando era solo candidato). Il suo personaggio, un capitano rozzo e ubriacone, non è troppo lontano dall'animalesca vitalità di Stanley Kowalski, ma la differenza è enorme. Bogart non tiene la bottiglia per il collo, la sua ubriachezza si manifesta al più in forma di canto stonato e quando abbraccia Katharine Hepburn ha più l'aria del boy-scout che di un volgare lupo di mare.
Attenzione, però, a non travisare il senso della riflessione. Non si vuole, qui, suggerire che le interpretazioni antecedenti all'opera di Kazan (e, in generale, quelle della Hollywood classica) siano da considerarsi fallimentari; l'obiettivo è sottolineare la loro profonda diversità. Prima di Marlon Brando e di "Un tram che si chiama desiderio" il modello di recitazione nel cinema americano  era incentrato su un fortissimo autocontrollo da parte dell'attore e la gamma espressiva era spesso limitata a pochi archetipi dominanti. C'erano, ovviamente, scene d'amore o di violenza, ma la loro natura era stilizzata, contenuta, tesa più a uniformarsi a precisi modelli estetici che a rendere realistica la messa in scena, tanto che negli anni Trenta Paul Muni, nella parte del gangster Tony Camonte in "Scarface", si vide dipingere le sopracciglia per accentuare l'aspetto scimmiesco del suo personaggio.
La recitazione di Brando costituì un nuovo standard e, in pochi anni, divenne (per intere generazioni di attori, da James Dean a Jack Nicholson, da Robert De Niro a Leonardo Di Caprio) il principale modello cui conformarsi.
Nessuno al cinema aveva mai camminato in quel modo, nessuno aveva osato una tale libertà nel dipingere le molteplici sfaccettature di un personaggio. In un impeto di rabbia Stanley può mandare in frantumi piatti e tazzine, aggredire verbalmente moglie e cognata, salvo poi, nella stessa scena, a distanza di poche inquadrature, rassicurare Stella sul loro futuro, ridendo teneramente con lei dei piccoli litigi dei vicini.
Possiamo immaginare che un operaio di New Orleans avrebbe riconosciuto se stesso e i propri amici in una simile caratterizzazione e se avesse visto il film al cinema, probabilmente avrebbe avuto l'impressione che le luci in sala non si fossero mai spente.

Blanche

Parlare di Blanche significa introdurre il vero mistero del film. Qual è la verità di Blanche?
Una certa corrente di pensiero ha spesso sostenuto che "Un tram che si chiama desiderio" sia una tragedia sociale, un dramma dei tempi odierni. Blanche diverrebbe, in questa visione, il simbolo di un anacronismo, una sopravvissuta del secolo XIX, incapace di adeguarsi alla modernità divampante.
Con i suoi abiti di seta vaporosi, i fronzoli delle gonne, i colletti coi volants Blanche cerca a tutti i costi di serbare una idea di femminilità aristocratica, che ha acquisito durante l'infanzia, ai tempi di Belle Rive.
I gesti eleganti, il portamento sinuoso, la delicata affettazione dei movimenti, sempre troppo ampi, esagerati, teatrali altro non sono che il lascito di una tradizione in frantumi, il residuo di una visione della femminilità come scrigno di purezza da proteggere, ormai indifendibile nel nuovo mondo edonistico e lascivo. Blanche è un'abile conversatrice, possiede uno spirito vivace e arguto ed è dedita a fantasie di bellezza dal sapore fanciullesco. Le lettere del marito defunto sono per lei "yellowing with antiquity" e vorrebbe bruciarle dopo che Stanley le ha toccate, Mitch è un Rosenkavalier al quale chiedere l'inchino, la Luna un volto da salutare nella folla di stelle; sul molo basta un tavolino e una candela per farle respirare l'aria di un café de Paris e sul finale, appena prima dello stupro, quando la realtà ha ormai infranto ogni suo desiderio, un diadema e una musica che suona solo nella sua mente sono sufficienti per inscenare un solitario gran ballo secondo la moda Ottocentesca.
Non è difficile capire il contrasto con Stanley, il cui universo pratico è ristretto alla conquista di un piacere fisico immediato; per lui i sogni di Blanche sono il sintomo di un animo fasullo e la sua condotta il riflesso di un insopportabile senso di superiorità. Il loro incontro è la cronaca di una tragedia annunciata.

Il critico inglese Kenneth Tynan ha ben sottolineato il valore di questo contrasto sociale, scrivendo che "quando, infine, [Blanche, ndr] viene condotta al manicomio, è una parte della civiltà ad andarsene con lei".
Vale, però, la pena di chiedersi se questo sia tutto. Davvero dobbiamo pensare che il dolore che questa tragedia dell'incomprensione porta con sé sia da attribuire alla sola visione di una società in decadenza?
A ben guardare c'è dell'altro; nel corso di tutta l'opera Blanche è mossa da quel che potremmo chiamare un "desiderio di morte", è attratta da ciò che la distruggerà. Pur sapendo che la reazione di Stanley sarà violenta, non esita un istante ad accendere la radio disturbando la partita a poker, a provocarlo con i riferimenti alla sua grossolanità, nonché a stuzzicare il suo lato lascivo con continue seduzioni. Sul finale, poi, è lei stessa a precludersi ogni via d'uscita. Perché tutto questo?
Il critico statunitense Harold Bloom suggerisce che Blanche sia, in fondo, una creatura letteraria [4]. L'origine della sua caduta non va ricercata nelle contraddizioni di una società imbarbarita, ma nell'immaginario poetico di Tennessee Williams, che apre l'opera con la citazione di una quartina del suo mentore Hart Crane e intravede in Blanche il vertice di un triangolo che li lega assieme, in unico destino. Che Williams, romantico fuori tempo massimo, avesse smanie autodistruttive è cosa nota e, a questo punto, non dovrebbe più stupire sapere che Crane si sia suicidato durante un viaggio in mare all'età di trentatré anni.
La verità su Blanche è, dunque, da cercare nelle ossessioni del suo autore, di cui condivide i desideri e le fantasie. Interrogata da Mitch sul proprio mestiere, gli rivela di essere un'insegnante di inglese e di avere una predilezione per Hawthorne, Whitman e Poe. Non si fatica a pensare che Williams avesse gli stessi riferimenti letterari.

L'immagine di Blanche come doppio dell'autore, una sorta di whitmaniana fallita, nella misura in cui la vitalità del suo desiderio la porta alla morte, è stata ben compresa da Kazan. A dispetto dei suoi colleghi, che nelle messe in scena a teatro enfatizzano gli aspetti sociali del dramma o ne fanno una generica tragedia romantica, Kazan è l'unico a osservare l'opera di Williams dalla giusta prospettiva: per lui è una tragedia poetica. Solo in questo senso si può capire il racconto che fa Blanche del suicidio del marito. Questa storia nutre il suo lato decadente, eccita la fantasia autodistruttiva che la sostiene e le permette di continuare a recitare la parte che ha scelto per se stessa.
La visione che Blanche ha di sé diventa, per Kazan, il punto di vista sul film. Gli occhi dello spettatore sono introdotti sin dall'inizio in uno spazio barocco (se è ancora possibile utilizzare il termine in senso antistoricistico), gremito, sovrabbondante, in cui luci al neon intermittenti sembrano far palpitare i primi piani e gli oggetti sono duplicati dalle loro ombre taglienti in una sorta di sconcertante horror vacui. Non è, ovviamente, uno spazio reale, ma il riflesso della mente della protagonista.
Consapevole dell'esigenza di trasporre un testo che basa la sua efficacia sulla violenza della parola teatrale, Kazan trasferisce la tensione di morte che domina la storia nel tessuto delle immagini. La macchina da presa non è più, come nei precedenti film del regista, un occhio che riflette la realtà sociale del tempo, ma una sonda capace di penetrare nelle viscere del racconto e portare alla luce la fonte viva dell'emozione. Scrive Kazan: "C'è una differenza tra la recitazione sulla scena e quella sullo schermo, benché in fondo il problema sia nei due casi lo stesso: di essere psicologicamente veri. Tuttavia sulla scena io devo prendere il fatto interiore per proiettarlo in un comportamento esteriore che sia abbastanza dilatato da essere visibile o da apparire eloquente a un pubblico. Al cinema potete fotografare una persona che pensa, potete fotografare il pensiero; la macchina da presa può anche essere utilizzata come un microscopio, è uno strumento che penetra" [5].

A emergere da questo scavo è la crudeltà dei rapporti interpersonali, tradotta nella fradicia materialità di magliette sporche, corpi sudati e volti impiastricciati. I ventilatori sono ovunque, nel film, ma non danno respiro, anzi diffondono ancor più l'afa maleodorante che intride senza scampo interni ed esterni. Questa corporeità esasperata, questa tensione verso gli oggetti non ha più il senso di un aggettivazione; i corpi non rappresentano la storia, sono essi stessi la storia. In questo modo si comprende quanto "Un tram che si chiama desiderio" abbia significato per il suo autore: è il simbolo di uno spostamento, della flessione verso un nuovo tipo di racconto, nel tentativo di esplorare le dinamiche sotterranee dell'inconscio e del Desiderio. In questo luogo rischioso e instabile, verranno d'ora in poi a collocarsi le sue opere.

Rispondendo alle obiezioni dell'amico Harold Clurman, Kazan scrive: "La mia concezione del Tram era [...] 'irrisolta'? La risposta è sì. La vita è un rompicapo irrisolto, e quando ci entriamo nessuno ci consegna un libretto di istruzioni [...] E 'tematicamente disturbante'? Sì, Harold, anche questo. Volevo contrariare gli spettatori, non lusingarli troppo rapidamente, non permettere loro di entrare troppo facilmente nel regno degli 'angeli'. Per arrivare così in alto dovevano lottare" [6].



[1] A Streetcar Named Desire, New Direction, 2004, prefazione di Arthur Miller.
[2] "... devi quindi essere pronto / a comportarti convincentemente / per passare per uno di loro / facendo finta che ti piaccia / far casino e gli scherzo pesanti / I liquori", dal poema di Wynstan Auden, Atlantis, traduzione di Franco Buffoni.
[3] Elia Kazan, A Life, Da Capo Press, 1997.
[4] Harold Bloom, Tennessee William's A Streetcar Named Desire, Chelsea House Publications, 2009.
[5] Citato in: Alfredo Rossi, Elia Kazan, Il Castoro Cinema, 1977.
[6] Citato in: Elia Kazan: Appunti di regia, edizioni Cineteca di Bologna, 2009.


23/03/2015

Cast e credits

cast:
Vivien Leigh, Marlon Brando, Kim Hunter, Karl Malden, Rudy Bond, Nick Dennis


regia:
Elia Kazan


titolo originale:
A Streetcar Named Desire


distribuzione:
Warner Bros. Pictures


durata:
122'


produzione:
Charles Feldman, Elia Kazan, Warner Bros. Pictures


sceneggiatura:
Tennessee Williams


fotografia:
Harry Stradling


scenografie:
Richard Day, George James Hopkins


montaggio:
David Weisbart


musiche:
Alex North


Trama
Blanche DuBois, figlia di un'aristocratica famiglia del Sud, oggi in rovina, raggiunge a New Orleans la sorella Stella, sposata col sanguigno Stanley Kowalski. Tra i due nasce una sottile attrazione erotica fondata sul reciproco disprezzo: Blanche non sopporta la volgarità proletaria del cognato e questi, dal canto suo, odia la teatralità civettuola di lei e il suo fasullo senso di superiorità. Mentre, però, Stanley si fa scudo con la prorpia aggressiva virilità, Blanche, creatura fragile e delicata, finisce col soccombere alla sua crudeltà.