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recensione di Pietro S. Calò

Shūkichi (Ryū Chishū) e Tomi (Higashiyama Chieko) lasciano la campagna di Onomichi per rendere visita ai figli che vivono e lavorano a Tokyo.
Lì ritrovano Kōichi, un modesto medico, e Shige, che fa la parrucchiera. Un terzo figlio, Shōji è disperso da otto anni e probabilmente morto ma è rimasto forte il legame con la nuora Noriko (Hara Setsuko). Dei due più giovani, Keizō vive a Osaka mentre la più piccola, Kyōko, vive ancora coi vecchi genitori ed è rimasta a Onomichi.
Il viaggio nella capitale si rivela ben presto deludente: i figli non hanno fatto carriera e sono anche molto cambiati, più duri, cinici e egoisti. Ben presto la vecchia coppia decide il ritorno a casa ma durante il lungo viaggio in treno Tomi ha un malore e, dopo una sosta forzata a Osaka, arriva moribonda a Onomichi. La famiglia si riunisce davanti il letto della madre agonizzante e poi ciascuno riprende la propria strada e ritorna alla propria vita.

Questo è il soggetto che in una parola si potrebbe definire “banale”.
D’altra parte aveva tutte le caratteristiche che convinse la Shōchiku a produrre quel cosiddetto “Shomingeki” (film sulla gente comune) permeato dallo “spirito di Ofuna”, un mix di quotidianità, naturalismo, intimismo, gioie e sofferenze, lacrime, sorrisi e tanto calore umano.
Insomma, uno dei tanti film di genere che la Shōchiku sfornava a tambur battente per il vivace mercato interno. Ma "Viaggio a Tokyo" spariglia il quieto mazzo della produzione seriale e porta alla ribalta un uomo che fu allo stesso tempo un grande innovatore della regia cinematografica e un vero e proprio maestro di vita.

Fu girato in un b/n a forti tinte chiaroscurali, di cui restano, pallida ombra, le bobine oggi in circolazione, tutte tirate da una copia in positivo poiché il negativo originale andò bruciato in un incendio.
La storia procede linearmente, a grandi blocchi narrativi nei quali il tempo della narrazione coincide quasi sempre con il tempo dello svolgimento, attraverso long-take giustapposti tra loro da semplici, e modernissimi già da allora, cut, stacchi secchi di montaggio raccordati in prevalenza sugli sguardi e instradati da un missaggio a doppia pista, anch’esso in cut, di dialoghi e rumori naturalistici che non si sovrappongono mai.
Ozu piazza la telecamera del fidato maestro Atsuta in posizione fissa e centrale e la poggia attraverso dei speciali stativi alla cosiddetta "altezza tatami", molto bassa insomma, quasi accolta nello spazio famigliare di quei circoli di personaggi inginocchiati e in grande intimità, e resta lì a testimoniare non tanto lo svolgimento dell’azione quanto lo scorrere del tempo.
È ormai assodato che Ozu fu l’inventore della cosiddetta "immagine-tempo", quella frattura del cinema moderno in cui il personaggio non è più soggetto di enunciazione, terminale dello stimolo-risposta comportamentista, ma, semplicemente, registra gli eventi che non sono più azione ma visione, in una situazione puramente ottica e sonora che invalida i processi più propriamente motori.
Questa fondamentale frattura, che Gilles Deleuze fissa in fase embrionale già nel neorealismo italiano (e nel suo precursore, "Ossessione" di Luchino Visconti, 1943) trova in Ozu il suo formalizzatore più incisivo poiché, come accennato, oltre una grande lezione di regia seppe apportarvi una cristallina lezione di vita.
Egli parte dalla banalità dello Shomingeki e apparentemente vi applica il principio del cinema comportamentista di stimolo-risposta, "l’immagine movimento" e l’applicazione di uno dei suoi canoni migliori, la "forme bal(l)ade" (ballata e passeggiata).
In apparenza, infatti, siamo testimoni del "vagabondare" di questa tenera coppia di anziani che si muove in circolo da Onomichi a Tokyo e ritorno, passando per le chiassose terme di Atami e per Osaka. Ma la natura di questo viaggio non sta in quello che quantitativamente vi succede ma in quello che qualitativamente si registra.
E allora registriamo suoni, di grilli in campagna contrapposti ai rumori della città; dialoghi "banali" di inspessimento e grana morale contrapposti a dialoghi "strategici", di decisione e azione; registriamo lo sferragliare del treno che declina in un battipanni che pesta, "da ciù-ciù-ciù a bat-bat-bat"; registriamo le corse dei locomotori che lasciano stazioni o le raggiungono (movimento) contrapposti ai lindi panni stesi ad asciugare (tempo); registriamo messe in quadro bilanciate e armoniche, cerchi chiusi e perfetti il cui perno è il patriarca, Shūkichi, oppure coppie perfettamente allineate sull’asse, siano esse persone, bottiglie, lampadari e che si contrappongono al disordine formale della “festa di nozze” alle terme di Atami; registriamo posizioni frontali che sono vere e proprie interpellazioni, dritte in macchina, rivolte allo spettatore con cui Ozu gioca il bastone e la carota.

Infatti, una caratteristica prorompente del cinema di Ozu e di "Viaggio a Tokyo" nello specifico è l’emergere di una enunciazione mai moralista. Ozu, attraverso il patriarca, non si esime dai giudizi di valore, negativi, sullo stato delle cose: stigmatizza l’anomia metropolitana, la sua andatura schizofrenica; riporta in luce il dolore della guerra perduta, dei lutti che ha provocato; accusa esplicitamente le nuove generazioni di non essere buoni figli coi loro padri. In tutto questo, tuttavia, non emerge né rimprovero, né vittimismo o colpevolismo ma semplice registrazione di fatti, il fluire delle cose e del tempo, entro cui ritrovare una qualche forma di armonia perduta.
Shūkichi è sì deluso dai figli, dalla loro involuzione sia sociale sia umana, ma non li accusa mai e anzi, si scopre, lui stesso non è stato un padre perfetto, dedito com’era al vizio del bere come ci fa vedere la più divertente sequenza del film nella quale si ritrovano tre vecchi amici che organizzano una rimpatriata a base di sakè e sono riaccompagnati dalla polizia in piena notte a casa della "terribile" Kōichi, la figlia di Shūkichi, che si dispera, frigna verso il genitore completamente privo di senno, lo sbatacchia, gli smanaccia il cappello e in tutto il lungo tempo della sequenza, in questa escalation di rabbia montante, il patriarca si addormenta e inizia a russare dolcemente, positivamente ubriaco.
Ai giorni nostri una sequenza siffatta sarebbe sintetizzata da vari stacchi di montaggio che avrebbero risolto in trenta secondi e cinque inquadrature il tempo di registrazione che Ozu lascia invece intatto nel long-take e che ancora ci meraviglia per la sua assoluta aderenza alla realtà, alle “cose come effettivamente sono”. Come effettivamente si svolgono.

È utile a questo punto ricordare l’omaggio che Wim Wenders dedicò a Ozu col suo documentario "Tokyo Ga" (1985).
L'autore tedesco ripercorre i luoghi di Ozu, intervista il maestro Atsuta che si fa riprendere abbracciato alla fedele Mitchell, la sua "fidanzata a tre gambe", si reca infine sulla tomba che accolse il grande regista giapponese appena sessantenne. Wenders vuole verificare sul campo una sua teoria, di tipo morale: la nuova Tokyo è ormai un “mostro infernale”, brulicante, ansiogeno, schizofrenico così come aveva preconizzato Ozu nei suoi film e in "Viaggio a Tokyo" in particolare.
A dimostrare ciò, Wenders punta la telecamera su un caseggiato popolare, immagine ricorrente nell’universo oziano, con il "50", la sua focale preferita che è una focale media che entra nel dettaglio di una porzione di spazio ridotta e schiaccia lo sfondo, annullando la profondità: questa immagine, dice Wenders, oggi non significa più nulla, ed è financo brutta.
Qui Wenders compie un doppio errore: intanto ne desume una lezione di moralismo che è incoerente con la personalità di Ozu, che mai aveva abbracciato tale piano del giudizio; fa poi un errore di “storia cinematografica” partendo dall’assunto che l’immagine-tempo di Ozu è di fattura naturalistica, documentaria e non invece frutto di una meticolosa messa in quadro. È un errore di valutazione che si compie spesso anche ai danni del Neorealismo italiano, giudicato spesso un cinema povero di mezzi e di sceneggiatura e quasi casuale, dimenticando che, per esempio, De Sica arrivava anche a picchiare gli attori per inculcargli una determinata posa o battuta.
La morale di "Viaggio a Tokyo" semplicemente non c’è: la fine del viaggio terreno di Tomi non porta conseguenze, nessuno ne esce né migliorato né peggiorato. Tutto scorre.

È evidente che l’interesse di Deleuze per Ozu ha travalicato il cinema per un campo più strettamente sociologico: come gli uomini moderni hanno sviluppato la strategia di indossare maschere, di essere lieti nella lietezza e tristi nella tristezza per tornare indistinti, pronti a indossare qualsiasi maschera al momento opportuno, insomma quella cartografia che il filosofo francese chiamava "organi senza corpo".
Eppure, se non un insegnamento resta un lieto fine, che nella problematica attribuzione al genere di “Viaggio a Tokyo” ci fa pendere dal lato della commedia più che del dramma, la registrazione di una piccola e preziosa utilità che da sola riesce a dare il senso a un’intera esistenza e ha per oggetto la più sincera, spietata con se stessa, gentile e sempre sorridente Noriko cui il patriarca regala il “fuorimoda” orologio della defunta Tomi.
Con un orologio, il tempo, e una promessa, l’azione che ne verrà e che non sveliamo, la sua vita potrà adesso prendere una direzione giusta, felice, armonica.

 

Biblio-filmografia consultata

Gilles Deleuze "L’immagine-tempo" (Ubulibri, 1997)
Dario Tomasi "Ozu Yasujiro: Viaggio a Tokyo" (Lindau, 1996)
Dario Tomasi "Ozu Yasujiro" (Il castoro, 1996)
Tokyo Ga (Wim Wenders, 1985)
Viaggio a Tokyo – Soshun (cofanetto doppio DVD, Minerva Video)


04/02/2012

Cast e credits

cast:
Ryū Chishū, Hara Setsuko, Higashiyama Chieko, Yamamura Sō


regia:
Yasujirō Ozu


titolo originale:
Tōkyō monogatari


distribuzione:
Shōchiku Eiga


durata:
136'


produzione:
Shōchiku Eiga


sceneggiatura:
Kōgo Noda - Yasujirô Ozu


fotografia:
Yûharu Atsuta


scenografie:
Tatsuo Hamada - Itsuo Takahashi


montaggio:
Yoshiyasu Hamamura


costumi:
Taizo Saito


musiche:
Saitō Takanobu


Trama
Che “Viaggio a Tokyo” sia stato un grande successo di pubblico e critica nel 1953 non fa strano; che lo sia tuttora, a settanta anni di distanza, ci fa sospettare che Ozu, oltre che grande maestro di cinema sia stato soprattutto un maestro di vita